1. Cercando un angelo
Colonna sonora:
Scorpion - Send me an Angel
Cos’è l’amore?
Una domanda così semplice, eppure
così complessa. Come quella parola che suona soave a
ogni orecchio: Amore. Possibile che
una sola parola possa descrivere un sentimento così grande, così esteso,
così…profondo?
Possibile che in una così piccola
parola si nasconda un significato così vario?
Perché di “amore” ne
esistono tanti: l’amore passionale e violento di due amanti, quello
dolce e puro di due fidanzati, l’amore naturale per il proprio figlio, quello
gioioso tra amici…quello tra fratelli…
Amore…..come
facciamo a sapere se è veramente quello che fa battere il nostro cuore? Come
facciamo a sapere se è quel sentimento, o una giovanile infatuazione che durerà
solo qualche giorno? Come facciamo a riconoscere la persona giusta?
Platone diceva che tutti noi siamo
stati divisi, come una mela, e che non facciamo altro
che cercare quella parte da cui siamo stati brutalmente privati: l’anima
gemella.
Ma esisterà davvero? Esiste la mia anima gemella…?
Le gocce di
pioggia picchiettavano contro il vetro della finestra della mia camera.
Violente scendevano dal cielo, infrangendosi contro quella fredda lastra
trasparente, lasciando che il loro ultimo sospiro si accompagnasse al gemito
sottile del vento. Un lamento, una straziante melodia che non
faceva altro che peggiorare il mio cattivo umore.
La settimana che mi portavo alle spalle era stata davvero una delle
peggiori di quell’anno. