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Autore: eclissidiluna    19/03/2024    0 recensioni
Avvertimento: NON LEGGERE SE NON HAI VISTO TUTTA SERIE COMPLETA COMPRESO IL FINALE. Qualche pensiero che si rincorre e prende forma nello spazio di una notte. Una storia senza pretese che ho voluto condividere. Grazie, come sempre, a chi leggerà!
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Sam Winchester
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nel futuro
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Non ti piacciono gli ospedali.
Arrivi all’accettazione augurandoti che non ti facciano troppe domande, sperando che la tua assicurazione sanitaria li convinca e di non trovarti nel bel mezzo del cambio turno.
Appena varchi la soglia del reparto, sai che ti toccherà essere il paziente sotto i ferri o il parente in trepidante attesa. Detesti entrambi i ruoli, sebbene, potendo scegliere, tu preferisca di gran lunga “intrepretare” chi è ad un passo dalla morte, anziché pregare che, quel bip prolungato, non segni la fine di chi ami. Hai spesso evitato di raccontare a Dean la tua avversione per le chiamate d’emergenza, limitandoti a fargli intuire la predilezione per le suture “casalinghe”. Dean, al contrario, su questo argomento è sempre stato più esplicito, chiudendo  con un laconico e inappellabile “Non pensarci nemmeno…mi aggiusterai tu, fratellino!”. Contrattavi fino a quando non perdeva conoscenza consentendoti di valutare con maggior calma la situazione. Talvolta lo hai “tradito” e Dean, tra un grugnito e un rimprovero roco, si è risvegliato in un letto d’ospedale, con  una maschera per l'ossigeno, sulle labbra riarse.

Appena varchi la soglia del reparto riconosci l’ambiente asettico, l’inconfondibile odore di disinfettante che solletica le narici, il brusio affannato degli operatori che tentano di salvare vite, ignari del fatto che, dall’altra parte” della barricata, ci sia un'altrettanto efficiente “équipe”, piuttosto indaffarata…i mietitori, categoria di “lavoratori” instancabili che, ahimè, non teme straordinari e doppi turni.
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Sala d’attesa.
Pareti tinta pastello, scrostate qua e là. Sedie nere o grige, una attaccata all’altra.  Un paio di tavolini bassi, con riviste datate, che non legge mai nessuno. Porte scorrevoli e corridoi che si intersecano, originando un tortuoso labirinto, attraversato da laboriose api vestite di bianco. In quell’ "alveare" perdi il tuo nome, diventando “La stanza 122”.  Il distributore di bevande ogni tanto si “mangia” una moneta, scatenando le ire del malcapitato che, restato a bocca asciutta, tira un paio di inutili calci alla base del macchinario. Tuttavia tu continui a guardare quel parallelepipedo di normalità, con commossa ammirazione, perdonandogli il carattere bizzoso. Uno spacciatore autorizzato di caffeina a buon mercato, qualche intemperanza può concedersela. 

Sala d’attesa.
Si assomigliano tutte, dal Nord al Sud del Paese. Dalla struttura faraonica e superorganizzata della grande metropoli a quella raccolta e familiare di una piccola contea.
Sala d’attesa.
Solitamente ti lasci andare mollemente su una di quelle sedie dai colori anonimi, invocando Castiel o pregando chi non c’è più.

 Ma questa volta è diverso.

Ti risistemi sullo schienale, massaggiandoti la spalla sinistra con la mano destra. Appoggi la testa contro il muro. La nuca percepisce il freddo della parete ma questo non basta a bloccare la fontana lavica di pensieri e ricordi che t’invadono il cervello.

Il ciondolo di Dean.

Lo vedi oscillare a pochi centimetri dai tuoi occhi appiccicosi, mentre Dean si china in avanti, per misurarti la febbre; lo vedi dondolare sul suo petto quando, subito dopo, scruta accigliato il termometro.
Scorgi il lento sussultare del monile quando Dean torna con una scodella in mano. La protende verso di te, mescolandone di tanto in tanto il contenuto fumante. T'invita ad aprire la bocca, con tono gentile ma fermo, pregandoti di mandar giù almeno un paio di cucchiai di quella sbobba verdognola che, a dire il vero, appare ben poco appetitosa. Ma l’ha cucinata tuo fratello…e questo basta a conferirle un sapore migliore.

Ci sono uomini che non credono di meritarsi di essere padre. Dean è uno di questi.

Ma cosa fa un padre?
Un padre…protegge.

Cos’ha fatto Dean?
Ti ha protetto.
Guadagnandosi castighi al posto tuo, per sottrarti ai metodi educativi spesso eccessivamente spartani di John. 
Rinunciando a restare da Sonny, per non lasciarti solo con papà.
Vendendo la propria anima all’Inferno per riportarti indietro dalla morte.
Facendosi ingannare da un angelo per impedirti di scegliere… di morire.

Li ha protetti.
I tanti bambini incontrati durante i vari casi. Ne ricordi due in particolare.

Lucas, dopo aver assistito alla morte di suo padre, non parlava più, un mutismo di origine psicologica dovuto allo shock. Ma Dean riuscì ad entrare in empatia con il ragazzino sconvolto dagli eventi, sgretolando quel muro di gomma. Riemerse dal lago quasi senza fiato ma con Lucas tra le braccia. L'aveva salvato.
Non solo dallo spirito del lago.

Timmy era terrorizzato all’idea di ribellarsi al fantasma impazzito di sua madre ma Dean, pur sotto tiro, con la voce strozzata, trovò le parole motivanti di un padre, per infondergli coraggio. E da allora Timmy non ha più bisogno di finti eroi. Ne ha in mente uno "reale". Che non porta il mantello.

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Lo rivedi scherzare con Ben, quando aveva accarezzato l’idea che fosse davvero suo figlio. Gli occhi di Dean erano brillanti, più combattivi, pronti a non piegarsi ai Segugi Infernali. Ma Lisa aveva infranto quel sogno e lui era tornato a testa bassa, con l'amarezza scolpita sulla fronte corrugata. Per questo gli avevi estorto quella  promessa... “a cose fatte”, quando saresti stato inghiottito dalle viscere della Terra, lui sarebbe andato incontro al suo destino. Dean sarebbe stato padre, a dispetto del DNA.

Un anno rubato alla caccia.
Ben aveva un padre.
Dean aveva un figlio.

Ma un padre protegge. 
Anche rinunciando a chi ama più della sua stessa vita.
Dean sceglie...di non essere mai esistito.
Un padre...rubato.

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Persino con Emma…avevi dovuto pensarci tu.
Anche se un’Amazzone nasce per uccidere l'uomo che l'ha permesso di nascere, Dean era forse pronto ad essere genitore…e a proteggerla…per quei pochi secondi che Emma gli avrebbe concesso di vivere.
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Dean è stato un padre per Claire, quando ha capito che era simile a lui. Ha tentato di accogliere la rabbia, la frustrazione, l’avventatezza di quell’adolescente, cercando di distoglierla dall’ “agire in solitaria”, intuendo già la cacciatrice che sarebbe diventata.

Così ha fatto con Krissy, mettendola in guardia da chi si fingeva figura paterna ed era invece un manipolatore assassino.

Ci è voluto un po’ per accettare Jack come “uno di famiglia” ma quando si è trovato con quella pistola in mano, diabolica creazione di Chuck, non ha sparato… e non certo per la consapevolezza che, così facendo, sarebbero stati in due a soccombere.

Jack era come un figlio. Una parte di lui ha continuato a considerarlo tale…anche dopo l’assassinio di Mary.
Tu l’hai capito. Forse ancor prima di Dean stesso.

