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Autore: awhmoony    05/04/2024    1 recensioni
Jude Sharp, un tempo acclamato calciatore professionista, successivamente aver vissuto quattro anni in una città sulla costa del Regno Unito torna nella caotica Tōkyō, la sua città natale, per seguire le orme di suo padre: prendere in mano le redini dell’attività di famiglia. Ha abbandonato il calcio da anni e assieme a esso si è lasciato alle spalle anche i suoi più cari amici che non sente e non vede da più di dieci anni. Tra questi c’è anche sua sorella, Celia, con la quale non è riuscito a mantenere i rapporti. Una sera, durante una festa organizzata da suo padre per celebrare il suo ritorno, incontra quelli che sono stati i suoi migliori amici e compagni di squadra e il tempo sembra non essere mai passato. Assieme a loro, riaffiorano sentimenti e consapevolezze che aveva tenuto segregati in un angolo polveroso del suo cuore.
L’incontro con Mark e gli altri lo determina a riallacciare i rapporti con sua sorella, tuttavia il tempo trascorso separati sembra essere troppo e lei pare non avere alcuna intenzione di averci più niente a che fare.
Genere: Drammatico, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Axel/Shuuya, Celia/Haruna, Jude/Yuuto, Mark/Mamoru, Shuu
Note: OOC | Avvertimenti: Incest
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Note: Niente panico e niente allarmismi, mi appresto subito a fare chiarezza in modo da non creare disagi a nessuno.

Sì, la coppia principale qui è un incesto, TUTTAVIA non volendo assolutamente trasgredire alcun tipo di legge e regolamento vigente, non saranno presenti– ad eccezione per qualche allusione estremamente sfuggente – scene di sesso descrittivo (non l’avrei messe in ogni caso, perché non amo scrivere scene smut a prescindere).

Volevo scrivere qualcosa su Jude, sono ANNI che voglio scrivere su di lui essendo da sempre stato – sin da quando ero nient’altro che una piccoletta di dodici anni che si approcciava per la prima volta al mondo degli anime proprio attraverso inazuma eleven) – il mio personaggio preferito.

Ho iniziato a scrivere questa fic completamente per una pura casualità successivamente aver visto – non chiedetemi perché – “Il Grande Gatsby”. Infatti, alcune scene/descrizioni che rimandando al film/libro ci saranno sicuramente! Da lì, appunto, il titolo della fanfic. Inizialmente, proprio per la coppia, non avevo alcuna intenzione di pubblicarla; poi una mia cara amica, leggendola, mi ha dato la giusta dose di motivazione necessaria, e adesso eccomi qui. La fic è scritta per puro passatempo e amore spropositato nei confronti di questo personaggio.

La mia ultima intenzione è tediare qualcuno, perciò se davvero la tematica dell’incesto dovesse causarvi in qualche modo difficoltà nella lettura o problemi in generale, non leggete. Io la toccherò piano, non la affronterò con superficialità e né tantomeno con leggerezza. Però sarà presente.











 

 

 

Capitolo Uno.
Freddo Come il Mare d’Inverno.

 

 

 

 

Erano gli ultimi giorni di terribile caldo umido che s’appiccicava alla pelle, tuttavia poco poteva farci, lui, se non costringersi a rassegnarsi malvolentieri; era il clima che contraddistingueva il Regno Unito, eppure all’idea di svincolarsi e abbandonarselo alle spalle lo aveva galvanizzato lasciandogli un’ambigua sensazione addosso: lasciare il dormitorio, che era inevitabilmente diventato la sua casa e il suo rifugio nei momenti in cui desiderava nient’altro che sottrarsi alle assillanti richieste di minima presenza ai salotti organizzati dai suoi calligrafici e spocchiosi compagni di università, era stata un’azione che aveva tergiversato fino all’inevitabile, ma non l’avrebbe mai ammesso comunque.

Aveva davvero creduto possibile che l’ultima pioggia malinconica sarebbe stata quella che dal solenne dormitorio del campus l’aveva accompagnato fino all’aeroporto, invece l’aveva incappata a seguirlo timida e quieta anche mentre il suv nero che suo padre aveva scrupolosamente fatto attendere per lui, attraversava solerte strade dall’asfalto bagnato seguendo un eterno tragitto uggioso. E proprio nel bel mezzo di quel tedioso percorso – il perché non l’aveva ancora ben identificato – nell’oscurità che la notte portava con sé, riuscì ad intravedere un paesaggio differente da quello della caotica Tokyo; niente illuminazioni annebbiate che turbavano i suoi occhi stanchi, nessun trambusto di clacson e automobili, la totale assenza di snervante traffico che perennemente occludeva la città simboleggiava un tragitto diretto e che induceva al sonno e quando il ragazzo aveva provato a chiedere, con assoluta mancanza di convinzione, all’autista taciturno dove stessero andando egli aveva risposto che quel matto di suo padre aveva traslocato sulla costa, proprio a pochi passi dalla spiaggia.

