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Autore: Noize    11/04/2024    0 recensioni
[Tom Clancy Rainbow Six Siege]
"Seduto al tavolo c’era anche Fuze che, però, sembrava non partecipare al buonumore collettivo, preferendo continuare a mangiare il suo pranzo in silenzio e limitandosi a lanciare di tanto in tanto qualche occhiataccia all’intruso seduto al loro tavolo.
[...]
Se fosse dipeso da lui, il francese avrebbe potuto trascorrere nella più nera solitudine ogni singolo giorno che gli restava da vivere, ma purtroppo non poteva mandarlo via così, senza una ragione concreta, per quanto desiderasse ardentemente farlo."

***

Glaz e Rook sembrano essere improvvisamente diventati molto amici e Fuze è non poco infastidito dal loro rapporto, nonostante morirebbe pur di ammetterlo.
Pairing: Glaz x Fuze (accenni di Bandit x Jager)
Parole: 8k
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Non ricordo l’ultima volta che ho riso tanto.” Disse Glaz con le lacrime agli occhi.

“Ti avevo detto che mi avresti ringraziato.” Ribatté Rook, che non aveva smesso di ridere un momento da quando era entrato in mensa.

“Non credevo esistessero tanti modi per sbagliare un solo esercizio. Fortuna che le armi erano caricate a salve, altrimenti domani saremmo dovuti andare a parecchi funerali.”

“Parlate di Jenkins, vero?” si intromise Kapkan, sghignazzando “Quel tizio è uno spettacolo da guardare.”

Seduto al tavolo assieme agli altri tre uomini c’era anche Fuze che, però, sembrava non partecipare al buonumore collettivo, preferendo continuare a mangiare il suo pranzo in silenzio e limitandosi a lanciare di tanto in tanto qualche occhiataccia all’intruso seduto al loro tavolo.

Già quella mattina il francese era stato invitato a fare colazione con loro da Glaz, a cui dispiaceva (forse fin troppo, almeno per i gusti dell’uzbeko) vederlo da solo, dato che gli altri membri del GIGN erano stati inviati in missione in Turchia. Il francese era poi riuscito a convincere il cecchino a disertare la rituale sessione di cazzeggio con i suoi colleghi russi per aiutarlo ad addestrare un gruppo di reclute che gli erano state affidate; attività che, a quanto pareva, si era rivelata incredibilmente spassosa. In aggiunta a tutto ciò, come se la sua proverbiale scarsa pazienza non fosse già stata messa a dura prova, ora era persino costretto ad ascoltare il suo fastidioso chiacchiericcio durante il momento della giornata per lui più sacro: il pranzo.

Se fosse dipeso da lui, il francese avrebbe potuto trascorrere nella più nera solitudine ogni singolo giorno che gli restava da vivere, ma purtroppo non poteva mandarlo via così, senza una ragione concreta, per quanto desiderasse ardentemente farlo.

“…così ha detto che avrebbe montato lui la tenda, ma mentre stendeva il telo gli è crollata tutta la struttura addosso ed è rimasto intrappolato all’interno. All’inizio diceva che non aveva bisogno di aiuto e che aveva tutto sotto controllo, ma dopo qualche minuto ha preso ad urlare come un pazzo e ad insultare i suoi compagni perché se ne stavano fermi senza far nulla mentre lui stava morendo. Non so come abbia fatto, ma era così aggrovigliato che ci sono voluti tre uomini e quasi 10 minuti per liberarlo.” Kapkan rideva così tanto mentre raccontava l’aneddoto capitato una settimana prima durante un addestramento nel bosco che riusciva a stento ad articolare le parole. “Se non mi sono pisciato sotto dalle risate quel giorno, credo che non succederà mai più.”

Quella storia suscitò talmente tanta ilarità che Rook quasi soffocò a causa di un boccone andatogli di traverso e Glaz batté così forte il pugno sul tavolo che la sua bottiglia si rovesciò, spruzzando un po’ d’acqua nel piatto di Fuze, che gli era seduto di fronte.

Da quando si erano seduti a tavola, quei tre non avevano smesso un attimo di parlare e scherzare, soprattutto i due più giovani, che sembravano quasi ignari che al di fuori di loro due esistesse un intero mondo e che molti abitanti di quel mondo avrebbero di certo preferito pranzare in santa pace, senza il loro continuo schiamazzo in sottofondo. Ma niente sembrava importante eccetto la loro stupida conversazione.

Agli occhi del cecchino, persino Fuze sembrava essere invisibile quel giorno. Fatta eccezione, infatti, per un minuscolo cenno di saluto appena si erano incontrati, Glaz non lo aveva degnato di uno sguardo, cosa piuttosto strana dal momento che il russo sembrava essere particolarmente attratto da quel caso umano che era il suo compagno d’armi. Ad ogni modo, la sua attenzione al momento sembrava tutta rivolta al suo nuovo amico. Che poi l’uzbeko neanche sapeva che fossero amici quei due. Cioè, li aveva visti scambiare due parole ogni tanto, ma niente di più, o per lo meno niente che giustificasse quella sintonia e quella complicità che dimostravano.

Era davvero bastata una manciata di ore trascorse a mettere in riga un manipolo di reclute ad unirli al punto da sembrare compagni di vecchia data? No, non era possibile, per di più già a colazione si erano comportati in quel modo. Eppure era strano che non sapesse nulla di quella loro amicizia, soprattutto considerando che era di Glaz che si stava parlando, cioè dell’unico individuo sulla faccia della Terra che alla domanda “come è andata oggi?” non rispondeva nel modo che la società imponeva, ossia con una scrollata di spalle o un grugnito o una laconica frase di circostanza, ma prendeva a parlare per interi minuti di ogni minimo avvenimento che gli era capitato.

Quindi, dopo aver ascoltato interminabili monologhi riguardo i più irrilevanti noiosi ed inutili momenti delle sue giornate, a partire dalle intricate considerazioni fatte prima di effettuare la delicatissima scelta del tè da accompagnare ai pancake di Castle fino alla descrizione eccessivamente particolareggiata di un cardellino che aveva visto mentre si allenava nell’area di tiro, passando per il prolisso resoconto riguardante l’acquisto da parte di IQ di un nuovo smalto color pesca, l’uzbeko era convinto di essere a conoscenza non solo di tutte le informazioni importanti che riguardavano il suo ragazzo, ma anche di una quantità considerevole di cose che, a voler essere gentili, potevano essere definite superflue.

Come era possibile, quindi, che Glaz non avesse mai menzionato il francese prima? Non era plausibile che gliene avesse parlato e lui non se ne ricordasse perché, per quanto la maggior parte dei racconti del cecchino fossero farciti di aneddoti ed eventi per nulla degni di nota, Fuze prestava comunque sempre massima attenzione ad ogni sua singola parola: non solo apprezzava il fatto stesso che desiderasse condividere anche il più insignificante momento della sua vita con lui, ma amava poter seguire il flusso dei suoi pensieri e comprendere il modo in cui ragionava e i dettagli su cui si focalizzava il suo interesse.
Non c’era molto da speculare dunque, la soluzione a quel dilemma era tanto semplice quanto dolorosa da accettare: non sapeva del loro rapporto perché lui non gliene aveva mai parlato, sì, insomma, glielo aveva tenuto nascosto. A quel pensiero il suo stomaco si esibì in uno spettacolare numero di contorsionismo, rovinandogli definitivamente l’appetito e, di conseguenza, il pranzo.

Al tavolo ridevano tutti. Sembrava che l’ultima battuta del francese fosse stata davvero esilarante, ma Fuze, che non aveva la più pallida idea di cosa stessero dicendo i suoi colleghi, non l’aveva capita e, così come non rise in quel momento, non rise neppure in seguito. Non accennò neanche un timido sorriso, neanche una volta. Se ne restò con quella sua espressione infastidita e accigliata per tutto il tempo, fino alla fine di quel tremendo pranzo. In alcuni momenti non fu semplice tenere il punto e restare impassibile perché, anche se Fuze odiava ammetterlo, il francese aveva uno spiccato senso dell’umorismo e sembrava riuscire anche a tirar fuori tutto il potenziale di Glaz che, a differenza di quanto si sarebbe potuto pensare a prima vista, sapeva essere piuttosto divertente quando ci si metteva; ragion per cui fu davvero un’ardua impresa non lasciarsi sfuggire nemmeno una piccolissima risatina, ma riuscì a trattenersi. Sperava che, così facendo, il suo fastidio sarebbe stato talmente evidente da convincere lo sgradito ospite ad alzare i tacchi e andarsene. Purtroppo per lui, il messaggio non venne recepito o forse venne deliberatamente ignorato.

“Io e Shuhrat andiamo in officina dopo, ti va di unirti a noi?”

Bastarono quelle poche semplici parole affinché il fastidio si trasformasse in insofferenza totale.

Gli ultimi giorni erano stati intensi. L’imminente missione aveva reso l’atmosfera nella base molto tesa e, per mettere a punto una strategia d’azione perfetta e per essere certi che tutti i preparativi fossero portati a termine in tempo e nel miglior modo possibile, ognuno di loro aveva lavorato instancabilmente e a ritmi forsennati, soprattutto coloro che non avrebbero partecipato all’operazione poiché, a differenza di questi ultimi, potevano fare gli straordinari e restare in piedi fino a tarda ora senza doversi poi preoccupare di avere défaillance sul campo dovute alla stanchezza. Ma dopo tanto tempo trascorso a sgobbare senza tregua e dopo essere tornati in camera la sera talmente stremati da non avere la forza di fare altro se non crollare in un sonno profondo, finalmente avevano un giorno libero.

Quel pomeriggio, con tutta probabilità, l’officina sarebbe stata deserta. Considerato che già in condizioni normali non era un luogo molto frequentato e che una buona parte degli operatori era in missione, Fuze aveva pensato di sfruttare l’occasione per restare un po’ da solo con Glaz, ma nel suo piano non aveva previsto l’eventualità che il suo ragazzo preferisse parlare con un tizio semisconosciuto piuttosto che passare del tempo con lui.

Quella situazione era assurda, paradossale, tanto surreale che l’uzbeko iniziò a dubitare della realtà, dei propri sensi e della propria lucidità mentale. Forse quella mattina non si era mai svegliato e stava solo facendo un sogno dannatamente noioso e realistico, oppure forse i funghi che aveva mangiato accanto al roastbeef erano velenosi e adesso era in preda alle allucinazioni, oppure durante la notte era stato rapito dagli alieni che lo avevano rinchiuso all’interno di una strana simulazione della sua vita per osservare il suo comportamento a fini scientifici.
Gli era più facile credere a una di quelle folli ipotesi che convincersi del fatto che Glaz avesse appena dichiarato di preferire la compagnia del francese alla sua. Glaz, lo stesso uomo che non si era fatto scoraggiare dal suo caratteraccio e che, con tenacia e pazienza, era riuscito a farlo finalmente aprire, lo stesso che aveva faticato a lungo per riuscire a fargli accettare il proprio amore e che aveva pazientato ancora più a lungo prima che l’altro fosse pronto ad accettare anche i propri di sentimenti, lo stesso che lo aveva sempre ricoperto di attenzioni, a volte persino eccessive e indesiderate, per fargli capire quanto tenesse a lui, lo stesso che aveva pianto come un bambino durante il loro primo vero litigio e lo stesso che ogni giorno e ogni sera lo salutava con un bacio e un sorriso. Quel Glaz sembrava tutto ad un tratto trovare l’idea di stare con l’uomo per cui aveva lottato così duramente meno allettante che ascoltare quel ragazzetto con la erre moscia blaterare per ore di chissà cosa.

“Per te va bene, Shuhrat?” La voce del cecchino interruppe quel flusso di pensieri deprimenti.

Fuze avrebbe voluto alzarsi in piedi, sbattere le mani sul tavolo facendo volare via i resti del suo pranzo annacquato e urlare “no, certo che no!”, ma non c’era alcun motivo concreto per cui la presenza del francese avrebbe dovuto infastidirlo dal momento che la sua relazione con l’altro Spetsnaz era tutt’altro che ufficiale. Perciò si limitò a fare spallucce.

L’assenza di Kapkan e il cambio di ambientazione non sortirono alcun effetto sul duo Glaz-Rook che continuò imperterrito nella sua missione di mostrare all’universo intero quanta affinità ci fosse tra loro e quanto si divertissero insieme. L’uzbeko non sapeva dire del resto del cosmo, ma poteva affermare con sicurezza che a lui il messaggio era arrivato forte e chiaro e decise che non se ne sarebbe stato lì fermo con le mani in mano a guardare mentre quel bastardo gli rubava il ragazzo, ammaliandolo con quel suo bel faccino da bravo ragazzo e quei suoi occhioni blu.

Purtroppo gli umani hanno un modo più complesso e più sottile di marcare il territorio rispetto ai cani e non è sufficiente urinare dappertutto per tenere alla larga gli altri maschi, di questo era consapevole, ma se sapeva con esattezza cosa non doveva fare, non aveva invece la minima idea di cosa avrebbe dovuto fare, ragion per cui il suo patetico tentativo di contrattacco fallì in poco meno di tre minuti. La sua inesperienza in quello specifico campo, la paura che il suo interesse per Glaz risultasse troppo evidente agli occhi del francese e l’incapacità di fare conversazione sarebbero state già sufficienti da sole a garantirgli un’umiliante disfatta, se poi ci si aggiunge il fatto che l’argomento di cui stavano discutendo gli era del tutto ignoto e che ogni suo intervento aveva come unico esito il farlo apparire come un imbecille, allora il triste epilogo risulterà più che comprensibile.

Ormai sconfitto, Fuze decise di optare per una strategia più vile, ma meno imbarazzante: “se non puoi batterlo, ignoralo e spera che se ne vada presto”. Non andava fiero di quella scelta tattica, ma sentiva di aver esaurito ogni alternativa. Si alzò e andò quindi a prendere il nuovo fucile di precisione di Glaz per smanettarci un po’. Forse così sarebbe riuscito ad attirare l’attenzione del cecchino.
Per la prima volta da quella mattina un suo piano sembrò aver funzionato perché, in effetti, il suo compagno notò la nuova occupazione dell’uzbeko e interruppe il discorso che stava facendo con il suo nuovo amico per rivolgersi a lui.

“Ancora lavoro? Perché non ti prendi una pausa?” Gli chiese con un’aria scocciata e quasi stanca, come se l’idea di avere accanto a sé qualcuno alle prese con un’attività più faticosa del restare seduto a girarsi i pollici lo spossasse in modo indicibile.

“Non ho niente di meglio da fare.” Rispose l’altro con un’alzata di spalle. Per quanto Fuze non si potesse proprio definire una persona attenta, non gli passò inosservata l’espressione che balenò per un istante sul viso del russo, ma scomparve talmente in fretta che non riuscì a decifrarla. Decise comunque che non gli importava, non gli importava né cosa pensasse Glaz né cosa facesse; tutto ciò su cui si sarebbe catalizzato il suo interesse da quel momento in poi sarebbe stato l’Orsis T-5000M. Recuperò le cuffie che teneva in un cassetto del tavolo da lavoro tra cacciaviti, chiavi inglesi, cavi e bobine, le indossò dopo averle districate non senza fatica e si mise al lavoro a testa bassa.
Lasciare quelle cuffie lì si era rivelata una delle intuizioni più brillanti che Fuze avesse mai avuto. Le aveva portate in officina un paio di mesi prima, dopo che, durante un nefasto pomeriggio di febbraio, Jäger aveva sentito l’improvvisa esigenza di sommergerlo di chiacchiere.

Sin da quando erano arrivati ad Hereford, l’uzbeko ed il tedesco avevano eletto a proprio rifugio tranquillo quel posto; certo, non era insolito trovare anche qualcuno tra Mute, Twitch, Kapkan o IQ, ma era quasi impossibile non trovare quei due. Trascorrevano pomeriggi interi a smontare e rimontare congegni spesso inutili, a studiare migliorie per i loro gadget, a buttare giù progetti su progetti, a scarabocchiare fogli con calcoli approssimativi e disegni tecnici che avevano la peculiarità di non rispettare neanche la metà delle norme ISO per poi rendersi conto che quell’affare che avevano in mente non avrebbe mai potuto funzionare in un mondo governato dalle vigenti leggi della fisica.
Insomma, gradivano la reciproca compagnia e alcuni tra i più coraggiosi osavano persino definirli amici, ma l’uzbeko non era d’accordo con quella definizione. In effetti, considerando tutto il tempo che passavano insieme non era folle che qualcuno potesse crederlo, ma chiunque avesse avuto la possibilità di ascoltare le loro conversazioni e vedere come si relazionavano l’un l’altro si guardava bene dal definirli in quel modo o in qualunque altro. In mesi e mesi di incontri pomeridiani non avevano mai parlato di altro all’infuori dei loro stupidi congegni, era il loro unico argomento di conversazione e ad entrambi pareva non dispiacere la cosa, almeno fino a quello spiacevolissimo episodio.

Era un orribile giorno di pioggia di fine febbraio e non era il primo, bensì l’undicesimo di fila. Solo in due occasioni prima di allora il meteo si era dimostrato altrettanto inclemente per tanti giorni consecutivi: una volta per 12 giorni, mentre la seconda volta sulla base di Hereford il sole non aveva brillato per ben 17 giorni consecutivi (giorni che venivano ricordati come “il periodo del Terrore”). Durante quei tempi bui e nefasti, la gran parte delle attività veniva sospesa e tutti si rintanavano nelle zone comuni al chiuso, cercando di tenersi impegnati come meglio potevano, cioè chiacchierando, improvvisando bische clandestine, facendo giochi da adolescenti e organizzando contest di forza. Fuze detestava quei periodi. Sebbene gli operatori in servizio fossero appena 26 e la base fosse piuttosto grande, sembrava impossibile trovare un angolino tranquillo e, ovunque andasse, trovava persone urlanti che provavano costantemente a coinvolgerlo nelle più assurde attività; ma non era quella la parte peggiore, niente affatto. Il disastro avveniva superate le 72 ore di segregazione, quando iniziavano a comparire i primi segni di cedimento.

Quando il maltempo imperversava per più di qualche giorno, infatti, al cameratismo e al piacere di stare insieme si sostituiva l’insofferenza, che in alcuni sfociava quasi in nevrastenia. Ben presto l’entusiasmo iniziale legato a partite di poker e a competizioni di mascolinità e prestanza fisica andava calando e, svanita la possibilità di giocare a beer pong o ubriacarsi come delle merde dopo aver scolato anche l’ultima bottiglia delle scorte segrete di alcol presenti in tutta la base, cominciava a farsi largo uno degli stati d’animo più pericolosi in assoluto: la noia.

Bandit era sempre il primo a mostrarne i segnali. Lo si vedeva camminare in lungo e in largo per i corridoi e le stanze, in cerca di qualcosa che potesse tenerlo impegnato anche solo per 5 minuti; attaccava bottone con chiunque aspettando di venire a conoscenza di qualche notizia interessante, ma dopo aver passato gli ultimi giorni a parlare era assai improbabile che fosse rimasto qualcosa da dire. Spesso si piantava di fronte alle finestre ad osservare il cielo con espressione dapprima speranzosa, poi delusa ed infine furibonda, quindi andava con passo deciso verso la porta e usciva all’esterno, quasi come a sfidare Madre Natura a fare di meglio o forse per chiederle di mettere fine alle sue sofferenze fulminandolo lì sul posto. In ogni caso, che fosse un atto di ribellione o di resa, durava sempre poco e tutto ciò che ne ricavava erano dei vestiti bagnati e un pavimento da asciugare.

