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Autore: Chiccaxoxo    18/03/2024    0 recensioni
ObiIta; Obito x Itachi
IC, Canon Compliant, Canon typical behavior
Cos’è che ti tiene sveglio la notte, Obito? Non è l’incessante ticchettio della pioggia di questo maledetto posto.
[…]
No, non sono le magagne del passato a farti sobbalzare nel cuore delle tue notti tormentate.
[…]
È un dito che spinge e gratta dentro il tuo stomaco. Un’immagine che resta indefinita dietro gli occhi di Rin e sotto le lacrime di Kakashi. Non affiora mai in superficie, non la decifri, ma sai che è lì.
[…]
Nonostante tu ti sia straziato le dita con le schegge del suo cuore, hai voltato la testa dall’altra parte pur di non ammettere che non sei l’unico a esserti forgiato nel dolore.
Non hai l’esclusiva di niente, Obito. Molto più di quello che pensi vi accomuna.
Una volta qualcuno non ha detto che a governare la vita non sono gli eventi, piuttosto la reazione di chi li subisce?
Genere: Angst, Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Crack Pairing | Personaggi: Itachi, Obito Uchiha
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Naruto Shippuuden
- Questa storia fa parte della serie 'Non ricordo la tua faccia '
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Cos’è che ti tiene sveglio la notte, Obito? Non è l’incessante ticchettio della pioggia di questo maledetto posto, lo trovi quasi superfluo mentre s’insinua attraverso il sottile velo del sonno per fondersi con l’affanno dei sogni, ne sei talmente assuefatto da non sentirlo neanche più; finisce per essere familiare, combinato con le cellule di chi vive lì. Fa da costante sottofondo agli occhi di Rin, spalancati, sempre uguali. Lei ti guarda, non sono cambiati, ancora così grandi e con l'invitante colore nocciola. Cosa c’è di diverso, allora? Cosa manca nell’attimo che precede l’innaturale dilatarsi delle pupille? Hai sempre creduto nell’anima, un giorno la ritroverai e la riconoscerai tra mille.

Le lacrime di Kakashi che si dispera sulla tua falsa tomba hanno il suono di quelle gocce insistenti, scavano il tuo nome sotto un perenne cielo grigio. La bugia che sta lentamente uccidendo il tuo amico ha scheggiato la lapide, la persistente acqua del dolore la erode.

No, non sono le magagne del passato a farti sobbalzare nel cuore delle tue notti tormentate, vero, Obito? Non puoi neanche scaricare la responsabilità sui tuoni, in questo dannato villaggio finiscono tutti per farci l’abitudine.

È un dito che spinge e gratta dentro il tuo stomaco. Un’immagine che resta indefinita dietro gli occhi di Rin e sotto le lacrime di Kakashi. Non affiora mai in superficie, non la decifri, ma sai che è lì.

 

 

Un tuono più forte, neanche troppo eccessivo come intensità sonora, è solo diverso. Non romba, nessuna bassa frequenza fa vibrare le finestre, a far trasalire Obito è una scudisciata simile a una frusta.

Non capisce se era già sveglio, è arduo pescare proprio la risposta che serve nella matassa di incubi e rimorsi. Obito si preme le mani sulla faccia, la metà destra adesso è insensibile, come sempre quando non impegnata a infliggergli fitte a caso e senza motivo. Ansima con il cuore a mille e il petto compresso in una morsa, si arrotola tra le lenzuola intrise di sgradevole sudore freddo. Merita la sferzata appena sentita, ne prenderebbe altre mille dritte nel cervello se servisse a cancellare i suoi sbagli, se potesse restituire vita e sorrisi a tutte le persone che non può più vedere e a quelle a cui sta rovinando l’esistenza.

Senza togliersi le mani dal viso, si rigira a pancia sotto, affonda la testa che scoppia nel cuscino nel vano tentativo di placare quel tarlo che adesso lo tormenta anche di giorno. Quel baco che gli succhia il rispetto verso se stesso senza neanche avere la decenza di farsi vedere in faccia. Da quando ha iniziato a farsi scrupoli nei confronti della feccia che ha deciso di sfruttare?

Il dubbio lo rode, gli irrompe in testa senza permesso togliendo valore a Rin, mina i piani per cui è sempre vissuto, fa impallidire il vuoto a cui è stato condannato. Tenta di riempirlo, di farglielo accettare per andare avanti in una vita differente. Scava come quella dannata acqua, gli sfila il terreno da sotto i piedi un granello per volta in un sadico stillicidio. Gli si introduce subdolo nella mente bisbigliando che per camminare a testa alta è sempre necessario calpestare e perdere qualcuno. Ma è un inganno. Obito non ha più nessuno, è solo al mondo, ogni affetto in cui credeva è stato tradito e strappato.

Un genjutsu lanciatogli da Itachi? Probabile. Deve stare allerta, il suo sharingan menomato potrebbe non riuscire a competere con quello di Itachi.

La sua sofferenza non può essere invalidata da una stupida remora senza fondamento. Mantenere inamovibile l’astio verso chi lo ha reso un vegetale emotivo, e l’ostinato egoismo nel perseguire i suoi obiettivi sono le uniche vie per continuare ad avere riguardo del dolore patito.

Obito sa di non essere nato così, che quel bambino sorridente e fiducioso è rimasto sepolto da una valanga di tormento e ripudio. Ecco, i responsabili dovranno pagare. Senza sconti.

Impedendosi di cadere in ulteriori indugi, Obito si alza, iniziare la giornata è un dovere verso se stesso. Un altro passo verso la meta.

Si avvicina alla finestra, nonostante sia sveglio da circa un quarto d’ora, il tetro bagliore al di là del vetro non è cambiato. Grigio, stessa intensità, non si scorge niente attraverso i fiacchi rivoli di pioggia che tracciano contorti ghirigori sulla superficie. Impossibile intuire che ore sono dall’inclinazione della luce, ad Amegakure non sale mai oltre quel livello di fiochezza. Obito è nudo, il calore emanato del suo corpo appanna gli angoli. Sospira lasciando perdere la finestra, non ci sarebbe comunque niente da vedere a parte strade deserte e quei maledetti tubi, le curve a cui sono costretti per assecondare qualunque struttura li rendono ancora più brutti.

I tubi sono un materiale.

Tutto è costituito di tubi. Le pareti, i tetti, le strade, le scalinate, persino quelle che pretendono di essere statue o decorazioni.

Non si sfugge dalle gocce che sussurrano: ti vedo, so dove sei.

Il gocciolare del lavandino è discorde da quello proveniente dal tetto. La pioggia rotola nei tubi con un vago suono di pietruzze, attraversa le profondità dei muri per andare a dissolversi sottoterra.

Obito ignora entrambi mentre si occupa dell'orbita vuota. È essenziale una scrupolosa pulizia due volte al giorno: la sera per rimuovere i detriti della giornata inaspriti dall’uso perenne della maschera, la mattina per eliminare le lacrime rapprese. Le mani tremano, il sudore gli stilla dal mento seguendo i binari delle cicatrici ormai indurite.

Inutile procedere. Obito sbuffa, scaraventa con rabbia spugna e sapone nel lavandino, desidera solo ficcarsi sotto una doccia fredda.

L’acqua gelida gli mozza il respiro, le ombre di Rin e Kakashi gli scivolano lungo la pelle, la ragnatela di incubi allenta un poco le maglie. Ma qualcosa rimane lì, ostinato come una macchia di sangue. Non va via, è senza forma, non ha nome.

Obito soffoca, sbatte più volte la fronte sulle piastrelle, poi la lascia lì. Vorrebbe gridare di essere lasciato in pace. Prega, chiunque sia, di smetterla di guastargli gli obiettivi, di comprendere la sua sete di giustizia per il troppo male ingiustamente subito. Però, non riesce a spiccicare niente di assennato a parte un informe verso gutturale.

Sta a Obito non lasciarsi abbindolare dal venefico serpente che vorrebbe nutrirsi della sua anima, che andasse a pasteggiare con uno qualsiasi dei pusillanime che infestano il mondo.

Risoluto, balza fuori dalla doccia e si asciuga.

Non serve guardasi allo specchio per infagottarsi nella condanna quotidiana, ormai Obito conosce ogni pezzo a memoria e ha anche imparato a indossare tutto velocemente. Esala il primo respiro ovattato dalla maschera. Che lo spettacolo abbia inizio.

 

Tu conosci il motivo per cui oggi eviti accuratamente il corridoio su cui si affacciano le stanze dei sottoposti? Sì che lo sai, Obito.

Il covo di Amegakure può accogliere una sola squadra per volta, e cioè due componenti. È di stanza qui il gruppo che ha bisogno di nuovi equipaggiamenti, di sostituire quelli danneggiati o per l’urgente cura di ferite o problemi di salute. Si fermano, di solito, solo una notte. Non si sono ancora svegliati o si stanno preparando per iniziare le mansioni del giorno.

Scivoli di soppiatto, arranchi furtivo nella penombra. Lo conosci, sai che soffre d’insonnia almeno quanto te. Schivare quel tratto di corridoio abusando del Kamui sarebbe inutile, finiresti intercettato, ormai individua il tuo chakra a menadito, quasi sprigionasse un cattivo odore. Lo sharingan con cui vorrebbe friggerti il cervello è opera tua, aveva solo otto anni quando lo hai costretto a guardare il corpo dilaniato del suo amico che pendeva dalla tua mano.

Ti vergogni, vero? Far sbloccare un tale potere a un bambino così piccolo equivale a rovinargli la vita e tu lo sapevi. Eppure lo hai fatto, mostro. In nome del tuo egoismo. Volevi solo che quella dannata rivolta avesse luogo e hai calpestato cadaveri senza neanche guardarli in faccia.

Che fai, sei pentito? Si sta per caso affacciando il dubbio che tu abbia sbagliato?

Vai dritto convinto che solo il tuo dolore valga, pretendi la comprensione altrui e trucidi chi non ti soddisfa o si azzarda a difendere le proprie ragioni.

Ma tu comprendi lui? Ci hai mai provato, almeno?

Vedi quanta sofferenza sta sopportando?

Quando aveva tredici anni ti ha fatto infradiciare l'interno della maschera di lacrime un paio di volte, su, ammettilo. Non lo credevi capace di spingersi così a fondo nelle tenebre. Lo hai costretto tu, lurido verme.

Tredici anni e già il dolore lo aveva slabbrato, masticato, risputato e lasciato lì come spazzatura. Già possedeva quel mangekyou sharingan da cui ami svignartela, eppure lo hai visto ammazzarsi per contrastare la follia da te fomentata.

Tu metti il tuo dolore davanti a tutto il mondo.

Lui mette tutto il mondo davanti a se stesso.

Vorresti essere come lui, confessalo. Ammiri e invidi la sua capacità di non perdere di vista il bene malgrado le offese subite. Sei geloso e adori la bontà della sua anima che sopravvive a dispetto di odio e ingiurie vomitategli addosso dal mondo intero.

E, riconoscilo, la tua viltà ti impedirà sempre di buttare nel cesso la tua vita per ideali più grandi di te come, invece, ha fatto lui.

Siete simili, ma uguali no. Non succederà mai.

Sei tu a non essere alla sua altezza.

 

Per fortuna la maschera cela il sospiro di sollievo una volta giunto sano e salvo nella sala delle riunioni di Pain.

Le ombre si allungano dagli angoli bui per smangiarsi tutta la stanza, l’illuminazione è affidata all’unica finestra stretta e incupita dal meteo all’esterno. Obito apprezza solo la sagoma di Pain, occupa già il suo posto, tiene le mani intrecciate sul tavolo. Non servono parole o gesti per diffondere la spessa tensione, la cappa impenetrabile fa arrestare un istante i passi di Obito. Lo sharingan attivo è solo una proforma, non ci sarà nessun combattimento o reciproco furto di informazioni carpite dritte dalla mente.

Obito oltrepassa silenzioso la soglia per posizionarsi di fronte a Pain. Appena si siede, una porta mimetizzata dalla penombra si apre sulla parete di fondo. Come se avesse percepito il lieve scricchiolio della massiccia sedia di legno, Konan fa il suo ingresso trasportando una risma di fogli. Uno sprazzo di luce, sgusciato tra una nuvola e l’altra, guizza sui capelli blu della donna. Ma è un colore freddo, perciò non smorza l’atmosfera fosca. Quando perdono tempo in questi muti giochi di chiaroscuri e smorte tonalità è in ballo qualcosa di grosso, Obito ne avverte il peso nell’aria.

Konan si accosta alle spalle di Pain scampando ancora alle tenebre che avvolgono tutto il resto, cerca rapida tra i documenti e ne estrae quello che serve con sapienti gesti delle dita. Prima di tornarsene da dove è venuta senza proferire parola, non risparmia a Obito un'occhiata torva.

Tra loro non corre buon sangue dal giorno in cui Obito ha portato Itachi ad Amegakure. Attualmente il membro più giovane di Akatsuki, allora era poco più di un bambino. Konan conosce le innumerevoli colpe di Obito, questo l’ha spinta ad adottare un atteggiamento materno nei confronti di Itachi. In fin dei conti è una donna costretta a ritrovarsi davanti il cadavere del suo amato ogni giorno, non ha potuto realizzare il desiderio di maternità, sa di essere la causa della rovina di se stessa e dei propri cari. Obito non si ritiene così disumano da non riconoscere una persona non più intera psicologicamente. È tollerante e le concede pietà. Per ora.

Pain finge di maneggiare i fogli che ha davanti, però non ne pesca nemmeno uno e lo sguardo rimane fermo su Obito.

Lo sharingan lampeggia sotto la maschera per fotografare gli sprazzi di carta casualmente emersi, per qualche attimo, dalla pila. Obito raddrizza, con la mente, i pochi scampoli di immagini registrate, applica una specie di zoom per poter leggere le parole memorizzare qua e là.

Grave scompenso cardiaco. Da usare come palliativo. Dato riservato.

Qualcuno è molto malato.

“Naruto è solo con Jiraiya lontano da Konoha” Pain esordisce senza preamboli “Non possiamo farci scappare il momento di vulnerabilità.”

“Nessuno dei due è da sottovalutare” Obito frena a stento la proposta di occuparsene personalmente, indovina l’intenzione di Pain di affidare la cattura dell’Enneacoda alla squadra migliore, ovvero Itachi e Kisame. I due sono lì, ci hanno trascorso la notte. E, poco fa, Konan ha elargito quei documenti colmi di condanne a morte. Però, la certezza che siano rientrati a causa della salute di uno dei due non c’è, i fogli potrebbero riguardare chiunque, Obito non ha letto nomi. Al rinnegan non sfugge niente, Pain si è accorto dello sbirciare di Obito nell’attimo esatto in cui lo ha fatto “Cosa li ha spinti ad allontanarsi?”

“Il Terzo Hokage è morto” Pain continua monocorde, la voce sembra uscire per magia dal suo fantoccio prediletto “È stato Orochimaru, è riuscito a infiltrarsi grazie al corpo sottratto al Quarto Kazekage. Naruto e Jiraiya sono sulle tracce di Tsunade, è lei la candidata a Quinto Hokage.”

L’acqua rotola senza sosta nei tubi di cui sono infarcite le pareti. Scava e scava.

“Orochimaru potrebbe trasformarsi in un’atroce spina nel fianco, Pain. Non scordarti cosa è successo il poco che è stato con noi, punta sempre a Itachi o a chiunque possegga lo sharingan. Potrebbe attaccare alche altri se può far fruttare il loro corpo” sebbene Obito giri intorno all’argomento, è palese dove voglia arrivare. Spedire un malato terminale contro Naruto, Jiraiya e, eventualmente, Orochimaru equivale a inviarlo al mattatoio. Forse Pain non vede l’ora di liberarsi del sottoposto difettoso per avere l'opportunità di sostituirlo. Con Sasuke, magari. Esca perfetta, Naruto lo verrebbe a cercare cadendo dritto nella trappola.

Sì, le intenzioni di Pain sono chiare. Obito ha un groppo in gola che gli mozza il respiro, il cuore gli martella fino in testa.

Tuttavia, non sa chi è nominato nei documenti, si appiglia disperato all’evanescente scappatoia per non soccombere al panico.

“Non più. Sarutobi ha usato il Sigillo del Diavolo impedendo a Orochimaru l’uso delle braccia” Pain si china leggermente in avanti, un movimento impercettibile, studiato, quanto basta per fare emergere il viso impassibile e traforato di piercing dal buio “Orochimaru ha tentato di estorcere cure alla stessa Tsunade dietro la minaccia di un nuovo attacco a Konoha, ma lei ha desistito appena saputo che diventerà Hokage.”

L’acqua erode con infinita pazienza, non importa la durezza della roccia e quanto dovrà aspettare, alla fine la spunta.

Lo stesso fa il tarlo nel cuore di Obito.

“Non preoccuparti, Itachi e Kisame se la caveranno egregiamente” dopo aver letto il pensiero di Obito come attraverso un involucro di vetro, Pain si riadagia sullo schienale rituffandosi nelle ombre. Resta lì, immobile, Obito intuisce che si muoverà solo dopo averlo visto uscire.

“Riferirò le direttive alla squadra personalmente, subito” Obito si affretta ad alzarsi, teme di sentire altro o che Pain, vedendolo indugiare, cambi idea. Potrebbe aggrapparsi al pretesto di dover proteggere l'identità farlocca, meglio scongiurare che gli salti il grillo di appellarsi alla massima priorità “Mi conoscono entrambi. Kisame ha chiara la mia faccia dal giorno del reclutamento. Mentre Itachi…”

Si sa.

 

Di cosa hai urgenza di sincerarti, Obito? Perché hai iniziato praticamente a correre appena uscito da quel cubo di tenebre? Eppure, tu lo hai visto il suo viso segnato dalla sofferenza. Hai toccato con mano i sogni infranti di un tredicenne che ha perso l’unico amico mai avuto; lo hai costretto, senza pensarci due volte, a cancellare il futuro del fratello minore che tanto amava. Nonostante tu ti sia straziato le dita con le schegge del suo cuore, hai voltato la testa dall’altra parte pur di non ammettere che non sei l’unico a esserti forgiato nel dolore.

Non hai l’esclusiva di niente, Obito. Molto più di quello che pensi vi accomuna.

Una volta qualcuno non ha detto che a governare la vita non sono gli eventi, piuttosto la reazione di chi li subisce?

 

“Dannazione, mai un momento di pace” Kisame borbotta agganciandosi Samehada all’enorme fascia di cuoio. La sua mole intimorirebbe chiunque persino da seduto, Obito non può esimersi dal sobbalzare ogni qualvolta lo guardi in piedi.

Ma non è l’aspetto minaccioso di Kisame a trasformargli il sangue in un fiume di ghiaccio. Un proiettile lo raggiunge al cuore appena si avvede che i due non hanno chiesto nuove forniture o sostituito quelle vecchie.

Il cinturone di Kisame è leggermente logoro, così come le scarpe di entrambi. Le divise sono intatte e pulite, però il lieve scolorimento dei materiali ne tradisce l’età.

Non hanno armi aggiuntive.

Nessuno ha ferite fasciate.

Obito cerca spasmodico i segni dei suoi timori sul corpo di Itachi. È più pallido, i segni sugli occhi più marcati. Obito ne è stregato ancora, senza rimedio.

Però non ha letto il suo nome da nessuna parte, si chiede se questa supposizione sia sufficiente nella sua disperata arrampicata di specchi.

Itachi non spiccica parola, Obito sa che tra qualche ora partirà per la missione senza fargli sentire la sua voce. I due Uchiha sono entrambi taciturni e questo non può essere che positivo. La maschera mimetizza il deglutire difficoltoso, il serrarsi dei denti, l’impaccio che Itachi genera in Obito con la sua sola presenza.

Itachi non è cambiato di una virgola. Inespressivo, diligentemente infagottato nel mantello con la faccia nascosta da colletto e capelli. Si premura che solo lo sguardo non sia dissimulato da niente. Saldo, deciso. Nonostante l’eterno grido di dolore, mette in soggezione Obito persino adesso che non è acceso dallo sharingan.

Itachi intimidisce chi sa di aver sbagliato; resta dignitoso senza mai superare il labile confine con la strafottenza.

Obito non potrebbe mai restare impassibile come il ragazzo che ha davanti. Il dualismo dei sentimenti prorompe imperioso: odio, disprezzo, invidia per quello che Obito non riesce a gestire pur essendo più anziano di lui. Ammirazione che lascia il posto a prepotente complesso di inferiorità. Rimorsi che traboccano costringendolo a ponderare il senso di responsabilità verso quel bambino che ha deliberatamente sepolto lì.

Obito grida il suo dolore.

Itachi ingolla la sofferenza mettendo al primo posto il suo dovere di shinobi senza mai concedersi il minimo cedimento.

A Obito manca il respiro quando realizza che deve essersi ammalato per questo. Il corpo magro di Itachi è squassato da emozioni annichilite, schiacciato da quell'indicibile dolore che ha deciso di trasportare da solo. Come è possibile sopravvivere senza mai condividere sofferenza e lacrime? In che modo si può andare avanti privi di abbracci, carezze e amore? Quanto si può durare non potendo cedere qualche fetta della grossa torta dei rincrescimenti?

È inammissibile. E infatti Itachi sta morendo, basta mentire.

Il mento della maschera sta per tracimare, non è la stessa acqua che scroscia dal cielo, questa è amara, salata e impaziente. Obito è fortunato, Itachi e Kisame gli fanno la grazia di andarsene prima che l’acqua traditrice faccia capolino prendendosi, impellente, il suo posto nel mondo.

 

Certo che ricordi quando lo hai portato qui, Obito. Non camminava neanche con le sue gambe. Quel giorno il rammarico per averlo costretto a morire troppo presto ti ustionava ogni cellula, ma la tua sciocca paura di mancare di rispetto a te stesso ti ha messo i paraocchi per farti procedere come un toro furioso e senza cervello.

Ora ti nascondi dietro il senso di responsabilità che senti nei suoi confronti, giusto? Lo stai usando come pretesto per mascherare altro? Qualcosa che, temi, possa farti apparire debole?

In fondo sei un campione di maschere, identità rubate, pseudonimi e mero apparire.

Cosa ne pensa il vero Obito, invece?

Fissi il suo corpo agile e perfetto protetto vigliaccamente dalla maschera, le sue gambe slanciate i fianchi stretti ti irretiscono, non è mai stato robusto e dotato di una forza fisica prorompente. Allontani dalla tua coscienza, con ogni mezzo possibile, gli sforzi che fai per non sfiorargli i lucidi capelli di seta. Lo immagini elegante persino nella danza letale dei suoi innumerevoli delitti.

Ma non sei attratto solo da questo, vero?

È il marciume che divora le vostre anime. Lo schifo che avete in comune, l'orrore e il sangue innocente che insudicia le vostre mani. Proprio questo ti lascia di stucco, Obito. Potreste comprendevi a vicenda se non foste separati da un muro di orgoglio.

Tu lo innalzi, Obito.

Tu ti barrichi dietro il pretesto dell'incompatibilità. Non siete differenti, Obito. Dillo che ti senti da meno e basta.

Lui, con il disprezzo verso la vita, ci è nato. Però, al contrario di te, sa metterlo a frutto per non perdere il controllo, trasforma il dolore in determinazione per realizzare i suoi obiettivi.

E ci riesce, Obito.

L’autentico te già bussava frenetico per farsi ascoltare quando lo hai recuperato a pezzi da quel tetto, una massa informe arrotolata su se stessa, si era annidato lassù a piangere ancora imbrattato del sangue dei suoi cari.

Così si piange, Obito, quando nessuno sente o vede. Non gridandolo ai quattro venti sotto la luna.

Hai pensato di essere sull’orlo dell’infarto mentre sbrogliavi le sue membra, sembrava un pezzo di carta appena pescato dalla spazzatura, talmente anestetizzato dal dolore che non gliene fregava niente d’essere stato scoperto.

Hai notato il cambiamento, da quella notte Itachi ha imparato a non emettere suoni, a vivere senza esistere. Lo hai tenuto d’occhio mentre gli scaldavi il sakè nel lurido covo muffoso in cui ti rimpiattavi dopo i tuoi loschi incontri con Danzo. Verificavi, ogni pochi secondi, che fosse sempre accasciato al tavolo corroso dai tarli e che respirasse ancora.

Ti sei premurato di lenirgli la sofferenza come potevi. Neghi ancora l’evidenza, Obito?

Hai scelto di non parlare e non guardarlo imboccando la strada verso Amegakure, sarebbe stato letale per te il viso di uno zombie condannato a respirare, mangiare, avere il cuore che batte nonostante fosse già morto. Hai trattenuto il fiato pur di continuare a captare i suoi lievi passi dietro di te, intanto la faccia ti marciva sotto la maschera fradicia di lacrime.

Quando quella lunga notte è terminata, lui ha avuto un cedimento, l’unico che abbia mai esternato. Un nuovo giorno era sorto ma voi sareste rimasti per sempre a dibattervi nella vostra ragnatela di oscurità. È stata dura per lui rendersi conto che nuovi giorni e futuro non gli appartenevano più.

Gli hai sostenuto busto e testa mentre vomitava il poco che aveva nello stomaco, l’ultimo pasto consumato insieme a i genitori, gli hai impedito di stramazzare per terra. Hai ripulito il suo viso svenuto dal sangue rappreso usando un brandello strappato alla tua veste, in quel momento ti sei sentito libero.

Libero di non mettere una maschera anche sui sentimenti dal momento che lui era gelido e privo di sensi. Niente idee sconvenienti, la sua bellezza non ti ha incantato subito in modo inopportuno. Non avresti permesso che un tredicenne affogasse nel suo vomito senza intervenire, tutto lì. E, sì, una morsa ha stritolato il tuo cuore perché hai contribuito a spezzargli la vita.

La fredda acqua della borraccia sul viso non è bastata a farlo riprendere, è rimasto immobile e bianco come uno straccio. Una bambola fatta a pezzi, lo specchio del deserto che aveva dentro. Un mondo morto, incenerito senza rimedio.

Ti sei alzato in piedi, issandoti in braccio il suo corpo inerme. Hai percorso il paio di chilometri che restavano più velocemente possibile; capendo il suo bisogno di cure, non ti sei mai concesso il lusso di rallentare il passo nonostante il suo corpo pesasse tra le tue braccia.

Non puoi aver dimenticato il freddo che ti ha morso le ossa, non è arrivato dal cielo fumoso e dalla pioggia incessante, bensì dal corpo che stringevi tra le braccia. Gli ultimi metri sono stati i più ardui, hai intuito che stavi seppellendo un ragazzo all'inferno.

Bugiardo con te stesso fino in fondo, non hai mai confessato la pugnalata che ti ha trafitto scorgendo la fumata della fornace in cui Pain forgia gli anelli. Per fare quello di Itachi, ha bruciato tutti i suoi effetti personali, compresa l’uniforme con cui è arrivato lì indossata con tante speranze.

E, diamine, riconosci lo strazio che hai provato vendendo gli ultimi brandelli dei suoi sogni andare in fumo.

 

Chissà per quale astruso motivo l’ingresso di quel maledetto covo è modellato a forma di faccia, forse perché finisce per inghiottire le anime di chiunque si inabissi nella sua bocca. Obito lo nota dal giorno in cui ha portato lì Itachi. Ricalca proprio la loro realtà.

Preferisce infradiciarsi fino al midollo seduto sulla punta della lingua con una gamba penzoloni, piuttosto che stare dentro e rischiare di incrociare Konan e Pain. Gli occhi gialli di quella donna lo squadrano con disprezzo a ogni casuale incontro, Obito è urtato dal suo affettato atteggiamento materno, non è necessario ricordargli la sua disumanità ogni istante. È stufo di essere paziente e mandare giù rospi.

Lui non è uguale a Itachi.

Kisame va a nozze con l’acqua, ci scivola fluido attraverso quasi fuso con essa. È a suo agio nell’umido, può muoversi rapido, le sue possenti ossa da mezzo squalo non scricchiolano e non rischia malanni. Itachi, accanto a lui, è l’immagine di un misero fagotto.

Transitano ora sotto Obito sospeso nell’aria grigia, sa che non guarderanno su e neanche si volteranno indietro.

Nonostante Itachi sia ermetico nello stringere legami e, dopo Sasuke e Shisui non abbia più aperto il cuore a nessuno, a Obito non sfugge l’affinità che ha con Kisame. È l’unica squadra affiatata, Kisame è disposto a smussare il suo rude carattere solo per Itachi. Indulge sull’atteggiamento da automa di Itachi indispensabile per poter sopravvivere al dolore. Kisame capisce la macchina in cui Itachi si è trasformato per portare a termine gli obiettivi. D’altronde, a Itachi non resta altro. Ha solo diciannove anni e già aspetta la morte considerandola una liberazione, Kisame lo rispetta senza bisogno che Itachi chieda niente.

Una stilettata di acredine lacera, improvvisa, la pelle di Obito.

Perché Itachi non vede? Per quale motivo non gli è chiaro il prodigarsi di Obito in seguito alla responsabilità nata dopo quella notte?

Obito non ha mai avuto intenzione di abbandonarlo, è sempre lì, disponibile ad ascoltare eventuali suoi sfoghi. Pronto ad alleviargli, come può, sofferenza e malanni.

Ma Obito riceve in cambio solo disprezzo.

Sotto la freddezza, Itachi è ancora vivo, il rapporto con Kisame ne è la prova.

Lo sharingan si attiva senza volerlo, spesso basta una forte emozione per metterlo in allerta. L’acqua ha scavato la sua roccia fino in fondo, ora Obito è pronto a guardare in faccia il putrido tarlo che disseppellisce le sue zone più oscure.


 

   
 
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