Non aveva avuto modo di ispezionarla adeguatamente la sera precedente; complici una massiccia e inquietante oscurità che gravava su tutto l’ambiente circostante e la stanchezza che aveva preso possesso del suo corpo e si era inevitabilmente impossessata anche del suo povero cervello, appannandolo completamente. Tuttavia attraverso le poche luci che abbagliavano l’abitazione, aveva potuto tracciare una sagoma poco distinta e quasi totalmente sbagliata della villa mentre adesso, con la luce del sole che si era depositata sullo scenario rendendolo chiaro e visibile, poteva capire dove si trovava: la villa era stata costruita sulla costa poco fuori dalla città di Tokyo verso la metà degli anni venti e presentava tutte le caratteristiche tipiche di quell’epoca. In perfetto stile “art déco”, riprendeva la classe delle ville coloniali occidentali; la struttura era costruita in mattoni rossi, il tetto splendeva d’azzurro mentre all’interno regnava il bianco e il blu che illuminavano le stanze di luce propria – temeva infatti che i lampadari fossero stati messi per pura decorazione anziché per utilizzo vero e proprio –. Appena varcato l’ingresso (composto da un’entrata quasi imperiale: i due viottoli ciottolati che dal cancello conducevano all’entrata erano segnati da una lunga sequela di abeti e una volta giunti a destinazione, una scalinata di marmo accompagnava all’interno) si veniva immediatamente accolti dal salone principale, quello che Jude immaginava suo padre avesse già utilizzato come sala da ricevimento per le feste. Il pavimento lucido era bianco, decorato con raffinati ghirigori azzurri; sulla sinistra tre lunghe porte in bianco patinato: la prima accompagnava nella sala da pranzo, con un tavolo immenso e sedie alte, accanto la cucina dove Jude non aveva avuto l’occasione di metter piede. E, infine, la terza era una tutt’altro che modesta sala da tè, che tanto più appariva come una veranda. Dal soffitto vetrato dal quale entrava una spropositata quantità di luce naturale, alle finestre sulla sinistra sempre aperte, le tende che svolazzavano al passare tenue del vento poiché a coprire la visuale c’erano dei grossi alberi i cui rami imponenti quasi minacciavano di entrare, tre tavoli da caffè trasparenti erano posizionati al centro di due raffinati divani blu. Se invece si spostava l’attenzione sulla destra della sala d’entrata, si rilevavano le quattro porta–finestre che conducevano direttamente sul giardino: l’immenso, verde, infinito, delizioso e lussuoso giardino.

In fondo al salone principale era stata costruita una grande scalinata sempre in marmo bianco con il corrimano azzurro, che conduceva ai piani superiori, alle camere da letto.

Jude sospettava che ci fosse molto altro ancora, ma finora si accontentava di quel che aveva avuto modo di osservare da quando si era svegliato. Durante tutta la mattinata aveva preferito recuperare le ore di sonno perse dal viaggio interminabile che aveva fatto e nel pomeriggio suo padre l’aveva inviato per un tè: Jude l’aveva raggiunto socchiudendo leggermente una delle due ante della porta, la figura tarchiata e in là con l’età di suo padre era perfettamente individuabile: stava seduto su uno dei divani a sorseggiare il suo tè.

«Ah, Jude!» esclamò l’uomo indirizzando al giovane un sorriso brillante. Sembrava davvero contento di vederlo, benché non si mosse dalla sua comoda posizione ma invitò il figlio ad avvicinarsi, a prendere posto davanti a lui. Jude obbedì, trovandosi a sprofondare in quei cuscini straordinariamente comodi. Rivolse al padre uno sguardo sospettoso mentre obbediva di nuovo alle sue istanze, prendendo un sorso di tè bollente. «Allora, come stai? Com’è andato il viaggio?»

«Ottimo, ma infinito e stancante. Infatti sento ancora tutta la stanchezza.» Rispose a monosillabi, interrompendo le risposte tra un sorso di tè e l’altro.

«Ho notato, hai dormito tutta la mattina,» puntualizzò comprensivo l’uomo tuttavia lasciando sfuggire di proposito un pizzico di arroganza facendo intendere che fosse leggermente contrariato. Jude non aveva mai avuto dubbi sulla limitata intelligibilità del padre: era sempre stato estremamente chiaro, indulgente sulle questioni sensibili. Era un uomo con certi valori, ovvio, esigeva il massimo e pretendeva assoluta responsabilità. Era un uomo austero, severo e composto. Ciò nonostante Jude sapeva che gli voleva bene. «Allora, cosa ne pensi della casa? Ti piace?» Doveva aspettarsi quella domanda, eppure dovette riflettere qualche istante sulla risposta da dare.

«Be’, sì. Direi di sì. È molto spaziosa e luminosa. È solo che non me l’aspettavo… così grande.»

Alla sua risposta l’inflessibile Signor Sharp si lasciò andare a una risata altisonante, affatto contagiosa dal punto di vista di Jude. «È vero, hai ragione, è forse un po’ troppo grande per ospitare solo due persone. Ma ormai da tempo cercavo un luogo appartato, sai; lontano dai rumori e del caos della città. Con l’avanzare dell’età sto diventando insofferente, me ne rendo perfettamente conto. Avrei voluto avvertirti per tempo, pensavo di farti una sorpresa ma, alla fine, sei stato tu a sbalordirmi con la tua notizia.»

«Non ti preoccupare, papà. Non è un problema, mi piace qui.»

Tra i due calò un rispettoso silenzio. Entrambi stavano riflettendo su argomenti differenti, almeno questo era il pensiero di Jude mentre osservava di sottecchi il padre ugualmente assorto nelle proprie preoccupazioni. Sperò che la conversazione terminasse lì, avrebbe voluto godersi semplicemente quel meritato silenzio; solo il frusciare del vento e delle tende, le foglie verdi delle querce che strofinavano tra di loro. Il castano notò come l’espressione del padre si fece ancora più corrucciata. «Forse non sono stato abbastanza chiaro, Jude.» Si sistemò meglio con la schiena dritta orientando al figlio un’occhiata incerta «La casa è tua. L’ho comprata per te, un regalo di bentornato se vuoi vederla da questa prospettiva,» prese un altro sorso di tè nel frattempo che Jude era immobilizzato con la tazzina sollevata a mezz’aria; gli occhi leggermente spalancati e la mente improvvisamente annebbiata. Il Signor Sharp, condizionato dal turbato silenzio del giovane, continuò a parlare «È una decisione che ho maturato nel corso dei precedenti quattro anni che hai trascorso in Inghilterra. E ho riflettuto: sei scappato dalla città per rintanarti in un campus universitario vicino al mare. Tant’è che ho pensato tu non volessi tornare in città, dopo quattro anni passati in una località marittima.» Aveva senso, rifletté Jude, e annuì in risposta alle ipotesi del padre il quale non mancò di far notare, attraverso un’espressione soddisfatta, quanto conoscesse bene suo figlio. Sebbene non condividessero lo stesso sangue. Successivamente, dal taschino nascosto nella giacca, il Signor Sharp tirò fuori una serie di documenti piegati che poggiò sul tavolo. Il ragazzo suppose si trattasse della documentazione necessaria a finalizzare l’acquisto della casa e concedendo una leggera sbirciata notò come il suo nome veniva ribadito ripetutamente. «Devi firmare, per la casa. Appena la consegnerò personalmente all’agente immobiliare, sarà tua.» Jude non ci rifletté molto, nonostante ebbe l’intuizione che fosse stato quasi obbligato a firmare, lo fece. E la casa, a quel punto, divenne a tutti gli effetti sua.

In seguito a qualche altro istante di silenzio, il padre versò il discorso in un’altra direzione, quella che Jude voleva a tutti i costi evitare ma consapevole che non avrebbe potuto sfuggirne per sempre.

«Ma raccontami un po’ di te. Com’è stato questo ultimo anno?»

«È stato… interessante, direi. Ho fatto tutto quello che mi avevi consigliato: ho fatto nuove amicizie, ho studiato, ho perfezionato notevolmente il mio inglese,» afferrò un sospiro nell’aria intrappolandolo in gola, era consapevole che il Signor Sharp, eccezionale uomo d’affari e eccellente comunicatore, esigeva di più. Jude tentava di misurare accuratamente le informazioni da concedergli cosciente che se avesse osato esagerare, l’uomo avrebbe voluto che parlasse all’infinito: come rispettabile direttore di una multinazionale, le parole erano il suo ossigeno. Ne era attratto, come le api erano attirate dai fiori. «Mi mancava il Giappone, però. Mi mancava casa

«Ammetto che quando mi hai presentato la tua idea di voler tornare mi sono lievemente insospettito.» Confessò il padre con voce appesantita. Voleva chiaramente estorcergli qualcosa, come se percepisse che ci fosse un pezzo mancante; una pagina strappata. Jude doveva restare inflessibile, prese un sorso di tè ormai quasi completamente raffreddato nel tentativo di mascherare il malessere che era tornato a tormentarlo. «Dopotutto sei stato tu a insistere a voler andare via. Ma capisco anche quel che intendi e non posso negare di essermi sentito anche vagamente sollevato. Hai studiato Economia, dopotutto, e suppongo che a tempo debito svolgerai un lavoro eccezionale nella società di famiglia.»

«È anche per questo che sono tornato. Quando ho lasciato il calcio – la voce gli tremò leggermente, quell’argomento, nonostante fossero trascorsi quasi dieci anni, era ancora una ferita aperta e sanguinante –, ho capito che avrei dovuto puntare in alto, ma per farlo avevo bisogno di allontanarmi e scoprire una nuova parte di me. Quella che mi avrebbe concesso di diventare la persona capace di prendere le redini dell’attività in mano.» Concluse, poggiando la tazzina, finalmente vuota, sul piattino.

Suo padre sembrò convinto, o almeno dava l’impressione di esserlo. Nel suo sguardo Jude poteva comunque intravedere una singolare apprensione, un’ombra incerta che era calata sui suoi occhi preoccupati. «Ho capito,» commentò «Mi fa piacere sapere che hai una visione più matura di come funziona il mondo. Sono sollevato.»

Subito dopo continuò più dinamico, poggiando anche lui la tazzina vuota sul piattino posizionato sul tavolo, dava l’idea di preannunciare un’altra novità «Ma cambiando discorso» annunciò tirando gli angoli delle labbra in un sorriso sbilenco che fece leggermente rabbrividire Jude «devo comunicarti che purtroppo dovrò assentarmi da casa per tutto il periodo estivo, temo. I mediatori internazionali richiedono la mia presenza negli Stati Uniti e, dal momento che sono lì, mi occuperò anche di altre questioni che necessitano di essere risolte sul suolo americano. Niente di complesso, ma ammetto che mi infastidisce. Avrei preferito godermi la nostra spiaggia privata, mi spiego.» spiaggia privata? Pensò Jude sbigottito “Ma quanto è grande questa casa?” Si appuntò mentalmente che avrebbe dovuto concedersi un tour al più presto, più quell’uomo parlava, più il venticinquenne si rendeva conto di quanti soldi effettivamente possedesse. “Puoi sempre goderti la piscina sul tetto dell’hotel di lusso che prenderai a New York” avrebbe voluto aggiungere il ragazzo, ma si trattenne poiché sapeva quanto l’umorismo del padre era sgradevolmente inesistente. «Per celebrare il tuo ritorno ho organizzato una festa questa sera.»

«Non c’era bisogno.» Si affrettò a dire, convinto però che la causa non fosse esclusivamente il suo ritorno in patria. Suo padre, conoscendolo, avrebbe invitato imprenditori con cui fare affari, le loro rispettive mogli e figli appresso.

«Oh, non dire sciocchezze, Jude! Sempre così solitario. Mi sono inoltre permesso di invitare qualche tuo vecchio compagno di squadra di calcio, spero che gradirai.» concluse accomodandosi contro lo schienale imbottito del divano, indirizzandogli un’occhiata investigativa. D’altro canto, Jude non si scompose minimamente sebbene dentro di sé il suo cuore un po’ stropicciato perse in battito. Si schiarì scomodamente la voce annunciando un incerto sì, grazie. I due portarono avanti un’altra sequenza di brevi conversazioni soprattutto attinenti al suo percorso accademico e qualche fuggitiva domanda su questioni sociali e personali. Successivamente l’uomo si dileguò lasciando il figlio da solo nella stanza. Finalmente nella sala regnava il completo silenzio, a far compagnia ai pensieri turbolenti del giovane ventenne adesso c’erano soltanto il vento, il bisbiglio delle tende e in lontananza si poteva ascoltare l’acqua delle fontane che scorreva ritmicamente. Inevitabilmente i pensieri contorti scivolarono sulle ultime parole che gli aveva rivolto suo padre: non era stato il riferimento alla festa che si sarebbe tenuta quella stessa sera, a tediarlo particolarmente. Ci era abituato, dopo tutti quegli anni. Ma al fatto che suo padre avesse deciso di invitare alcuni dei suoi vecchi compagni di squadra. Ci aveva pensato spesso quando era in Inghilterra, forse più di quanto fosse pronto ad ammettere. Aveva definitivamente smesso di giocare a calcio a livello professionistico successivamente alla vincita del Football Frontier International dopo aver conseguito il diploma alle scuole medie; il motivo non l’aveva mai realmente avuto chiaro, gli bastava convincersi che fosse semplicemente dovuto al fatto che senza i suoi amici, quelle stesse persone con cui aveva condiviso mesi lontano da casa, andare in nazionale non sarebbe mai stata la stessa cosa. Con l’improvvisa decisione di partire era stato considerevolmente semplice non farsi condizionare: tuttavia dimenticare non era possibile. Più volte aveva avuto l’idea di contattare qualcuno dei suoi migliori amici; Mark e Axel erano sempre i primi due nomi che selezionava nella rubrica del cellulare. Soprattutto con Mark: lo sapeva bene. Con lui era sempre stato tutto così semplice che spesso si ritrovava a non rendersi neanche conto del tempo che passava o di quanto avessero effettivamente parlato. Eppure non l’aveva mai fatto. Neanche una telefonata o un messaggio; Jude Sharp era semplicemente scomparso.

 

 

 

 

 

Osservava con espressione indifferente il suo riflesso. Lo specchio sembrava essere l’unico oggetto normale all’interno della sua stanza; la quale era eccessivamente grande, asettica, decisamente impersonale. Anche lui si vedeva differente: indossava un semplice completo nero che gli era stato cucito su misura, era cresciuto parecchio e superava abbondantemente il metro e ottanta, aveva anche i muscoli più definiti a seguito di un allenamento costante in palestra — un’ottima alternativa al calcio, anche se non poteva mai essere la stessa cosa —, aveva sciolto i dreadlocks; la prima metà li portava legati come sempre in una coda mentre l’altra metà li teneva lunghi oltre le spalle. Aveva anche deciso di togliere i suoi distintivi occhiali da motociclista che aveva indossato per la maggior parte della sua adolescenza; dal momento che non giocava più a calcio, non gli erano più particolarmente utili. Ciò nonostante erano accuratamente custoditi in un astuccio all’interno di un baule che conservava tutti i suoi oggetti del calcio: le divise, i mantelli, le scarpe, le fotografie e il suo vecchio pallone. Ma eccetto questi piccoli cambiamenti, era rimasto lo stesso Jude di sempre. Si chiedeva se anche i suoi amici fossero rimasti gli stessi.

«Signor Jude?» Il maggiordomo stava bussando alla porta da qualche minuto buono, ormai. Il ragazzo poteva chiaramente sentire la musica provenire dal piano di sotto, unita al chiacchiericcio degli invitati. Prese un profondo sospiro nervoso e uscì dalla stanza.

Apparve nel salone principale che come aveva supposto inizialmente era stato utilizzato totalmente come sala per le feste: era cosparso di invitati, tutti rigorosamente vestiti bene, la band dal vivo che si occupava della musica era stata posizionata accanto alle scale e le canzoni di ogni genere echeggiavano per tutto l’ambiente grazie agli impianti stereo disseminati ovunque. Intravide la figura di suo padre al centro della stanza che stava animatamente discutendo con alcuni ospiti e appena lo individuò lo richiamò a sé.