Nel giro di pochi giorni, però, si univano al gruppo degli irrequieti anche Caveira, Kapkan, Smoke e Ash ed era allora che sorgevano i problemi. Quei cinque insieme erano terrificanti. Avevano trovato un modo efficace per combattere il piattume della routine, un modo che portò chiunque avesse provato pietà per quelle povere anime che erano state tanto tristi e frustrate durante quei giorni di pioggia a rimpiangere amaramente di aver provato sentimenti di compassione nei loro confronti. La base diveniva da un giorno all’altro un campo di battaglia: non c’era più alcun posto in cui potersi sentire al sicuro o momento della giornata in cui poter chiudere gli occhi e rilassarsi, la tensione e il sospetto divenivano amici inseparabili di ogni operatore, consapevole di essere una potenziale vittima ed intimorito dalla prospettiva di poter essere proprio il prossimo.

“È solo uno scherzo.” Così si giustificavano con i loro colleghi, ma la verità era che spesso le loro trovate finivano per somigliare più a tentati omicidi che a scherzi. Cominciavano sempre con piccole burle di poco conto, come riempire le scarpe di qualcuno con della panna o allentare le viti di una sedia o mettere un uovo marcio nascosto in una camera, insomma tutte cose piuttosto banali e abbastanza innocue. Più passava il tempo, però, più quei cinque calcavano la mano e, durante gli ultimi giorni del Terrore, alcuni rischiarono davvero di rimetterci la pelle, che fu poi la ragione per cui quel periodo venne battezzato con quel nome.
Una volta Smoke attirò con una scusa Mute nella cella frigorifera della mensa e lo rinchiuse lì dentro con l’intenzione poi di liberarlo dopo al massimo mezz’ora, ma purtroppo i preparativi dello scherzo successivo lo tennero talmente impegnato che si ricordò del suo amico intrappolato nel freezer solo dopo quasi due ore, quando ormai erano già subentrati i primi sintomi dell’ipotermia. In un’altra occasione cosparsero di burro tutte le scale della base e Montagne si slogò un polso e quasi si ruppe l’osso del collo capitombolando giù per approssimativamente 20 gradini. Ma il peggiore in assoluto fu lo scherzo architettato per svegliare Castle, quando quegli idioti fecero brillare un piccolo quantitativo di materiale esplosivo accanto al suo letto e prese fuoco metà del dormitorio americano.

In ogni caso, quel nefasto giorno di fine febbraio, la base intera si trovava nel bel mezzo di una nuova ondata di Terrore e la vittima dello scherzo mattutino era stata Jäger. L’ingegnere tedesco era una delle prede preferite del suo compagno di squadra Bandit a causa della mal riposta nonché del tutto immotivata fiducia che egli nutriva nei confronti di quell’imbecille e a causa del fatto che era molto semplice trovare una scusa per adescarlo dal momento che erano (all’incirca) fidanzati. Non era ben chiaro che tipo di rapporto ci fosse tra loro, dipendeva a chi dei due lo si domandasse.

“Basta, ho chiuso con lui!” Sbraitò, chiudendosi rabbiosamente la porta dell’officina alle spalle e andandosi a sedere al suo solito posto, accanto all’uzbeko che continuò a lavorare sul congegno che aveva di fronte, senza degnare il nuovo arrivato di alcuna reazione. Ma questo non servì a dissuaderlo dal proseguire il suo sfogo.

“Stavolta Dominic ha davvero esagerato. Lo sai che ha fatto?” Chiese, sporgendosi verso il collega.

Gli era stata rivolta una domanda diretta e Fuze non poteva astenersi dal rispondere. Sospirò e, senza alzare lo sguardo, disse: “Qualcosa di stupido di sicuro.”

Il tedesco iniziò a raccontare di come Bandit lo avesse fatto spogliare (non era difficile immaginare con quale scusa) e lo avesse poi legato come una braciola e quindi alzato di peso e portato sulle scale di emergenza, all’esterno; quindi gli aveva lasciato un coltellino, gli aveva augurato buona fortuna con la sua solita espressione compiaciuta che avrebbe fatto venir voglia di spaccargli la faccia persino al Mahatma Gandhi e lo aveva chiuso fuori, nudo, a febbraio, sotto la pioggia incessante.
Dopo aver impiegato lunghissimi minuti per liberarsi dall’intricato groviglio di corde che lo immobilizzavano, Jäger aveva provato a rientrare nella base dagli ingressi secondari o da qualche finestra, ma ovviamente aveva trovato ogni via di accesso alternativa al portone principale sbarrata. La sua scelta era quindi stata obbligata e, come era facilmente immaginabile, appena varcata la soglia trovò circa venti paia di occhi a fissarlo. Bandit aveva radunato quasi ogni persona presente nella base per assistere al suo ingresso trionfale e ridere di lui, della sua ingenuità e di ciò che aveva in mezzo alle gambe, che, in quel momento, a causa del freddo, non aveva di certo un aspetto glorioso.

“Cosa dovrei fare secondo te?” Disse quando ebbe terminato il suo sfogo.

Fuze fu colto alla sprovvista da quella domanda, non solo perché non era sicuro di cosa significasse, ma soprattutto perché quello sembrava sempre meno un discorso tra due semisconosciuti e sempre più uno tra due amici. Il tedesco gli stava davvero chiedendo consigli sulla propria vita sentimentale?

“Cioè,” incalzò Jäger “lo so che non lo fa con cattiveria, ma dovrebbe capire qual è il limite.”

Fuze era decisamente d’accordo con l’ultima parte di quell’affermazione, molto meno con quella precedente, ma si astenne dall’esprimere quel suo pensiero e disse semplicemente: “Dovresti reagire. Se avesse fatto una cosa simile a me, adesso sarebbe in sedia a rotelle.”

Detta da qualcun altro quella frase sarebbe potuta sembrare una battuta, ma chiunque conoscesse un minimo l’uzbeko sapeva bene che quella non era ironia. Si potrebbe dire che Fuze non fosse un grande amante degli scherzi, ma sarebbe a dir poco riduttivo. L’unico a cui era permesso farglieli, in nome dell’amicizia che c’era tra i due, era Kapkan, il quale era comunque ben consapevole di quali fossero i confini ed era sempre attento a non oltrepassarli. Gli altri non si azzardavano neanche a tentare; persino Bandit si era lasciato convincere dal russo che non valesse la pena rischiare la propria incolumità per farsi due risate.

Jäger rispose a quella sorta di consiglio ricevuto con un monologo di quasi un’ora in cui espose dapprima le ragioni per cui avrebbe, in effetti, dovuto smettere di farsi trattare in quel modo, supportate da numerosissimi esempi di episodi in cui l’essere stato troppo buono con Bandit si era dimostrato poco fruttuoso. Passò, poi, a raccontare una discussione avuta con il suo migliore amico Blitz riguardo lo stesso argomento e le conclusioni che ne aveva tratto, quindi iniziò ad elencare i problemi della sua relazione amorosa e a spiegare in che modo la sua vita ed il suo umore fossero peggiorati notevolmente da quando l’aveva intrapresa; continuò dunque con una carrellata di ricordi terribili di cui Bandit gli aveva fatto dono negli ultimi mesi, a confronto dei quali i bei momenti sembravano così sparuti ed insignificanti che si domandava cosa lo spingesse ancora a stare con quel tipo. Con un po’ di fatica trovò poi la risposta a quel quesito e cominciarono così a tornargli alla mente episodi lieti, gesti romantici, parole sussurrate, pensieri d’amore e una serie di altre cose sdolcinate che in un baleno furono capaci di cancellare tre quarti d’ora di lamentele e di rancore e di far nascere nell’animo del tedesco un immenso desiderio di abbracciare il suo amato e chiedergli scusa per qualcosa di cui non era colpevole.

“Adesso so cosa devo fare. Grazie mille, Shuhrat, sei un amico!” Queste furono le sue ultime parole, prima di catapultarsi fuori dall’officina.

Nella stanza rimasero quindi solo Fuze e la dignità ormai svilita del tedesco, entrambi perplessi. L’uzbeko non era sicuro di cosa fosse accaduto, di quale processo mentale avesse portato Jäger a quella conclusione e di che ruolo avesse avuto lui nel suddetto processo. Era rimasto in religioso silenzio per tutto il tempo, guardandosi bene dal proferire parola per non dare all’altro l’impressione errata che gli importasse qualcosa della sua vita sentimentale e di quella specie di relazione che aveva con quell’imbecille di Bandit, eppure per qualche inspiegabile motivo Jäger lo aveva ringraziato di cuore, lo aveva chiamato per nome e lo aveva perfino chiamato amico.
Qualunque cosa fosse successa, da allora il tedesco iniziò a sentirsi in diritto di sommergerlo ogni pomeriggio con i suoi pensieri e problemi personali e, dopo qualche giorno di silenziosa e stoica sopportazione, Fuze decise che era arrivato il momento di difendersi, quindi si procurò un paio di cuffie rigorosamente dotate di riduzione del rumore e prese l’abitudine di lavorare ascoltando la musica.

Dopo ben due mesi, quelle cuffie ritornavano ad avere la stessa identica funzione per cui erano state originariamente portate in officina, cioè permettergli di ignorare chi gli stava attorno. Avviò la sua solita playlist e finalmente, per la prima volta dopo diverse ore, riuscì a sentire qualcosa di diverso dal fastidioso chiacchiericcio del francese e dal suo irritante accento sexy.

Per un po’ si tenne impegnato studiando l’Orsis T-5000M, smontando ogni suo componente, pulendolo con cura e rimettendo poi tutto di nuovo al proprio posto, ma quell’operazione gli impiegò meno tempo del previsto. Rimasto a corto di cose da fare, non ci volle molto prima che sua attenzione fosse nuovamente catturata dalle voci di Glaz e Rook, in particolare quando sentì il cecchino pronunciare il suo nome. Mise rapidamente in pausa la playlist e, dissimulando alla perfezione il proprio interesse, senza sollevare lo sguardo dal tavolo da lavoro, iniziò ad origliare la loro conversazione.

“Shuhrat era l’unico a cui avevo raccontato questa storia prima d’ora.” Era questo che aveva detto Glaz, o qualcosa di molto simile.

“Mi dispiace molto di averti costretto ad affrontare l’argomento.” Ribatté il francese. Nella sua voce si poteva leggere un certo disagio.

“No, non devi, se te ne ho parlato è perché sentivo di potermi fidare di te.”

Quello era il massimo che poteva sopportare. Prima di trovarsi obbligato ad ascoltare un’altra parola, si alzò dalla sua postazione, afferrò il fucile e si diresse verso la porta a passo di marcia, rispondendo alla legittima domanda che gli posero i suoi colleghi con uno sbrigativo e vago “esco”.

Non aveva impiegato molto tempo per capire quale fosse l’argomento di cui stavano discutendo quei due. C’era una sola cosa su cui Glaz aveva sempre mentito a tutti, cioè la natura delle cicatrici che gli ricoprivano la parte destra del viso, compresa quella piccola ma molto evidente che aveva all’interno dell’occhio. In realtà, più che mentire, lasciava credere a tutti che fossero ricordi di ferite che si era procurato durante qualche missione o durante una delle famigerate e misteriose prove a cui si diceva che i soldati russi dovessero sottoporsi durante il loro addestramento. D’altronde, era così naturale pensare che se le fosse guadagnate sul campo che a nessuno mai era balzato per la mente che la realtà potesse essere ben diversa.

Si dice che la soluzione più semplice di un problema sia anche quella corretta e di solito è così, ma può capitare di essere talmente certi dell’ovvia correttezza della propria risposta da non porre neanche attenzione alla domanda. Pulse fu l’unico, mesi prima, a notare che le sue ferite erano troppo sottili e troppo numerose per essere dovute o all’esplosione di un ordigno nelle vicinanze del cecchino, come alcuni pensavano, o ad un incidente durante un addestramento con armi bianche, tesi sostenuta da parecchi. Secondo l’americano, doveva trattarsi di tagli causati da schegge di vetro o qualcosa di simile.

A seguito di quelle considerazioni si scatenò un’ondata di morboso interesse nei confronti di Glaz e del mistero che si celava dietro le sue cicatrici. Infatti, sebbene quella nuova teoria si sposasse alla perfezione con almeno un paio di scenari già immaginati in precedenza, compresa l’esplosione della tanto discussa bomba, bastò portare a galla quell’insignificante dubbio per destare la curiosità di ogni singolo operatore della base. Non è che la questione in sé presentasse chissà quale attrattiva, né la soluzione dell’arcano sembrava promettere grandi colpi di scena o risvolti inaspettati, ma si è già parlato profusamente di ciò che un essere umano può essere spinto a fare dalla noia. E così, allo stesso modo in cui in precedenza il principale argomento di conversazione ad Hereford per circa due settimane era stato l’odore pestilenziale emanato da un formaggio che Doc aveva avuto regalato da un suo parente e le contromisure più o meno non-violente che bisognava adottare per arginare il fenomeno e in cui, prima ancora di allora, per quasi un mese la ragione di vita di gran parte degli operatori era stata scoprire di che razza fosse la cagnetta di Sledge per farsene poi beffe (rigorosamente alle sue spalle per paura di ritorsioni), in quello stesso identico modo allora fu il turno di Glaz di finire sotto i riflettori.

Con grande stupore di tutti, il cecchino si rivelò molto restio a parlare di quella storia e la sua strana riluttanza, unita alle palesi menzogne che inventava nella speranza di soddisfare il pressante interesse dei suoi colleghi, non aveva fatto altro che alimentare la loro curiosità. Ogni tentativo di estorcere informazioni andò ad infrangersi contro il muro di silenzio del russo e così, dopo diverse settimane di infruttuose indagini e dopo aver adoperato ogni metodo legalmente consentito per convincerlo a parlare, alla fine la faccenda perse di appeal e l’attenzione si spostò su Blitz e sui suoi boxer dalle fantasie peculiari, le quali spaziavano dalle quasi banali automobiline in stile cartoon ad un improbabile stampa di hamburger e hot dog con la bandiera americana sullo sfondo.

L’unico di cui Glaz sentì di potersi fidare fu il suo ragazzo, a cui raccontò tutta la verità dal principio alla fine, ma non prima di averci pensato su per parecchi giorni e avergli fatto giurare e spergiurare che non ne avrebbe fatto parola con anima viva. Proprio per questo l’uzbeko stentava a comprendere il motivo che lo aveva improvvisamente spinto a raccontare tutto a Rook. Quel tipo era appena entrato nella vita di Glaz e già sembrava aver ottenuto tutto ciò che Fuze aveva impiegato mesi a conquistarsi, anzi, considerando la rapidità con cui sembrava evolvere il loro rapporto, entro la mattina seguente probabilmente avrebbe avuto anche la sua mano, oltre al suo culo.

Più pensava a quei due, più il sangue gli ribolliva nelle vene.

Giunto nel mezzo del cortile esterno del blocco B si fermò e contemplò per un istante l’idea di tornare indietro e riempire di pugni quel francesino del cazzo, ma per una volta permise al suo buon senso di prevalere e riprese a camminare, dirigendosi verso la palestra. In principio aveva pensato di andare a fare due tiri al poligono, ma i fucili da cecchino non lo interessavano in modo particolare e poi di certo sparare a due sagome di cartone non lo avrebbe aiutato a sfogare la rabbia meglio di una bella scarica di pugni ad un sacco da boxe. Pensandoci bene, poi, il poligono sarebbe stato proprio il primo luogo in cui Glaz e Rook lo avrebbero cercato e, sebbene le possibilità che ciò accadesse fossero molto remote, era comunque meglio premunirsi.

La palestra era deserta. Non erano molte le persone che dopo giorni sfiancanti come quelli appena trascorsi avevano voglia di sfinirsi ulteriormente e Fuze ne fu ben felice. Sistemò il fucile in un angolo, si tolse la felpa e cominciò a pestare il sacco con una foga tale che, se quell’ammasso di pelle e cotone pressato fosse stato vivo, sarebbe morto per mano dell’uzbeko almeno otto volte. E mentre le energie cominciavano ad esaurirsi, quel senso di rabbia cieca che era andato crescendo durante tutta la giornata iniziò a tramutarsi in qualcos’altro di molto simile all’indifferenza e ad un tratto si trovò a chiedersi per quale ragione avesse reagito in quel modo, per quale assurdo motivo si fosse messo a prendere a cazzotti un sacco da boxe fino a farsi male alle nocche per un uomo che, dopo avergli raccontato per mesi che lo amava, aveva dimostrato di non avere alcun rispetto nei suoi confronti, mettendosi a flirtare con un altro davanti ai suoi occhi, senza alcun pudore.

Il resto del pomeriggio Fuze lo trascorse seduto su una panca della palestra, in parte a pensare a ciò che avrebbe dovuto dire a Glaz, in parte maggiore invece a fissare il muro di fronte a sé.

Dopo essere stato immerso per circa due ore in una sorta di stato catatonico, si alzò, prese il fucile e lo riportò in officina, per poi tornare in camera a fare una doccia prima di andare in mensa. Sorprendentemente non incontrò Glaz né in un luogo né nell’altro, il che gli diede un po’ di tempo extra per prepararsi psicologicamente alla cena e, di conseguenza, a rivedere di nuovo quei due insieme. Aveva deciso che non avrebbe permesso loro di rovinargli anche il secondo pasto della giornata né di fargli rodere il fegato, no, non gli importava più, stavolta per davvero. L’indomani avrebbe affrontato la cosa con Glaz e se ciò avesse portato alla fine della loro relazione, allora sarebbe finita e sarebbero stati entrambi liberi di agire come meglio credevano. Era la cosa migliore.

Con questa impostazione mentale scese al piano terra ed entrò in mensa, dove ad attenderlo al solito tavolo c’erano le stesse persone che vi aveva trovato quella mattina e ad ora di pranzo. Quando si sedette, i tre erano già immersi in una conversazione che sembrava persino più divertente di quella sulla recluta Jenkins, ma Glaz la interruppe per chiedergli dove fosse stato quel pomeriggio, domanda a cui rispose nuovamente in modo vago. Non intendeva essere scortese, ma non aveva mai avuto così poca voglia di parlare come quella sera. Tutto ciò che voleva era mangiare e tornare in camera il prima possibile.

La cena fu una copia quasi perfetta del pranzo, ogni boccone di cibo ed ogni sorso d’acqua venivano accompagnati da sonore risate e ad ogni battuta Fuze desiderava essere da tutt’altra parte. Sentiva di essere di troppo, a quel tavolo come nella vita di Glaz. Nonostante i bei propositi che si era prefissato e tutte le frottole che si era raccontato nelle ultime ore, nonostante si fosse ripetuto più volte che non gli importava niente di cosa sarebbe accaduto, vedere il suo uomo ridere ed essere felice con un altro gli faceva male. Avrebbe voluto reagire, fare o dire qualcosa per riprendersi ciò che gli apparteneva, ma non era sicuro fosse la cosa giusta da fare. La verità era che la loro relazione era sempre stata fragile, traballante, nata quasi per capriccio ed incapace di reggersi sulle proprie gambe instabili ed immature, timorosa ed insicura di fronte persino ai più piccoli ed insignificanti ostacoli che l’esistenza le poneva di fronte. Certo, alla fine dopo ogni caduta si era risollevata e dopo ogni sbandamento aveva ritrovato la retta via, ma quella cieca ostinazione a non arrendersi e a sopravvivere contro ogni pronostico aveva davvero senso?