Perchè sapevi che Dean è nato...per essere padre.
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Ci sono uomini che vogliono diventare padri.
 E’ il loro desiderio più grande. Forse perché sono stati figli abbandonati in tenera età, senza una ragione. E quell’abbandono brucia ancora e credono di lenirlo con un nuovo amore, capace di sostituire quello che non hanno potuto donare né ricevere.
 
John voleva essere padre. Quando Mary gli comunicò che era incinta, sebbene con gli inevitabili timori di un giovane sposato da poco, era al settimo cielo. E quando, quattro anni dopo, nascesti tu era felice di aver dato un fratellino a Dean. Ancora non sapeva che “impatto” avresti avuto sulla sua famiglia.
 
John voleva essere padre. Ma senza Mary accanto, per riempire quel vuoto, avrebbe dovuto essere genitore “a tempo pieno”, …invece diventò un cacciatore “in carriera” e un genitore “part-time”.

La giacca di pelle di John.

Ne senti l’odore. All’inizio era quello della pelle quasi nuova, che si confondeva con il dopobarba sulla guancia rasata di fresco. Lo percepivi quando John ti stringeva a sé come se fossi il risultato di una fusione perfetta tra due persone che si erano scelte per la vita, separate anzitempo dalla crudeltà di un demone.
 
Tra residui di mutaforma, ferite che essudavano sotto le medicazioni, nottate passate in locali malfamati o tra sterpaglia umida, durante degli appostamenti, la giacca aveva perso il suo caratteristico odore. Era sempre più logora, meno lucida, graffiata in più punti. E tu eri cresciuto troppo in fretta.
Papà non ti prendeva più in braccio.
Ti guardava sempre come qualcosa di unico ma coglievi un’accezione diversa in quella presunta “unicità”. Eri diventato “una stranezza”… un composto azzardato che andava maneggiato con la perizia degli artificieri.
 
Dean aveva iniziato presto il suo "apprendistato da padre”. Quando scoppiavi a piangere, rotolandoti nel letto troppo grande di un motel, tramutando madide lenzuola in insidiosa rete di stoffa, Dean ti stringeva a sé, cullandoti, cantandoti la “canzone della mamma”. Per te è sempre stata “la canzone di Dean”.
John rimaneva in silenzio. Fingendo di avere il sonno pesante. Lui…che avrebbe sentito cadere uno spillo sulla moquette! Non interveniva. Sapeva che Dean sarebbe riuscito a consolarti e a farti riprendere sonno in meno di dieci minuti. Probabilmente con lui ci avresti messo più di un’ora.

John vi ha insegnato a difendervi. Lo ha fatto con gli strumenti che possedeva. Con miseri ciocchi di lucidità strappati alla furia dell’incendio, che gli aveva stravolto l’esistenza. E’ stato spesso insensibile, ruvido, ipercritico, a tratti violento ma vi amava…ti amava. Anche se eri composto chimico dall’esito imprevedibile.
John ha sacrificato sé stesso perché sapeva che una sola persona avrebbe potuto strapparti al Male.
Non era lui quello capace di trasformarti da miscela potenzialmente esplosiva in luce che scalda e non distrugge, che illumina ma non acceca.

Un padre sa di cosa ha bisogno suo figlio.
E il rancore dell’incomprensione ha ceduto il posto alla gratitudine.
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Ci sono uomini che non vogliono figli perché temono di essere come chi li ha allevati, tra percosse e umiliazioni. Si credono irrimediabilmente “contagiati”, senza speranza, buoni a nulla, nati per far danno.

Un berretto.

Odora di olio di motori, di caccia, di birra.

Quando John ha cominciato a chiedere aiuto a Bobby per ospitare Dean e Sam, Bobby ha storto il naso. La sua officina andava bene per rottamare auto, non per aggiustare ragazzini “rotti” da un lutto insostenibile, disorientati da un padre assente, fagocitato dalla sua brama di vendetta.


All’inizio detestava avervi per casa. Due marmocchi che non perdevano occasione per bisticciare! Due veri idioti che si stuzzicavano a vicenda. Sbuffava ogni volta che tu piagnucolavi e Dean ti faceva il verso. Ma poi ha cominciato ad ascoltarvi con maggior attenzione, quando i toni si abbassavano e, finita la baruffa, vi scopriva sul divano, l’uno accanto all’altro. Dean che ti accarezzava i capelli e tu con l’orecchio sul cuore di tuo fratello.
Bobby non voleva avere figli per il terrore di diventare come il “mostro umano” che lo aveva concepito ma… ha avuto voi.
Un padre ascolta e comprende.
Bobby vi ha insegnato a combattere le creature che si sconfiggono con pallottole d’argento, un accendino o un rituale ma, soprattutto, vi ha aiutato ad affrontare errori e recriminazioni, delusioni e inganni che, nel tempo, hanno messo a dura prova il vostro legame fraterno. Quel sangue infetto che, secondo i piani di Occhi Gialli, di Lucifero e persino del Paradiso, sarebbe stato la vostra rovina e la fine dell’Universo, avrebbe avuto la meglio su di te. Ti saresti scordato il ciondolo di Dean, la giacca di John e il berretto di Bobby.

Ma un figlio riconosce il proprio padre.
Non può avere gli occhi di un Demone o quelli di un Arcangelo.
Tu, quando pensi alla parola papà vedi gli occhi verdi di Dean, quelli scuri di John e quelli nocciola di Bobby.
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Ci sono uomini che credono di non poter diventare padri. Quel tempo è passato. Non si torna indietro.
“Hai salvato persone, hai ucciso cose”…
l’azienda di famiglia…non avrà eredi. Meglio così.
 
Sala d’attesa.

Pallide pareti rischiarate da tristi neon.
Distingui il chiarore, sulle palpebre chiuse.
Una voce squillante ti richiama, facendoti sobbalzare.

“Prego, mi segua!” t’invita con entusiasmo mentre tu, frastornato, ti alzi un po’ malfermo sulle gambe, obbedendo.
 Il cuore perde un battito ad ogni passo.

Quando te lo mettono tra le braccia, gli occhi sono così acquosi che stenti a metterlo “a fuoco” eppure non ne hai bisogno.
E’ lui.
E’ tuo figlio.

Dean non lo conoscerà. Non potrà cullarlo canticchiando “la canzone di Dean” o farlo appassionare, fin dai primi mesi di vita, al rock duro. Non potrà decantargli le qualità della sua Baby o insegnargli come si mette mano a un motore che fa i capricci. Non potrà difenderlo con chili di sale o lame angeliche…
non ce ne sarà bisogno.

L’azienda di famiglia chiude i battenti.
“Benvenuto, Dean…”
L’infermiera, accostandoti con rispetto, notando le lacrime che solcano il tuo viso da neo-papà, ti comunica che la madre sta bene ma ha bisogno di riposo. Tu annuisci, ringraziandola.
Non hai fretta di riportarlo nella stanza.
Scruti ogni particolare di quel viso minuscolo, rossastro, ma stranamente già curioso, attento.

“Sai Dean…voglio raccontarti la storia di un ciondolo, di una giacca in pelle e di un berretto…” sussurri.
Dean ascolta partecipe, per un paio di minuti poi, con i pugnetti chiusi, si addormenta con l’orecchio sul tuo cuore. Come tu facevi con Dean.

Sorridi.

Avrai tempo per parlargli dei tuoi…padri.

Forse Dean jr., a sua volta, fra trent’anni, terrà un bambino tra le braccia e gli racconterà di un’auto d’epoca e di un tatuaggio particolare, che nulla ha a che vedere con la sua passione per la musica metal o i simboli tribali.

Perché un padre questo fa…protegge.
 
Anche quando di lui resta solo qualche foto, una lista della spesa sbiadita, un maglione, una giacca sdrucita, un berretto sfilacciato, un paio di occhiali…continua a proteggerti.
 
Osservandoti tra batuffoli di Nuvole e strisce di Cielo.



 
   
 
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