«Ah, eccolo qui! Signori, lui è mio figlio Jude. È tornato giusto ieri dall’Inghilterra» gli poggiò una mano sulla schiena avvicinandolo ulteriormente. Osservò minuziosamente gli uomini con cui aveva a che fare; era indubbio che fossero tutti uomini d’affari, molto probabilmente colleghi di suo padre; dirigenti, amministratori, impresari, pezzi grossi insomma. Erano tutti e quattro infilati nei loro eccellenti completi raffinati e sembravano perfettamente a loro agio – come se lo facessero tutte le sere –, i calici di champagne mezzi vuoti e l'atteggiamento estremamente risoluto, sebbene si trovassero a una festa.

«Finalmente ho il piacere di conoscerti,» Uno dei quattro si fece avanti porgendo la mano di fronte al suo petto «Tuo padre ci parla così tanto di te, che vederti di persona è quasi un onore.» Era un uomo di mezza età; la barba brizzolata, i capelli leggermente spruzzati di grigio ai lati. Spostò poi l’attenzione sulla sua mano: era perfettamente curata, sembrava morbida e le lunghe dita erano costellate da una serie eccessiva di grossi anelli. Appena gliela strinse, s’accorse immediatamente che la sua presa era decisa. Jude lo osservò negli occhi: aveva l’aria eccentrica, altezzosa. I capelli neri creavano contrasto con la pelle chiara e gli occhi di ghiaccio. Aveva un ghigno impertinente costantemente stampato in faccia. A Jude, quel tipo, non piaceva per niente. «Tu eri un calciatore, mi sbaglio?»

Quella domanda lo raggiunse inaspettata. Jude non aveva la benché minima ombra di incertezza riguardo al fatto che suo padre, negli anni precedenti, avesse accennato ai suoi colleghi di lavoro che lui giocasse a calcio; quando era entrato in nazionale, soprattutto. Ma perché accennarlo adesso? Erano trascorsi più di dieci anni da quando aveva vinto il Football Frontier International. Il giovane Sharp mantenne un atteggiamento formale.

«È vero, ma è passato tanto tempo. Adesso ho smesso con il calcio professionistico.» Pronunciare le ultime parole era sempre estremamente difficile, eppure era la verità: la sacrosanta, indubitabile, verità. Intravide la smorfia sardonica dell’uomo farsi leggermente più ampia, quasi come se stesse riflettendo su qualcosa di interessante… o appetibile.

«È un’ottima notizia! Questo significa che prenderai il posto di tuo padre, un giorno.»

A quel punto, Jude contrasse il viso in un’espressione contrariata, una smorfia irritata incupì il suo sguardo mutando i suoi occhi dalle iridi color mattone in quelli di un diavolo. Poche volte gli avevano rivolto un appellativo simile e quello era uno di quei momenti. Intrappolò un sospiro teso nel petto, permettendo a quella bestia, che ormai da tempo dormiva cheta nel suo stomaco, di nutrirsene. Indirizzò un mezzo sorriso all’uomo dagli occhi di ghiaccio il quale, osservando attentamente la sua reazione, era inevitabilmente turbato; dopodiché afferrò dal vassoio che il cameriere stava abilmente sorreggendo in equilibrio su una mano, un calice di champagne e si dileguò inventando una spiegazione plausibile — adesso vado a cercare i miei amici, vi lascio alle vostre conversazioni di lavoro — dirigendosi frettolosamente in direzione del giardino. Avvertiva una disperata necessità di sottrarsi a tutte quelle attenzioni, perfino le luci sembravano tallonarlo senza tregua. Uscì da una delle portafinestra della sala, mettendo finalmente piede sul pianerottolo che anticipava un plateale cortile: decorato con una quantità smisurata di piante, alberi e cespugli con fiori vari, quel che catturava di più l’attenzione era senza dubbio la magnifica fontana orbicolare che faceva da unica protagonista: il flusso d’acqua cresceva alto sovrastato dal volume della musica.

 

Il giardino era immenso. L’erba tagliata accuratamente, i lampioni posizionati ai lati che regalavano più illuminazione all’ambiente; benché a fare la reale differenza erano la sequela di lampadine appese che attraversavano il territorio regalando allo scenario una sensazione calorosa, uno sfuggente accenno di velato romanticismo, quelle luci leggere rilassavano gli occhi. Anche lì un flusso di invitati era disteso per tutto il perimetro, quasi a stento Jude riusciva a intravedere realmente la fine di quell’immenso cortile, partecipe anche la grossa fontana che impediva di vedere oltre il croscio dell’acqua. Continuò a sorseggiare il suo champagne mentre lanciava occhiate incerte sul corteo di invitati i quali, di tanto in tanto, osavano indirizzare occhiate discrete in sua direzione per poi sussurrare pettegolezzi sottovoce tra di loro; non conosceva nemmeno mezzo volto, nessuno che potesse anche solo vagamente ricordargli qualcuno di familiare. Quasi inconsapevolmente era alla ricerca di volti familiari, in particolare qualcosa che facesse associare un dettaglio ai suoi vecchi amici e compagni di squadra: il colore dei capelli di Axel, la distintiva bandana arancione di Mark o la risata contagiosa di Kevin. Qualunque cosa. Passò al setaccio di ogni figura individuabile, ma non riuscì a distinguere nessuno e travolto da un’ondata di nervosismo, terminò di bere il suo drink con un unico, rapido gesto e si voltò intenzionato a sottrarsi a quell’evento eccessivamente vivace. E proprio quando poggiò il piede sull’ultimo scalino che conduceva all’interno della casa, l’accento apostrofato sul suo nome da una voce incredibilmente familiare gli giunse alle orecchie; si voltò e quando identificò la figura disinvolta di David, il bicchiere ormai vuoto quasi non gli cadde dalle mani. Quello che aveva davanti era realmente David Samford e gli ci vollero effettivamente alcuni istanti per realizzarlo.

Lo raggiunse arrestandosi a pochi passi dal suo viso. Il ragazzo era rimasto pressoché uguale: i capelli verde acqua gli ricadevano forse leggermente più lunghi sulle spalle e fatta eccezione per essere sempre leggermente più alto di lui, David non era cambiato.

«Quanto tempo…» proclamò il ragazzo poggiando una mano sulla spalla di Jude, il quale ricambiò il gesto poggiando le sue dita ricoperte di anelli su quella dell’amico.

«Mi dispiace non essermi mai fatto sentire.»

David scosse la testa «Non scusarti, devi essere stato impegnato in Inghilterra. Sai, quando tuo padre ha mandato gli inviti per la festa non potevo crederci che fossi tornato davvero. Quando te ne sei andato sembravi veramente intenzionato a non tornare per un po’…»

«A dir la verità, ho scoperto della festa soltanto ieri. Sai com’è fatto mio padre, gli piace fare le cose di testa sua» ammise poggiando il calice vuoto sul vassoio di un cameriere di passaggio, ne afferrò altri due pieni e si voltò nuovamente in direzione di David il quale, dall’aria attonita aveva preso ad osservarlo; Jude indietreggiò d’istinto. Gli indirizzò un mezzo sorriso nervoso, la paura che potesse leggerlo dentro, individuare i suoi più raccapriccianti sentimenti era sempre un terrore che lo angustiavano ogni volta che qualcuno lo osservava troppo intensamente. Soprattutto se si trattava dei suoi migliori amici, gli unici in grado di interpretare ogni suo gesto. Tuttavia, si concentrò per non lasciar percepire la sua insicurezza, porse il bicchiere di champagne all’amico e insieme bevvero un sorso che celebrava il ritorno di Jude. Poi David riprese a parlare, la sua voce forse leggermente più profonda riusciva a essere sempre perfettamente comprensibile anche in mezzo ai chiacchiericci e alla musica: «Sei cambiato, lo sai?»

Quella confessione riuscì a turbarlo. Presumibilmente doveva essersi lasciato sfuggire un’espressione buffa perché David buttò leggermente indietro la testa e liberò nell’aria una delicata risata divertita, poi con un timbro di voce più appuntito aggiunse: «Non te lo ha ancora detto nessuno da quando sei tornato vero?»

Il castano scosse la testa impercettibilmente, non credeva di essere cambiato così tanto che addirittura un amico che non vedeva da quasi dieci anni aveva avuto l’accortezza di fargli notare; era sempre stato convinto del fatto di essere rimasto sempre il solito Jude di sempre, ma evidentemente non era così. Saranno i capelli? Pensò passandosi le dita tra le ciocche libere dai dreadlocks, che gli arrivavano oltre le spalle e forse era quello a insospettire, o forse era il fatto che non indossasse più gli occhiali? Da quando il Signor Dark era morto si era ripromesso che non li avrebbe più tolti, eppure continuare a indossarli anche dopo aver mollato il calcio per dedicarsi esclusivamente allo studio all’estero gli sembrava decisamente inappropriato e così, assieme a tutti i vecchi oggetti relativi al calcio che riepilogavano anni più belli della sua vita, da quando aveva iniziato con un vecchio pallone dell’orfanotrofio all’ultima divisa indossata in nazionale. Bevve un altro sorso di champagne e intrattenne altre piacevoli brevi conversazioni con David, poi lui gli chiese se gli andasse di incontrare anche gli altri; chi altro c’è? Chiese. I più intimi, rispose l’amico: Mark e Axel, Nathan, Jack, Shawn e Kevin.

«Ti stanno aspettando.»

Jude prese a seguirlo restando cautamente alcuni passi indietro, leggermente titubante e con il cuore che gradualmente proseguivano gli slittava in gola dall’agitazione. L’incontro con David non era stato impacciato come aveva predetto ansiosamente in precedenza; sorpassando alcuni momenti di confusione iniziale avevano preso a chiacchierare come se il tempo non fosse mai passato, come facevano una volta. Eppure l’affermazione che l’amico aveva fatto sottolineando quanto Jude fosse cambiato — e soprattutto che fosse così evidente —, lo aveva particolarmente turbato, rendendolo inquieto. Dopo essersi districati tra gli invitati per alcuni minuti abbondanti, Jude li poté riconoscere ancora prima che David li chiamasse; la bandana arancione di Mark e i suoi capelli castani sbarazzini, i capelli biondi di Axel e quelli invece azzurri di Nathan. Appena l’amico avvisò il gruppetto del loro arrivo e i suoi vecchi amici si girarono, alla vista del ragazzo che non vedevano né sentivano da dieci anni, i loro volti divennero una unicità di facce sconvolte. Il primo ad avvicinarsi fu Mark, il quale subito dopo essersi ripreso dal turbamento, gli rivolse un sorriso luminoso e lo abbracciò; Jude, percependo un sentimento commosso, ricambiò l’abbraccio. «Come stai?» Chiese semplicemente il castano, lo stesso rituale venne effettuato anche con Axel, che gli pose la stessa domanda, poi con Nathan, Jack, Shawn e Kevin. Lui aveva dato sempre la stessa risposta tentando di modificarla un po’ con ognuno di loro: bene, tutto bene, benissimo e voi? Non era la verità, Jude non stava bene ma il suo sorriso malleabile e il suo modo di fare accondiscendente e amichevole riusciva a mascherare il suo sentimento: rabbia e senso di colpa .

Brindarono innalzando debolmente i calici di champagne e nel frattempo che continuavano a chiacchierare specificatamente dei tempi passati in nazionale, portando alla luce ricordi e momenti eclatanti, Jude proseguiva a bere a piccoli sorsi lo spumante che in breve tempo terminò; il sapore fruttato della bevanda mascherava l’effettiva quantità di alcol presente all’interno e il castano giurò che sui visi dei suoi amici andò a depositarsi un’espressione condivisa di beatitudine e la voce strascicata sottolineava una leggera euforia: era un dato di fatto, non erano abituati a bere alcolici e Jude percepì le guance pizzicargli leggermente. In mezzo ai discorsi confusi che continuavano a rimbalzare sulle loro teste, il ventenne prese a osservarsi attorno: erano in una posizione imprecisa del giardino, malgrado ciò individuò l’entrata dalla quale riuscì a dare un’occhiata all’interno; suo padre continuava a intrattenere conversazioni con i suoi colleghi di lavoro e giungeva fino a lui una collana infinita di invitati che sorseggiavano cocktail e parlottavano tra loro. Lanciò un’occhiata oltre la tela di ospiti che s’interrompeva con alcuni uomini che ridevano poggiati con la schiena alla balaustra di marmo che prendeva la forma di una curva, come se fosse un balconcino che affacciava chissà dove. Spostò lo sguardo sui suoi amici; Mark era sempre lo stesso ragazzo chiacchierone e contento che ricordava. La voce forse leggermente più spessa e il viso più adulto, ma gli atteggiamenti medesimi a quelli di quando aveva quattordici anni e laddove durante i mondiali la sera al tramonto, qualora aveva bisogno di uscire a prendere una boccata d’aria, lo trovava sulla spiaggia ad allenarsi e finivano per conversare seduti sulla sabbia a seguire il sole che scendeva giù. Axel, con i capelli biondi oltre le spalle legati in una coda leggera, portava ogni tanto il bicchiere alla bocca per prendere un paio di sorsi e tornava ad ascoltare i discorsi che Mark abilmente conduceva al suo fianco, non era cambiato un granché. Osservò brevemente anche gli altri, Nathan, Kevin, Jack e Shawn erano gli stessi di sempre. Il segno del tempo aveva macchiato il viso e il corpo di tutti, ma oltre l’spetto fisico, gli atteggiamenti erano quelli che ricordava.

«Mi allontano un attimo,» bisbiglio avvicinandosi all’orecchio di David, il quale gli chiese se volesse compagnia che il castano prontamente declinò con un sorriso abbastanza convincente. Poggiò nuovamente il bicchiere vuoto sul vassoio sulla mano di uno dei camerieri di passaggio, regalò un leggero tocco sulla spalla a Mark come a fargli capire le sue intenzioni e si avviò in direzione di quello che sembrava essere un terrazzo. I suoi amici, consapevoli dell’introversione dell’amico che molto spesso aveva necessità di allontanarsi per stare un po’ da solo e riprendere fiato, non diedero troppa importanza all’uscita di scena di Jude, continuando semplicemente a parlare tra di loro.

Arrivato finalmente alla ringhiera di marmo bianco si poggiò con gli avambracci sullo spazio che affacciava in basso, su una piscina rotonda. Come sospettava, le meraviglie di quell’abitazione non si limitavano esclusivamente a un giardino degno di un Re, ma conservava anche altro; Jude cercò di ricordare l’elenco sbrigativo che suo padre gli aveva fatto per informarlo brevemente a quali comfort aveva liberamente accesso e ricordava sicuramente che l’uomo avesse menzionato una piscina. Era incastonata nel cemento piastrellato, le luci incastrate nel terreno gli davano la possibilità di intravedere qualche lettino, un paio di isole con materassi e cuscini coperte da una tettoia per prendere il sole, dei tavolini con le sedie e la piscina grande e rotonda che affacciava direttamente sul mare. Affianco a lui percorse i gradini che vi conducevano, attraversò lo spazio di relax, aggirò la piscina che sprigionava un familiare odore di cloro e raggiunse la seconda sponda che affacciava sulla spiaggia privata: un pezzo di sabbia che si espandeva prolungata per l’abitazione e che era, a tutti gli effetti, di sua proprietà. Lanciò un’occhiata al mare immerso nell’oscurità, era calmo e le sue onde che s’infrangevano sulla battigia producevano un suono rilassante. Mancava qualcosa, qualcuno, Jude lo percepiva; quell’asfissiante sensazione di mancanza, di vuoto, non azzardava a lasciare il suo petto, il suo cuore. Sospirò.

«È davvero incredibile,» sussultò leggermente quando la voce di Mark giunse alle sue orecchie. Si voltò appena, giusto il tempo di vedere l’amico che si affiancava a lui mettendosi nella stessa posizione con i gomiti poggiati sul parapetto. Continuò a osservarlo, tracciando i suoi lineamenti giovanili, nonostante avesse venticinque anni. Mark, sentendosi probabilmente osservato, ricambiò lo sguardo dedicandogli un sorriso piacevole.

«Insomma, questo è davvero tutto tuo?» Continuò allargando brevemente le braccia a indicare l’ambiente circostante. «Già.» Rispose Jude, senza nessuna emozione particolare nella voce, impegnato a non lasciarsi trasportare dai pensieri insistenti. Sapeva che avrebbe dovuto provare riconoscenza per tutta la fortuna che aveva avuto — malgrado tutto — nella vita: era capitato in una famiglia molto benestante, suo padre non gli aveva mai fatto mancare niente, aveva assecondato la sua passione per il calcio, l’aveva iscritto nei migliori istituti della città, aveva assicurato i fondi per mandarlo in nazionale, aveva pagato l’università in Inghilterra. E adesso gli aveva addirittura comprato una villa coloniale sulla costa che gli sembrava quasi di essere stato catapultato all’interno del “Il Grande Gatsby”. Eppure, la stessa emozione che aveva sentito nella voce di Mark, lui non la provava. È incredibile, continuò a dire il castano proseguendo a guardarsi attorno con aria meravigliata e stupefatta, c’è anche un campo da calcio!

Si voltò repentinamente in direzione di Mark il quale stava indicando con un dito quello che, nella penombra e posizionato qualche grandino più in basso rispetto a dov’erano loro, a tutti gli effetti era un campo di calcio che affacciava direttamente sul mare. Jude restò immobile a fissare con espressione sconvolta, confusa, disorientata e probabilmente anche turbata mentre l’amico al suo fianco aveva la faccia più felice che avesse mai visto. Si voltò, Mark, alzando un braccio facendo in modo che anche gli altri lo vedessero e, appena gli altri riuscirono a individuarlo, con un breve gesto della mando li invitò tutti quanti a raggiungerli. Dovettero armeggiare un po’ con l’impianto elettrico prima di riuscire ad accendere le luci appese in alto sulla recinzione alta che illuminarono il campo. Tutti non mancarono di rivolgere apprezzamenti, soprattutto Mark che si lasciò, come al solito, trasportare dall’esaltazione. Si sedettero sul lato del campo che affacciava sulla spiaggia, tornando a riempire l’ambiente incredibilmente familiare di ricordi commoventi del passato, riportando alla luce i momenti più emozionanti di quando giocavano a calcio, inclusi i primi passi che avevano visto proprio Mark lottare per raggiungere il numero sufficiente di giocatori che gli avrebbe concesso di partecipare all’amichevole contro la Royal Accademy. Sembrava una vita fa. Jude non intervenne molto, a condurre la conversazione fu l'amico, ma i ricordi che gli giunsero alla mente furono ugualmente condivisi da tutti. Restarono per un tempo indefinito, accorgendosi dell’orario andato troppo oltre a causa delle luci nel giardino che vennero spente e i camerieri si operavano a rimettere tutto in ordine. Il piccolo gruppo di amici si alzò all’unisono avviandosi fuori dal campo, le luci vennero spente e appena raggiunta la porta d’ingresso della casa ormai deserta, Jude scambiò nuovamente una serie di abbracci. «Dovremmo fare una rimpatriata!» Aggiunse Mark poco prima di voltarsi e dirigersi alla macchina affiancato dagli altri i quali  acconsentirono con l’idea dell’ex capitano, dirigendosi a loro volta verso i loro rispettivi veicoli rivolgendo un ultimo saluto a Jude. Solo Axel restò finché non furono rimasti da soli.

«Sei turbato,» gli disse il biondo, con un’espressione consapevole e sicura di sé. Parlò utilizzando un’intonazione calma, Jude trasalì appena, sconvolto all’idea di essere stato smascherato con così tanta facilità. Poi Axel continuò «E posso intuire il motivo.» Fece una pausa, dalla tasca dei pantaloni tirò fuori un biglietto piegato in quattro e glielo mise direttamente in mano. Lo aprì leggendo esattamente quello che l’amico gli recitò: «Celia frequenta l’università di Tokyo, dipartimento di Lettere e lavora part-time in una caffetteria vicino, l’indirizzo è scritto lì.»

«Come–» fu tutto ciò che riuscì a dire Jude, la voce spezzata e una faccia sbigottita.

«Julia frequenta la stessa università, la vede spesso. Non è stato difficile ottenere qualche informazione. Quando mi è arrivato l’invito sospettavo che fossi tornato e non sapevo se fossi rimasto in contatto con lei» quelle parole, seppur dette con totale mancanza di rimprovero o malignità, furono come una coltellata. Lui e Celia avevano mantenuto i contatti per un po’ successivamente alla cerimonia dei diplomi e dopo che Jude aveva iniziato le superiori, circa un anno dopo, si erano di nuovo persi di vista. Quando anche lei aveva iniziato a frequentare il liceo da un’altra parte, era stato ancora più difficile. Gli impegni si erano moltiplicati, i momenti in cui riuscivano a vedersi erano davvero limitati, fino a scomparire totalmente. Poi Jude era partito per frequentare l’università in Inghilterra e l'aveva persa definitivamente. Ma aveva pensato a lei ogni singolo giorno.

«Grazie.» Rispose a denti stretti, il senso di colpa era tornato a tormentargli il cuore, quella sgradevole sensazione all’altezza del petto che non accennava a scomparire ma, anzi, era spiacevolmente aumentata. «Ci vediamo, allora» Disse Axel sollevando una mano in segno di saluto. Jude rimase sulla porta seguendo la figura dell’amico raggiungere la macchina, lo osservò salire, dare qualche breve spiegazione a Mark, il quale, prima che l’auto partisse, agitò la mano in sua direzione. Chiuse la porta e si ritirò nella sua stanza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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