Come soldato, Fuze sapeva bene che nel suo lavoro era fondamentale possedere una piena consapevolezza di sé e dei propri mezzi e quella qualità era una delle poche che poteva vantarsi di possedere, sia sul campo che nella vita privata, ed era proprio essa a suggerirgli di lasciar perdere, di smettere di cercare una soluzione che non esisteva e di accettare la realtà dei fatti. Infatti, se come amico era sempre stato discutibile, come fidanzato era stato decisamente pessimo. Aveva sbagliato tutto ciò che si poteva sbagliare e detto tutto il necessario per ferire il suo ragazzo, si era sempre rifugiato dietro il suo orgoglio e mai una volta aveva ceduto di un centimetro durante una discussione, mai aveva chiesto scusa dopo un litigio anche se era nel torto, raramente aveva avuto parole dolci per il cecchino e fin troppe poche volte aveva ceduto all’impulso di abbracciarlo o di stampargli un tenero bacio sulla pelle e persino quando provava a fare del suo meglio riusciva a combinare casini.

Era semplicemente una catastrofe ambulante. Non c’era da stupirsi quindi se Glaz aveva deciso di trovare finalmente qualcuno che lo trattasse come meritava, anzi, Fuze si chiedeva come potesse aver resistito tanto a lungo.

Glaz sarebbe stato più felice con Rook. Il francese gli sembrava un ragazzo gentile, brillante e pieno di entusiasmo, e se anche Fuze si fosse sbagliato sul suo conto, era certo che sarebbe stato comunque un discreto miglioramento rispetto all’imbecille disadattato noioso e dotato dell’emotività di un fermacarte che era lui.

“Shuhrat,” la voce di Glaz lo catapultò fuori dal pozzo dei suoi pensieri “Julien voleva vedere Il filo nascosto, vieni anche tu?”

Fuze si guardò un attimo intorno confuso. Senza che se ne rendesse conto era passato un bel po’ di tempo, quanto non avrebbe saputo dirlo, ma abbastanza da permettere a tutti di terminare il loro pasto e di consentire alla maggior parte degli operatori di lasciare la mensa. Anche Kapkan, che era seduto proprio accanto a lui, era improvvisamente scomparso. Abbassò lo sguardo verso il suo piatto e notò che aveva a malapena toccato il cibo che aveva preso. L’uzbeko ne dedusse con leggera vergogna che doveva essere rimasto immobile come uno stoccafisso e con lo sguardo vacuo perso nel vuoto per buona parte della serata.

“Shuhrat?” Il russo richiamò di nuovo la sua attenzione. Sembrava preoccupato.

“No, grazie, passo.” Disse solo questo prima di alzarsi e dirigersi verso i dormitori.

Ecco un’altra cosa che non avevano in comune: la passione per il cinema. Glaz mostrava uno spiccato interesse per tutte le forme d’arte e il cinema era una delle espressioni artistiche che lo affascinava di più. Era in grado di immergersi completamente nella trama, di vivere gli eventi della pellicola come se stessero avvenendo attorno a lui, di empatizzare con i personaggi e di amarli, di lasciarsi trasportare dalle colonne sonore e rapire dai dialoghi e i suoi occhi brillavano dopo la visione di un bel film.

L’uzbeko aveva dato numerose chance alla settima arte, ma non riusciva ad apprezzarla, a prescindere dalla qualità del prodotto, e se continuava a tenere compagnia al cecchino durante le sue infinite maratone di film d’autore e continuava ad affermare alla fine di ognuna di esse che era senza parole di fronte alla bellezza di quelle opere era solo perché non voleva ferirlo dicendogli la verità.

Il filo nascosto aveva già dovuto sorbirselo la settimana precedente, assieme a gran parte dei film candidati agli oscar di quell’anno che Glaz voleva vedere dal primo all’ultimo, e una seconda visione gli sarebbe stata insopportabile anche in condizioni normali. In quel momento non riusciva ad immaginare tortura peggiore del dover trascorrere più di due ore seduto su un vecchio divano a riguardare quella pellicola ammorbante e ad ascoltare i commenti entusiasti di quei due e osservare le loro espressioni complici. E alla fine avrebbe dovuto pure fingere di essersi divertito. Aveva sì deciso di farsi da parte, ma non era tenuto a farsi del male, perciò, non essendo né idiota né autolesionista, preferì declinare l’invito.

Appena entrato in camera si spogliò e si infilò sotto le coperte. Desiderava solo dormire e non pensare più a nulla, ma il suo cervello non era d’accordo e si rifiutava di obbedire, continuando a torturarlo con pensieri deprimenti troppo rumorosi per essere ignorati. Si stava ormai rigirando nel letto da circa mezz’ora quando sentì il leggero cigolio dei cardini della porta, seguito dal suono ovattato di passi leggeri. Qualche istante dopo avvertì il materasso inclinarsi sotto il peso di un’altra persona, sedutasi alle sue spalle.

“Stai dormendo?”

Accarezzò per un attimo l’idea di tacere e fingere di essere sprofondato in un sonno pesante, ma alla fine si convinse che fuggire dal problema non fosse la sua soluzione.

“No.”

“Ti va di parlare?”

Fuze riusciva a percepire attraverso le lenzuola il tocco delicato sul suo braccio delle dita di Glaz. Il cecchino cercava sempre la rassicurante sensazione del contatto fisico quando era insicuro.

“Sei stato strano tutto il giorno. È successo qualcosa?”

All’uzbeko sembrò di cogliere una traccia di paura nella sua voce e quel sentore fu confermato quando, alzandosi a sedere e voltandosi, incontrò i suoi occhi.

“Davvero me lo stai chiedendo?” Una volta fuori, le parole gli risuonarono più brusche di quanto gli fossero sembrate mentre erano ancora nella sua testa.

“Se ho fatto qualcosa che ti ha infastidito, sappi che mi dispiace. Non volevo.”

Il suo tono innocente lo mandò in bestia.

“Quindi non l’hai fatto apposta a flirtare tutto il giorno con Rook davanti a me?” Sbottò.

A seguito di quell’affermazione, una miriade di espressioni attraversò il volto del cecchino: dapprima ci fu confusione, poi incredulità e sorpresa ed infine una punta di divertimento.

“Sei geloso di Julien?” Disse, fallendo nel tentativo di nascondere uno stupido sorrisetto compiaciuto che gli era comparso sulle labbra.

“Geloso io? Ma per favore!”

Invece lo era, terribilmente, ma non lo avrebbe ammesso, non senza combattere. Purtroppo per lui, però, Glaz lo conosceva abbastanza bene da capire quando mentiva e, anche se gli fece la gentilezza di non contestarlo apertamente, l’espressione da beota felice che aveva stampata in faccia parlava chiaro.

“È solo un amico, niente di più. Lo sai che amo solo te.” Gli sussurrò dolcemente mentre gli lasciava un bacio all’angolo della bocca.

Al russo risultava talmente naturale esprimere i suoi sentimenti che la faceva sembrare una roba da dilettanti. Le sue parole, le sue carezze, i suoi baci arrivavano sempre al momento giusto. Vedendo lui si sarebbe potuto pensare che non ci fosse cosa più semplice al mondo che dichiarare il proprio amore a qualcuno, che strapparsi il cuore dal petto e offrirlo ad un altro per spogliarsi di tutte le difese e affidarsi nudi ed inermi nelle mani di uno sconosciuto potesse essere un’idea meravigliosa, che non esistesse esperienza più piacevole del riporre fiducia incondizionata in un individuo che avrebbe potuto tradirti da un giorno all’altro.

“Però hai preferito stare tutto il giorno con lui e non con me.”

“Dici sempre che ti annoi a stare solo con me, perciò gli ho chiesto di unirsi a noi. È davvero una bella persona e, se gli avessi dato una possibilità, magari te ne saresti accorto anche tu.” Ribatté Glaz.

“Beh, sì, ma oggi avevo programmato di passare tutto il pomeriggio insieme… da soli.” Dire quelle cose ad alta voce lo faceva sentire in imbarazzo.

“Davvero? Volevi stare con me? Noi due soli?” Gli occhi del cecchino erano spalancati dalla sorpresa. “Potevi dirmelo, avrei mandato a cagare Julien all’istante.”

Il russo non aveva tutti i torti, in effetti avrebbe potuto parlargli dei progetti che aveva per quella giornata invece di tenere come sempre tutto per sé, ma era talmente convinto che Glaz lo avesse già rimpiazzato col francese che aveva ritenuto inutile farlo. Aprì la bocca per spiegargli le proprie motivazioni, ma si interruppe subito, vergognandosi alla sola idea di esternare un pensiero così idiota.

“Che volevi dire?”

“Niente.”

“Non è vero, stavi per dire qualcosa. Forza, parla.”

In altri momenti, quel braccio di ferro sarebbe andato avanti per ore, in un loop infinito di rifiuti a collaborare di Fuze e domande insistenti di Glaz, ma quella sera l’uzbeko era troppo stanco per portare avanti quel tira e molla e inoltre, per qualche bizzarro motivo, si sentiva piuttosto propenso al dialogo.

“Pensavo che volessi lasciarmi. Cioè, è ovvio che staresti molto meglio con lui che con me.”

Durante il breve silenzio che seguì a quell’affermazione, l’uzbeko ebbe il tempo di rimpiangere di essersi aperto in quel modo, di non aver finto di stare dormendo, di essersi coperto di ridicolo quel pomeriggio in officina con il suo goffo tentativo di conversazione e, se il russo non avesse fatto deragliare quel suo treno di pensieri, sarebbe arrivato persino a rimpiangere di non aver sparato accidentalmente al francese durante l’ultima missione, cosa che avrebbe prevenuto l’insorgere della spiacevole catena di eventi odierna.

“Quindi sei davvero geloso di Julien.” Disse compiaciuto Glaz, non provando neanche più a nascondere la soddisfazione che provava in quel momento.

“Non sono geloso! Credo sia normale che mi venga il dubbio se vedo che preferisci passare del tempo con lui invece che con me.”

“Sai bene che per me è quasi come un fratello.” Disse il cecchino, mentre continuava ad accarezzargli dolcemente il braccio.

“No che non lo so! Non sapevo neanche che vi parlaste prima d’oggi.” Ribatté Fuze, suonando un po’ troppo come il fidanzato geloso che aveva appena dichiarato di non essere.

“Ma se te ne ho parlato decine di volte!”

“No, neanche una.”

“Ops, forse me ne sono dimenticato.” Disse dopo aver finto di pensarci un po’ su, mentre sul suo volto andava formandosi un’espressione fintamente dispiaciuta.
Fuze stentava a capire. Perché tacere la sua amicizia con Rook se davvero era di amicizia che si trattava? I suoi pensieri ripresero a vorticare senza sosta, come era già accaduto almeno quattordici volte durante quella giornata e infinite domande gli sbocciarono nella mente, ma nessuna di esse riuscì ad emergere dal quel marasma di dubbi, quesiti ed insicurezze.

“Non capisco.” Fu questo tutto ciò che ne venne fuori.

Notando lo stato confusionale in cui era precipitato l’uzbeko, Glaz prese la caritatevole decisione di dargli una spiegazione che, per quanto sommaria, era pur sempre qualcosa.

“Te l’ho tenuto nascosto perché volevo vedere se ti avrebbe dato fastidio vedermi parlare con un altro. Volevo solo vedere la tua reazione, sapere se ci tieni a me almeno un po’, tutto qui. Ma, anche se è stato carino vedere che eri geloso, so che ciò che ho fatto è stato crudele e mi dispiace. Puoi perdonarmi?”

Mentre Fuze ripeteva ancora una volta tra sé e sé che no, non era affatto geloso di quel maledetto francese e del suo stupido accento sexy, si rese conto che, per quanto ci provasse, non riusciva ad essere arrabbiato con Glaz. È vero che quel suo esperimento era stato abbastanza crudele (soprattutto per essere stato concepito dall’animo gentile del cecchino), tuttavia non poteva ignorare quello splendido paio di occhi azzurri che lo fissavano tristi ed imploranti il suo perdono. E poi, a dirla tutta, sentiva quasi di esserselo meritato dopo essersi comportato in modo orribile talmente tante volte da aver perso il conto. Anzi, tutto sommato, se era quella la misera punizione che il karma aveva scelto di infliggergli per il suo atteggiamento, era impaziente di riceverla prima che l’Universo si rendesse conto dell’errore commesso nell’assegnargli quella penitenza che, in realtà, avrebbe presto assunto risvolti tutt’altro che spiacevoli.

“Non importa,” bisbigliò Fuze, avvicinando il proprio volto a quello del russo “tanto ho già in mente un paio di modi in cui potresti farti perdonare.”

  
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