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Autore: pansygun    18/04/2024    1 recensioni
My first obsession is you.
My second is having sex with you.
• • •
DISCLAIMER: questa storia ha rating 🔞 per i contenuti espliciti in essa descritti (sesso).
A mio discapito, se siete sensibili vi invito a non affrontare questa storia.
• SPOILER per chi non avesse letto il fumetto o guardato l'anime! •
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{Deku x Bakugo}
Angst
Mild-spicy
• • •
Tutti i diritti riservati ©️ veciadespade | 2023
I personaggi originali di My Hero Academia sono di proprietà di Kōhei Horikoshi.
Genere: Comico, Erotico, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Izuku Midoriya, Katsuki Bakugou
Note: Lemon | Avvertimenti: Non-con, Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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A new, but familiar taste I ⚠️




...e nel tempo che l'alba diventi tramonto,
nel tempo che i girasoli sorridano e poi muoiano...
mille volte ti amerò
e per amarti ancora
al prossimo stupore di un giorno che nasce!
Claudio Bentivegna

15 luglio

I primi raggi di sole filtravano attraverso le tende sottili, gettando una calda luce dorata sul viso di Izuku, che si mosse nel dormiveglia del sonno, sentendo il calore opprimente del lenzuolo di cotone appiccicarsi al suo corpo come una seconda pelle. Nonostante il disagio, si rifiutava ostinatamente di alzarsi dal letto, girandosi e rigirandosi, avviluppandosi nel tessuto blu scuro nel vano tentativo di trovare una posizione più comoda.

La sveglia sul telefono era stata posticipata almeno tre volte nell'ultima mezz'ora così che Izuku si ritrovò a fissare il soffitto, con le lenzuola aggrovigliate attorno alle gambe. La luce del sole proiettava strisce calde sul suo viso e sul suo torace nudo. Doveva alzarsi, iniziare la giornata, ma gli sembrava di avere membra pesanti come piombo.

Non che fosse poi così stanco, solo...

Solo non voleva.

Avrebbe dovuto essere felice.

Ma aveva anche una strana amarezza nel petto, perché tutto ciò a cui riusciva a pensare era l'imminente fine di quella avventura, la fine della missione, il ritorno in città e il separarsi di nuovo da Kacchan.

Kacchan.

Quel nome gli rigirò tra i pensieri con la stessa fatica con cui il suo corpo si rigirava nel letto.

«Ugh! Perché deve fare così caldo...» gemette, strofinando la fronte contro il cuscino che teneva tra le braccia, asciugandosi il sudore sulla stoffa. La temperatura in quella piccola camera condivisa aumentava costantemente, rendendogli sempre più difficile restarsene a letto. Probabilmente il condizionatore s'era bloccato ancora.

Izuku strinse le braccia, stritolando il cuscino tra di esse, la faccia premuta contro il tessuto e un mugolio infastidito.

Non è giusto.

Era un pensiero amaro, perché, dopo tutti quegli anni di lontananza e di non comprensione, avevano finalmente trovato un terreno comune lì, a Urakawa. Avevano litigato insieme, riso insieme e si ritrovavano alla fine di un viaggio a prendere di nuovo strade separate.

E Izuku non poteva sopportare il pensiero di perdere Kacchan, non dopo tutto quello che avevano passato, da rivali, da compagni, da amici, da...

Lasciare quella cittadina sopita accanto al mare voleva dire lasciare tanti ricordi, gioiosi o meno. Vi aveva trovato un senso di pace che non avrebbe mai creduto possibile. E ora tutto stava per finire.

Diede colpa al suo essere abitudinario solo per nascondere il fatto che non sarebbe riuscito ad immaginare di non svegliarsi con lo scontroso cipiglio mattutino di Kacchan, o di stare alzati fino a tardi a guardare vecchi film assieme.

Era stato un mese intenso, impegnativo, e alzarsi dal materasso avrebbe voluto dire di ammettere che tutto stava finendo.

Izuku strinse le lenzuola nel pugno, sentendole accartocciarsi sotto le sue dita, col cuore dolorante. «Non è giusto...», borbottò, ripensando a tutti gli anni in cui non si erano capiti, in cui erano stati lontani, a quella breve parentesi in cui stavano finalmente costruendo qualcosa. Perderlo adesso...

Mugolò, prima di rilasciare uno sbuffo dalle labbra increspate: «Va bene, mi arrendo!» mormorò, spingendo finalmente via il lenzuolo, liberando le gambe e facendole dondolare oltre il bordo del letto. I suoi piedi toccarono il pavimento fresco, mandandogli un brivido lungo la schiena mentre si alzava e si stiracchiava, cercando di scrollarsi di dosso i resti di quel sonno che ancora lo intontiva.

Si passò i palmi delle mani sugli occhi, stropicciandoli per bene, perché non poteva restare a casa, in letargo, dispiaciuto per se stesso. Era il suo compleanno dopotutto!

E avrebbe assaporato ogni momento con Kacchan fino a che non fossero tornati a Musutafu.

Si passò le mani tra i ricci stropicciati, grattandosi la testa con un sonoro sbadiglio.

Kacchan.

Si bloccò appena prima della soglia della camera, un girarsi lento a vedere il letto sfatto di Kacchan, che probabilmente s'era svegliato di buon'ora ed era andato a correre. O, forse, era solo andato al lavoro prima.

Magari gliel'aveva anche detto, la sera prima, ma si era ritrovato a crollare dalla spossatezza dopo una ronda sotto l'afa asfissiante di Urakawa.

Scosse la testa. In fondo, perché doveva aspettarsi di trovarlo in casa?

Alla fine, non c'era stato un compleanno in cui lui fosse stato presente, uno in cui si fermasse davvero a festeggiarlo...

Mentre attraversava la cucina per dirigersi verso il bagno con le mani a grattarsi una spalla e il petto, qualcosa sul tavolo attirò la sua attenzione: una piccola busta bianca, sistemata in maniera ordinata davanti alla tazza vuota. La tovaglietta pulita, il cucchiaino sistemato a destra, perfettamente allineato a un paio di centimetri dal bordo di stoffa. Il bicchiere era pieno di succo d'arancia, posizionato in alto a sinistra rispetto alla tazza, su cui spiccava un post-it giallo, vergato con una calligrafia fin troppo familiare.

«Auguri nerd.», lesse a mezza voce, il foglietto tenuto con due dita

Izuku ridacchiò tra sé, riconoscendo la miscela unica di affetto e presa in giro di quell'amico che gli aveva sempre riservato un trattamento tutto particolare durante quella stessa giornata nel corso degli anni.

Prese il sacchetto e lo aprì per sbirciare dentro, mentre un sorriso si allargava sul suo viso.

Un donut alla ciliegia.

Era lo stesso donut che gli faceva trovare, a giorni alterni, a colazione e a tutti gli effetti, non aveva nulla di speciale. Ma era un gesto semplice, una premura che, per quanto reiterata, lo faceva sentire... amato? Era quella la parola giusta?

Non lo sapeva con certezza, ma era una piccola cosa che continuava a gridare "io ci tengo".

E l'aveva fatto quando avevano litigato e quando avevano passato giorni tranquilli.

Lo so che ci tieni, testone...

Anche se l'anno prima non c'era stato nulla e l'unico augurio l'aveva ricevuto da sua madre... Era un piccolo gesto, sommato ai tanti altri fatti in quei vent'anni in cui si conoscevano.

La dolcezza persistente del profumo di quella insignificante ciambella alla ciliegia gli riportò alla mente un'ondata di ricordi, e Izuku si ritrovò a chiudere gli occhi, la testa cullata da un aroma stucchevole di zucchero.

Non era mai stato particolarmente affezionato al suo compleanno.

Quando erano bambini, ricordava che Kacchan era solito spingergli tra le mani un regalo avvolto in modo rozzo prima di andarsene sbuffando, palesemente obbligato da sua madre nel consegnarlo. Crescendo, Kacchan smise non solo di fargli regali, ma sembrò dimenticare del tutto quella giornata, rendendo Izuku estremamente triste.

Nonostante il carattere solare, non era mai riuscito a farsi troppi amici e il compiere gli anni a ridosso delle vacanze estive non aiutava di certo a organizzare festicciole o altro...

E lui voleva Kacchan.

Aveva sempre voluto Kacchan nella sua vita, anche se, da un certo punto della loro storia in avanti, il biondino lo disprezzava a tal punto da tagliarlo fuori da tutto, sfogandosi su di lui solo quando gli comodava.

Però, nel corso degli anni, aveva messo in ordine, uno dopo l'altro, tutti quei piccoli episodi, insignificanti a suo dire, che per buona parte della sua vita non sembravano avere un nesso logico. Come le borracce passate durante le ultime lezioni di educazione fisica alle elementari. O le caramelle alla menta per i cali di zuccheri dovuti al caldo che magicamente Kacchan tirava fuori dalla tasca e gli lanciava addosso con un borbottio sommesso, difficilissime da scartare per quanto appiccicose erano, ma per Izuku erano buone da morire.

O come quel pomeriggio al doposcuola, alle medie, in cui aveva preso di forza i suoi amichetti sbraitando di lasciarlo in pace; evento più unico che raro.

Piccole cose per qualcuno di altrettanto piccolo e insignificante, giusto?

Piccole cose, come quella ciambella, gettate lì, a caso, in una giornata assolata di luglio, ma che l'avevano resa un po' meno pesante, un po' meno faticosa.

Prima che partisse per l'Europa e l'America c'era stato un videogioco (che non aveva neppure finito), che conservava a casa di sua madre come un tesoro inestimabile.

Prima di quello? Non lo sapeva con certezza, forse un libro, datogli senza troppa cura, passato come se fosse solo un prestito. O forse lo era?

Non si aspettava nulla. In quell'occasione, per quel punto del loro rapporto, si sarebbe anche solo accontentato di un bacio in quella giornata. Un bacio e un sorriso.

«Grazie, Kacchan...» sussurrò Izuku, dando un morso alla ciambella, il sapore dolce che gli riempiva la bocca e gli scaldava il cuore. Poteva non sembrare una grande celebrazione, ma per lui era sufficiente: un piccolo promemoria del fatto che, anche nel mezzo delle loro vite frenetiche da eroi, dopo essersi persi, si prendevano ancora, in un certo qual modo, cura l'uno dell'altro.

Assaporò il momento, assieme alla soddisfazione, nella sua testa, di immaginarsi la voce arrochita di Kacchan sussurrargli un "Buon compleanno, Izuku," sorridendogli.

Cosa impossibile? Ovvio. Ma si crogiolava in quel pensiero effimero e gioioso e si sforzò di posare la ciambella per non finirla subito.

Sarebbe andato in bagno, si sarebbe lavato e preparato come al solito prima di fare colazione.

Guardò il tavolo, gli occhi ancora impiastricciati dal sonno.

Fanculo! E si sedette di peso, strisciando la sedia sul pavimento, trangugiando un paio di sorsi di succo d'arancia e tornando a mangiucchiare il donut alla ciliegia con una strana, dolce sensazione nel cuore e la consapevolezza che, forse, quel compleanno potesse essere diverso.

•••

Il cielo crepuscolare si sciolse in un brillante arazzo di arancioni e viola, proiettando un tenue bagliore sulle strade di Urakawa.

Dynamight e Deku non avevano fatto ronde in quella giornata, ma solo ore interminabili in ufficio, a riempire moduli e documenti preparatori alla fine del loro periodo di missione in quella cittadina.

Gli stivali neri di Katsuki calcarono la breve scalinata d'ingresso del distretto di polizia, mentre la sua mente faticava ancora a liberarsi del vortice di pensieri di quella noiosa giornata trascorsa in ufficio. Si fermò sul fondo, con la ringhiera di metallo ancora calda per il sole sotto la punta delle dita, e voltò la testa verso Izuku, il cui sguardo era fisso a terra e sembrava perso nel suo mondo come quando era adolescente.

«Che cosa ti succede, ah? Troppe scartoffie per un nerd come te?», lo canzonò, cercando si attirare la sua attenzione e di iniettare un po' di leggerezza nell'atmosfera che sembrava essersi fatta improvvisamente tesa.

Il ragazzo dai capelli verdi sollevò la testa e gli rivolse un debole sorriso: «Sono un po' arrugginito con la burocrazia... E oggi non volevo proprio venire a lavorare...», rispose lui, con la voce appena udibile sopra il ronzio lontano del traffico.

Katsuki alzò gli occhi al cielo: sapeva che il cuore di Izuku apparteneva all'azione, al brivido dell'eroismo, e non era fatto per stare semplicemente dietro una scrivania a rimestare carte. Non che lui la pensasse diversamente, sia chiaro; però aveva capito, col tempo, l'importanza di tutto il lavoro che stava dietro alle missioni che venivano affidate agli eroi.

Katsuki si umettò il labbro inferiore, pensando a come sollevare il morale di Deku, mentre quello ciondolava, un gradino alla volta, verso la sua direzione. Notò il modo in cui i suoi occhi verdi sembravano offuscati dalla stanchezza, e questo gli fece stringere lo stomaco.

«Oi.».

«Mh?».

«Ho... Ho prenotato in un posto...», esalò, quasi avesse paura di dirle, quelle parole.

Fu un momento fugace, una specie di lampo, in cui quei grandi occhi verdi si aprirono su di lui e gli tolsero il fiato. Poteva vedere la sorpresa e la curiosità che turbinavano dentro quelle iridi, ma c'era qualcos'altro... Un barlume di eccitazione, forse?

«Tu cosa?».

Gli rivolse un debole sorriso, sentendo già le punte delle orecchie scaldarsi, mentre scrollava le spalle con noncuranza, la punta dello stivale a battere il porfido del gradino: «Sì, ecco... Ho prenotato in una bettola poco lontano da qui. Sapevo che avremmo finito tardi col lavoro.», mentì spudoratamente, perché invece era riuscito a pianificare ogni cosa. «E sinceramente non ho voglia di cucinare.». Ma anche quello non era vero, perché, se Deku gliel'avesse chiesto, gli avrebbe fatto il curry kastudon più buono della sua vita. Invece aveva una paura fottuta che lui gli dicesse di no; così trattenne il fiato, senza nemmeno rendersene conto. Poi, quando Izuku gli sorrise, annuendo, lo rilasciò e tirò le labbra.

«Oh, sì, Kacchan!», e il tono era lo stesso di quando da piccolo lo invitava a casa a giocare. «Però dobbiamo passare per casa! - aggiunse poi Izuku - Dobbiamo cambiarci e-».

«Non serve. Va bene...», e sentì le orecchie bollenti a indugiare così tanto su quei jeans chiari e slavati che gli fasciavano le cosce in modo tanto sfacciato. «Va bene così come sei, Izuku.». Perché era vero. E sembrava che lui lo facesse apposta a non rendersi conto di come si vestiva con casualità misurata, di come il bianco ottico di quella t-shirt gli stesse così bene addosso, con la pelle lievemente abbronzata e le lentiggini marcate. «E poi è davvero un posto di merda...», ma la frase suonò peggio di come l'aveva immaginata, scorgendo la perplessità nel volto dell'amico. «Cioè... Intendo... Ah! Lascia perdere, cazzo!», e si voltò, rosso d'imbarazzo, lasciando indietro Izuku di qualche passo, sorridente.

Uno di quei sorrisi sornioni che ogni tanto gli uscivano in maniera così audace ed accattivante, che Katsuki faticava persino a guardarlo in faccia.

«Mi stai portando ad un appuntamento, Kacchan?», pronunciò, con tono volutamente scherzoso, incrociando le braccia al petto, aspettando che il biondino si voltasse. Anche se, con quei cargo neri senza tasche posteriori, sarebbe rimasto volentieri a vita a osservargli il culo. Però, come aveva previsto, quello s'era voltato ed era tornato indietro di qualche passo, la faccia seria e un dito puntato nella sua direzione: «Non è un appuntamento.», scandì le parole quasi con furia, prima di schiarirsi la voce e ritornare ad una parvenza di compostezza, infilando le mani nelle tasche dei pantaloni. «È solo una cena fuori. Per distrarsi un po'.»

«E per il mio compleanno.». Eccolo: colto in flagranza di reato. Ma il ghigno di Kacchan gli smorzò l'entusiasmo.

«Ah, giusto. È anche il tuo compleanno...», la pausa che fece fu lunga, quanto il loro scrutarsi con insistenza. «Volevo pagare io, ma se la metti così...» e lo vide riprendere a camminare a passo spedito.

Izuku lo raggiunse con una piccola corsa, senza però azzardarsi ad afferrarlo, solo affiancandosi al biondo, che se la rideva sotto i baffi: «No! Ehi! Come scusa?».

«Vecchiaia tua, paghi tu!».

«Ma non è giusto!».

«Ti ho preso la ciambella per quello. Non ti pago la cena!», mentì ancora, divertito dall'espressione delusa di Deku che quasi piagnucolava, giustificandosi che quella era la sua giornata e che già era stata rovinata dal dover lavorare e altre cose blaterate a voce troppo alta in mezzo a una strada che si stava affollando.

Katsuki gli fece un cenno col capo verso una stradina laterale: «Facciamo una scorciatoia... E smettila di fare così! Se continui non te la pago la cena!».

«A-ah! Fregato!», esclamò Izuku, allungando un passo e parandosi di fronte all'amico con un sorriso pieno sul volto. «Sapevo che ci sarei riuscito!».

«A fare cosa?».

«A scroccarti la cena.».

Katsuki fece spallucce e lo scostò con una spallata: «Sai che novità. Come se le altre volte non l'avessi fatto!».

«Ehi! Non è corretto rinfacciare le cose!».

Però risero, entrambi, di quel finto battibecco fatto solo per stemperare la tensione e l'imbarazzo.

Izuku avrebbe voluto fermare l'incedere di Kacchan, obbligarlo quasi a fagli gli auguri, però sapeva anche che le tempeste non si possono imbrigliare e pensò che già quello era tanto. Per entrambi.

Rovistò nella memoria, non trovando un solo 15 luglio in cui, dalle elementari in poi, avessero mangiato assieme, fosse anche uno stupido pezzo di torta.

Quindi, si disse Izuku, quello era un grande primo passo per Kacchan e ne andava fiero a tal punto che l'avrebbe abbracciato.

Ma non poteva, non in quel momento, in cui sbucarono di nuovo su una delle strade principali che conducevano nella zona del porto, a nord.

Mentre camminavano verso la piccola trattoria tradizionale, scovata quasi per caso nella prima settimana di soggiorno a Urakawa, Katsuki non poté fare a meno di provare un senso sottile di realizzazione. L'umore di Izuku era migliorato notevolmente, e tutto grazie al suo suggerimento. Si lasciò crogiolare nel calore del momento e dalla luce dorata del sole al tramonto, che proiettava lunghe ombre sul marciapiede e riflessi aranciati su quelle guance piene di efelidi che continuavano a gonfiarsi ad ogni sorriso che Izuku regalava ai passanti che li salutavano.

Ma accanto alla soddisfazione, c'era anche una crescente attesa che si faceva strada dentro di lui, perché, per quanto ci avessero scherzato sopra lungo quel breve tratto di strada, gli sembrava in qualche modo una cena diversa dalle altre che avevano condiviso in quelle settimane, più intima dei loro soliti ritrovi casuali. Il pensiero gli fece correre un brivido lungo la schiena, a metà tra l'eccitazione e la paura.

Perché chiamarlo per come davvero era lo spaventava.

Mi stai portando ad un appuntamento, Kacchan?

Si passò una mano sul volto, rilasciando un sospiro lungo.

«Va tutto bene?», gli chiese Izuku, notando la sua improvvisa preoccupazione. O imbarazzo, difficile capire in quel momento cosa davvero provasse.

«Perché non dovrebbe?», lo rassicurò, mettendo da parte la sua incertezza. «Ho solo fame. E tu sei una lumaca. Muoviti!», berciò, allungando il passo, rigirando tra le dita quell'insulsa idea che aveva deciso di mettersi in tasca.

Mentre camminavano fianco a fianco lungo la strada affollata, Katsuki cercò di concentrarsi sui suoni che li circondavano, piuttosto che sul calore che irradiava dalla presenza di Izuku accanto a lui. Ma ogni volta che si voltava, scorgendo la sua espressione gioiosa, nella sua cassa toracica sembrava agitarsi un colibrì, intrappolato all'interno, cercando di liberarsi per quanto il cuore batteva forte.

Gli occhi verdi di Izuku lo guardarono con curiosità. «Sei sicuro che vada bene come siamo vestiti per dove dobbiamo andare?».

Katsuki sbuffò: «Fidati di me.», lo rassicurò poi, cercando di nascondere la vulnerabilità nella sua voce e lo sguardo che ricadeva troppo spesso sui pettorali fasciati da una maglietta che, più che una barriera, sembrava rappresentare la sua condanna per quella sera. Fece un respiro profondo, cercando di stabilizzarsi.  «E poi... Hai sempre un bell'aspetto.».

Izuku si fermò sul posto per qualche secondo, giusto il tempo di elaborare: «Un complimento?».

«Ah?».

«Era un complimento quello, Kacchan?», lo incalzò, incredulo e un po' commosso: sapeva che il grande e potente Dynamight non era una persona che esprimeva affetto, e questo piccolo gesto per lui significava più di quanto potesse immaginare.

«Muoviti.».

Izuku, col sorriso ancora sul volto, gli punzecchiò la spalla col dito: «Lo sapevo io che sei un tenerone!», lo provocò ancora, solo per il gusto di vederlo arrossire ancora, per vedere quei suoi occhi farsi lava fusa quando lo guardava.

«Chiudi il becco o ti faccio esplodere!», grugnì quell'altro, aumentando il passo tra le risatine dell'amico.

La pausa di calma e silenzio tra di loro durò solo fino a quando Izuku sbatté contro la schiena di Katsuki, fermo ai bordi del marciapiede, pronto ad attraversare la strada.

«Arrivati.».

Di fronte a loro un edificio basso, di cemento grigio e anonimo, era ravvivato da una serie di piccole vele con piantana e bandierine pacchiane e colorate, che presentavano le specialità del giorno.

«Qui?».

Katsuki fece spallucce e guardò Izuku, ora di nuovo al suo fianco: «Te l'ho detto. Niente di che.».

«Non ci darei due soldi, lo sai?».

Fu il turno di Katsuki di guardarlo in quegli occhioni verdi e scettici, ghignando: «Lo so. Ma se ci pensi bene pure l'ametista è racchiusa in un guscio di roccia inutile.».

Izuku alzò un dito e assottigliò lo sguardo: «Non fare il nerd così con me.», scandì. «Rischio di eccitarmi...», aggiunse, con voce roca e un'espressione idiota sul volto.

Il biondo ci mise un po' per ingranare con quella battuta, troppo preso dalla propria agitazione, tanto da scoppiare in una risata imbarazzata e sguaiata, tenuta a freno da entrambe le mani. Una reazione esagerata, era vero. Ma quando mai Katsuki Bakugō non era stato esagerato in qualcosa?

Frenò quella ridarella a forza, ricomponendosi come meglio poteva, per poi sentirsi addosso l'attenzione insistente di Deku.

«C'è qualcosa che non va?».

«No, per niente.» lo rassicurò lui con un sorriso. «Solo... Non l'avevo mai notato davvero, ma il nero ti sta proprio bene. Soprattutto quei pantaloni.».

Katsuki notò quella punta di malizia nella voce del nerd, e la sentì arrivargli come una stoccata alle reni, come se quel bastardo gli avesse schiaffeggiato il culo in corsa. Non che fosse una sensazione spiacevole, solo... Non c'era abituato.

E irrigidì le spalle alle ultime parole che Deku disse, prima di attraversare la strada come un fulmine.

«E sei molto carino anche tu, Kacchan.».

•••

Izuku aveva vissuto l'ultimo anno e mezzo col cellulare praticamente in silenzioso. Da quando aveva perso quello vecchio nel Baltico e, con esso, numeri e brevi istantanee felici dell'adolescenza, per lui era inutile tenerlo attivo.
Aveva orari fissi in cui chiamava sua madre e, se anche ci fossero state delle emergenze, lei avrebbe avuto sempre tutti i numeri delle caserme in cui lui alloggiava.

S'era illuso che qualcuno lo contattasse, anche su altri canali social, per ricordarsi di lui, l'anno prima. Ma non era successo.
Aveva festeggiato, certo: il suo carattere gli aveva permesso di stringere legami, di passare il compleanno con i commilitoni con cui aveva legato di più. Ma non era stato abbastanza.

Ora che era tornato, si stava illudendo che qualcuno si ricordasse di lui. Ma nulla.

Non biasimava nessuno, solo se stesso, per essere stato un po' sciocco a non lasciare il suo contatto agli altri durante la cena di classe.

Sospirò mentre si accomodava sulla sedia e toglieva dalla tasca il telefono, un'occhiata veloce allo schermo privo di notifiche. Forse non avrebbe dovuto neppure spendere così tanti soldi per uno smartphone che gli serviva solo per giocare quando si annoiava a stare seduto sul water. Il cellulare venne spinto di lato un altro po' dal suo gomito e finì, come spesso accadeva, nel dimenticatoio.

Al "Katsumeshi" il tavolo che il proprietario, il signor Takai, aveva riservato loro era defilato, in un angolino silenzioso di quel locale semi deserto. La superficie di legno chiaro era lucida e graffiata, logora come quasi tutte le suppellettili di quel locale tradizionale, ma gli piaceva. Gli dava un senso di familiarità, di casa. E per quanto la faccia di Kacchan sembrasse dire tutto il contrario, lo vedeva rilassato mentre si accomodava di fronte a lui.

Diede una rapida occhiata alla sala, lunga e stretta, alla fine della quale si intravedeva l'angolo del bancone di servizio.

«Ci sei venuto spesso qui?».

«Qualche volta, sì. Il vecchio è discreto e nessuno mi ha mai rotto troppo le palle, neppure se mi vedeva vestito da eroe.», borbottò, senza alzare gli occhi dal menu. «Un pasto decente, spendendo il giusto.», minimizzò. Ma non era davvero così e lo sapeva. Per quello non si azzardava a guardare Deku negli occhi.

Aveva scelto quel posto appositamente per lui, perché era l'unico ristorante di tutta Urakawa che faceva il pollo fritto come quello di zia Inko.

Katsuki alzò lo sguardo verso i suoi occhi verdi, che continuavano a curiosare in giro, soffermandosi su una foto appesa, che ritraeva il proprietario tra due atleti, vestiti con una maglia azzurra e nera. «Oh! Hai visto, Kacchan? Sono passati pure i Nippon Ham-Fighters!», e il suo viso sembrò illuminarsi.

«Ah?».

«La squadra di baseball! Dio... Ho visto una loro partita l'anno scorso sul satellite...».

Katsuki lo guardò un po' perplesso: «Non sapevo ti piacesse il baseball.» e Deku sollevò le spalle con noncuranza, sfilandogli dalle mani il foglio plastificato con i piatti del giorno.

«Cose da gaijin, sai com'è...», ma abbozzò un sorriso e un'occhiata veloce al biondino che gli stava di fronte, senza malizia, senza cattiveria alcuna. Un modo per dire che, forse, c'erano cose che aveva voglia di condividere, di nuovo.

«Giusto. Ogni tanto dimentico che sei stato via per un bel po'...», lo rimbeccò Katsuki, il tono calmo e le braccia incrociate al petto con lentezza mentre si appoggiava allo schienale scricchiolante della sedia. «Prendi il katsudon.».

Non era un ordine. Neppure una minaccia. Era solo un consiglio, fermo e deciso, che a Izuku fece sbattere le palpebre un po' troppo in fretta mentre lo guardava, pensando tra sé di poter anche cambiare pietanza ogni tanto...

«Uh? È buono?», chiese, senza pensarci, prima che il respiro gli si mozzasse in gola.

«Provalo. Fidati.», disse Kacchan, alzando un braccio senza neppure voltarsi per attirare l'attenzione del cameriere, la sua bocca tirata in un sorriso, bello e tenero, tanto da fargli assottigliare pure quei suoi occhi fatti di braci ardenti. Un sorriso di quelli rari, rarissimi. Di quelli che i padri stanchi regalano ai figli rompiscatole la sera. Di quelli che valgono più di mille giochi o carezze.

Izuku prese un respiro profondo e strinse le labbra tra i denti, un moto di commozione che gli risaliva alle iridi ed eseguì un cenno col capo. Affermativo.

Probabilmente l'avrebbe preso lo stesso, si disse, ma l'unica cosa che uscì da quella bocca fu solo un concitato: «O-ordina per me allora. Va-ado a lavarmi le mani.».

Takai, il proprietario, venne investito da tutta quella foga, preso per le spalle, sollevato da terra e spostato, come se fosse un fuscello, lasciandolo più sconvolto dal gesto che non di essersi trovato l'Hero Deku davanti all'improvviso. «Quanta fretta!».

«Perdonalo.», gli fece Katsuki con voce bassa e calma. «Vorrei ordinare, se non ti dispiace...», e prese dalla tasca il cellulare con noncuranza, entrando nella chat che avevano usato per la rimpatriata di classe, cambiando velocemente il nome nelle impostazioni.

L'uomo si ricompose, passandosi un fazzoletto di stoffa sulla fronte prima di estrarre un blocchetto liso e con pochi foglietti sgualciti: «Bene... Cosa volete da bere?».

«Acqua. E una birra media.», rispose, osservandolo scrivere, prima di pigiare sullo schermo in fretta un messaggio e aggiungere un numero in quel gruppo.

«Poi?».

Tornò ad osservare l'uomo: «Un katsudon. Uno dei tuoi, di quelli speciali, mi raccomando.».

Takai lo osservò da sotto le sopracciglia nere e cispose: «E per lui?».

«Il katsudon è per lui. Per me...».

«Il solito?».

Tirò le labbra in un sorriso fugace, mentre s'intascava il cellulare: «Il solito, sì. Grazie.», e lo osservò allontanarsi, brontolando come l'aveva visto fare altre volte, mentre quasi si prendeva una spallata da Deku, pensieroso e distratto di ritorno dal bagno, il capo chino, la faccia leggermente arrossata.

«Che hai nerd?», gli chiese il biondo, una volta che il ragazzo gli si sedette di fronte.

«Solo...», e si osservarono, occhi negli occhi come se si sfidassero, nessuno dei due pronto a cedere per l'altro. «Grazie...»

Katsuki esitò, forse un po' troppo, muovendo le dita a ripercorrere i tagli e i bozzi sulla superficie appiccicosa del tavolo. Alzò le spalle per un attimo, distogliendo lo sguardo dalle iridi di smeraldo che lo fissavano alla ricerca di una risposta.

«Io...», mormorò, evitando il contatto visivo tormentando il bordo del tavolo con l'unghia corta del pollice. «...era da un po' che non passavamo il tuo compleanno assieme. Mi sembrava...corretto... E ho pensato che una cena sarebbe stata una cosa carina.».

«Carina?», Izuku sbatté le palpebre. «Non l'hai detto sul serio.».

«Dio mio! È una parola come un'altra!», sbuffò il biondino, incrociando le braccia al petto, mentre Izuku si grattava nervosamente il lobo dell'orecchio con due dita, il signor Takai che posizionava silenziosamente le bevande e le tovagliette di fronte a loro.

Fu in quel momento che la sua attenzione venne catturata dallo schermo illuminato del suo telefono. Un messaggio, poi un altro.

Sei

Sette.

Prese il cellulare, incuriosito e vide l'invito in quella chat di gruppo, in cui stavano arrivando solo messaggi di auguri per lui da numeri sconosciuti.

Rimase sul momento interdetto, poi capì.

E accanto ai messaggi di auguri, accanto a sfilze di cuori, torte e trombette, notò altre emoticon che stonavano con tutto il resto. Piccoli messaggi in codice per ciascuno dei suoi vecchi compagni di classe.

Una roccia. Un dolce. Un corvo. Un fulmine.

Un libro. Un cubetto di ghiaccio. Degli occhiali.

Il piccolo sorriso si allargò, alzandogli gli zigomi, arrossandogli le guance e il ponte del naso, facendogli luccicare gli occhi a ogni piccolo, fastidioso vibrare.

Katsuki appoggiò il gomito sul tavolo e la guancia sulla mano, rimanendo ad osservarlo con un piccolo ghigno compiaciuto.

Per poco non ci rimase secco, quando quello stupido nerd sentimentale alzò lo sguardo e piantò quegli occhi verdi e lucidi nei suoi.
«Sei stato tu?», e si limitò a scrollare le spalle con noncuranza.

«Beh... Allora, grazie...», ammise lui, con la voce appena sussurrata, chinando il capo e tornando a osservare lo schermo, a scorrere col dito di nuovo, uno per uno, i messaggi che stavano arrivando.

Katsuki vide chiaramente una lacrima bagnargli l'angolo dell'occhio, ma non lo prese in giro, limitandosi solo a un flebile: «Buon compleanno, nerd.».

 

•••


 

Izuku e Katsuki camminavano lungo le strade silenziose di Urakawa. Una leggera brezza frusciava tra gli alberi che costeggiavano la strada, portando con sé il debole profumo dei fiori di lavanda che adornavano le aiuole.

Passeggiavano tranquillamente, senza fretta, come se entrambi stessero cercando di prolungare il tempo da trascorrere insieme. I suoni della città intorno a loro si affievolivano, sostituiti dal battito ritmico delle loro scarpe sul marciapiede e dal lieve ronzio dei lampioni sopra le loro teste.

Izuku aveva le guance tirate in un debole sorriso, persistente e sognante, mentre osservava il ritmo dei propri passi essere uguale a quello di Kacchan, di fianco a lui, con le mani ficcate nelle tasche dei pantaloni neri. A volte i loro gomiti si sfioravano, ma la cosa era piacevole e dava ad entrambi un senso di vicinanza che non li disturbava.

«Kacchan?» ruppe in silenzio, quasi senza pensarci davvero.

«Mh.», e i passi del biondo rallentarono, andando fuori sincrono con i suoi.

«Ascolta, riguardo a stasera... Beh... Voglio solo dirti grazie...».

«L'hai già fatto. Più e più volte.».

Izuku gli sorrise, quella sua solita espressione innocente che lo accompagnava da quando Katsuki aveva memoria di lui e del suo viso tondo e lentigginoso. E ringraziò la luce giallastra dei lampioni che mascherava sicuramente il rossore che gli scaldava orecchie e guance. «Non è mai abbastanza!», ne rise il ragazzo accanto a lui, tirandogli una leggera gomitata solo per sbilanciarlo scherzosamente.

«Ti direi che sei ubriaco...».

«...ma se ho bevuto solo una birra!».

«E il vino.».

«Sì, ma col dolce!», e si prese un momento per guardarlo, puntandogli il dito contro: «E pure tu hai bevuto vino Kacchan!».

Il biondino fece spallucce e riprese la sua andatura: «Solo per brindare.».

«Ah-a!», e Deku gli passò davanti, un sorrisino giocoso a illuminargli gli occhi: «Due bicchieri non sono solo per brindare!» e gli puntò un dito al centro del petto, premendolo quel che bastava per fermarlo. «Dico bene?».

«Ho voluto festeggiare.».

«Aaaawww! Che tener-».

«La fine di questo supplizio.»

«Sei ingiusto!», e Katsuki lo oltrepassò con un ghigno sul volto a vedere la sua fronte corrucciata e l'espressione fattasi improvvisamente triste.

Allungò una mano e gli afferrò il bordo inferiore della maglietta, tirandola un poco per farlo voltare. «Ho detto solo la verità, nerd. Questa missione con te è stata un inferno...».

«Dai! Non è vero.».

«Oh, sì. Sei stato una spina nel fianco di proporzioni galattiche!».

«Non si dicono queste cose, Kacchan. Non quando la gente compie gli anni e sei stato carino tutto il giorno!», s'imbronciò Izuku, confuso per questo cambio repentino, non capendo se Kacchan fosse serio o meno nel suo esporsi. E forse lui aveva davvero bevuto troppo, non solo due semplici bicchieri di vino, ma l'intera bottiglia a cui mancavano i calici bevuti da Katsuki.

Alla fine, fu proprio Katsuki a rilasciare mezza risata: «Abbassa la voce, idiota...», e strattonò la maglietta chiara verso di sé, sbilanciando l'amico quanto bastava per avercelo addosso, le mani rovinate a sostenersi alle spalle di Katsuki per cercare un equilibrio malfermo. «Sei stato una vera testa di cazzo, lo sai?».

La voce di Kacchan era bassa, come se si vergognasse anche solo a dirle quelle cattiverie con tono tanto dolce e sospirato che Izuku pensò di esserselo sognato.

«Lo so...», Izuku corrugò la fronte, le sopracciglia quasi si toccavano da tanto era contrariato: «Tu non sei stato da meno.».

«Lo so.». Izuku strinse le labbra e li notò, quegli occhi di rubino che seguivano il movimento della sua bocca prima di piantarsi di nuovo nelle proprie iridi annacquate dall'alcol e da una strana mistura di emozioni a cui in quel momento non era intenzionato a dare un nome. «Con oggi volevo rimediare un po'...», sussurrò poi, trascinandoselo dietro con delicatezza, la presa sulla maglietta che non sembrava voler diminuire. «Dai, idiota, si sta facendo tardi. Andiamo.», berciò infine.

Izuku sospirò, accelerando con riluttanza. «Sì.».

«Sì cosa?».

«Hai rimediato un po'...», e con gesti delicati gli afferrò il pollice, stringendolo un poco perché mollasse la maglietta, lasciandosi trascinare così, con una stretta di mano che non era tale, ma che andava bene ugualmente. Per entrambi.

Mentre si avvicinavano al loro appartamento, i passi di Katsuki rallentarono ancora una volta. «Avevo paura te ne andassi.».

Izuku sbatté le palpebre più volte. «Per cosa? Per la storia del festival?», e Katsuki annuì senza voltarsi.

«Esatto. Sono stato esagerato. E ti chiedo scusa.».

Izuku mosse la mano, stringendo quella di Kacchan con più forza, fino a sentire il palmo umido contro il suo. «Ci siamo già perdonati, no?», fece con tono giocoso. «Siamo qui, no? entrambi. Io non me ne sono andato. Tu nemmeno...».

Raggiunsero la porta d'ingresso della loro casa condivisa. L'oscurità e i lievi rumori della città dormiente erano confortevoli, così come il silenzio che, per gli ultimi metri, li aveva avvolti, caricando i loro passi di qualcos'altro, della consapevolezza pressante che questa loro avventura stava per finire.

E mentre Izuku armeggiava con le chiavi, il cuore di Katsuki aveva deciso di mettere il turbo, di agitarsi così tanto da renderlo quasi intontito.

Udì Izuku sbadigliare forte, mentre si toglieva le scarpe ancor prima di accendere la luce.

«Izuku...».

Il ragazzo lo guardò da oltre la propria spalla, con le sopracciglia alzate per la confusione. «Sì?».

Katsuki prese un profondo respiro, raccogliendo aria e coraggio in un solo colpo. L'aveva premeditato, era vero. Ma era altrettanto vero che avrebbe potuto tirarsi indietro, che la parte razionale del suo cervello non lo stava obbligando a procedere col piano suicida che aveva in mente.

«Che succede Kacchan?».

E se lui l'avesse continuato a chiamare con quel nomignolo strascicato...

«Ho... Ho un regalo per te.»

«U-un altro?», si ritrovò a balbettare Izuku mentre si tirava di nuovo in piedi, imbarazzato. Perché alla fine la cena non se l'aspettava. Né tutti i messaggi calorosi che gli erano arrivati. Né la torta, quel pan di spagna panna e fragole che sembrava quasi quello di sua madre, come il katsudon... «No-non serve, davvero. Hai già fatto troppo e io-».

Ma non finì la frase.

Incapace di resistere oltre, più per paura di mollare tutti i suoi buoni propositi e farsi così sfuggire l'occasione, Katsuki aveva fatto un passo avanti e gli aveva preso il viso tra le mani, attirandolo a sé, le sue dita che gli sfiorarono delicatamente gli zigomi caldi, come per memorizzare ogni curva e contorno. Poi aveva avvicinato le loro labbra, in un bacio febbrile e appassionato.

Bacio che, senza nemmeno chiederlo o volerlo, si fece più profondo, alimentato dal desiderio represso e doloroso che aveva ribollito tra loro per così tanto tempo.

Izuku si mosse rapidamente, avvolgendo un braccio intorno alla vita di Katsuki e avvicinandolo a sé con prepotenza, mentre univa i loro fianchi. I loro respiri erano irregolari e si mescolavano tra di loro appena si staccavano per cercare un minimo d'aria.

Il cuore di Katsuki gli batté forte nel petto a sentire la mano di Izuku scivolargli con destrezza sotto la maglietta, accarezzargli la schiena, provocandogli brividi lungo la pelle.

Le mani di Kacchan scivolarono dietro, sulla nuca di Izuku, le dita infilate tra le ciocche verdi arruffate per scompigliarle e stringerle ancora di più, attirandolo ancora più vicino, come se potessero fondersi, l'uno nell'altro.

Ed era una sensazione calda, che né il vino né la birra potevano in alcun modo eguagliare. Il mondo intorno a loro sembrò dissolversi per quel momento infinito in cui le loro bocche rimasero incollate, le lingue che si rincorrevano e si cercavano, come da sempre avevano fatto quei due ragazzi.

Alla fine, si separarono, ansimando per trovare ossigeno, ma le loro fronti e i loro nasi continuavano a toccarsi. I loro respiri si mescolavano nell'aria immobile, e Izuku sapeva che quello era un inizio.

Lasciarlo fare, non intervenire... Era difficile, ma non impossibile. Se lo strinse di più contro, una frizione piacevole tra di loro, uno sguardo verso il basso solo per avere la conferma che non era l'unico ad essersi agitato così tanto per una semplice pomiciata.

«Fammi...».

Quando rialzò gli occhi, lo sguardo di fuoco di Kacchan lo colpì come un pugno in pieno viso: l'espressione del ragazzo, accaldata e sofferente, era qualcosa di straordinario.
«Fammi chiudere la porta...», lo udì a malapena, tanto bassa e graffiata sembrava la sua voce. O forse era solo il sangue che gli rimbombava nelle orecchie a renderlo momentaneamente sordo a tutto ciò che non fosse il respiro spezzato di Kacchan.

Frastornato, si sentì prendere per mano con delicatezza, seguendo il biondo con cautela, con solo il bagliore del lampione di fronte al salotto a far entrare un po' di luce.

Izuku si morse la lingua per non chiedere in cosa davvero consistesse il regalo di Kacchan. Che a lui sarebbe bastata la cena, o quel bacio dato in maniera così audace per gli standard di Katsuki.
Ebbe il coraggio di parlare solo quando sentì le dita calde del biondo che gli afferravano il bordo della t-shirt bianca e gliela sollevavano: «Ka-acchan... Non sei ob-», ma una mano sulla nuca lo fece abbassare, zittito di nuovo da un bacio irruento.

«Taci, nerd. È già faticoso così...», gli sussurrò sulle labbra mentre gli sollevava la maglietta e lo spogliava, sfiorando con delicata cura ogni centimetro di pelle di Izuku, dalle spalle all'addome, fino a strappargli un sospiro pesante, quando le dita slacciarono il bottone dei jeans e abbassarono la cerniera, una parte maggiore della pelle calda al di sotto dei suoi vestiti venne rivelata, e il battito cardiaco di Izuku accelerò di colpo, facendo eco a quello di Katsuki che, con abili gesti, aveva abbassato i pantaloni lungo le cosce, inginocchiandosi davanti a lui.

Le dita percorsero, impazienti, la pelle bollente delle gambe, arrivando al bordo delle mutande grigie di Deku, il tessuto leggermente umido di umori e così tanto piene da tirarsi, sollevando l'elastico sul ventre teso.

Era proprio quello il punto di non ritorno.  Per entrambi.

Gli occhi di Kacchan erano pozze vorticose di lava fusa, spalancati di sorpresa e desiderio.

«Kat... Non devi per foo- Cazzo!».

La lingua del biondo passò sulla sua erezione coperta di tessuto, strappandogli un gemito quando lambì la punta umida che sbucava dal bordo.

«Lo accetti il mio regalo, nerd?».

Il diavolo doveva essersi impossessato di lui.
O l'alcol.

A Izuku non importava davvero, però. Le domande le avrebbe lasciate alla fine. Forse.

Perché per il momento i suoi occhi non si staccavano da quelli di Kacchan, che continuava ad osservarlo, dal basso mentre gli leccava il cazzo a lingua piena. «Dio sì!».

E quella situazione era così assurda che stentava a credere fosse vera: lì in mezzo al soggiorno di quella casa sgangherata, Kacchan gli stava regalando un pompino.
Per il suo ventitreesimo compleanno.

Che diavolo ha di tanto speciale?

Gli mise una mano tra i capelli biondi, accarezzandoli con dolcezza, invitandolo a staccarsi con calma da lui. «Kacchan... Piano...», provò a dirgli, ma quel sorrisino compiaciuto gli diede il colpo di grazia.
«Troppo, ah?».

Izuku scosse la testa e lo aiutò a rialzarsi: «No... cioè sì.», gli passò il pollice sul mento a raccogliere una goccia di saliva, prima di portarsela alle labbra. «Io... Sei tu il mio regalo, Katsuki? È questo che vuoi?».

Lo vide stringere la mascella, gli occhi che si spalancavano un poco e il viso che si scuriva per l'imbarazzo. Un breve cenno con la testa: tanto bastava a Izuku.

Un sorriso si formò sulle labbra del ragazzo nello stesso momento in cui una carezza percorreva il viso del biondo: «Allora, lascia che lo scarti da solo, va bene?»,

Un altro cenno affermativo e Izuku si tirò su pantaloni e mutande alla bell'e meglio per poi prendere per mano Kacchan e fargli fare gli ultimi passi che li separavano dalla camera.

 

   
 
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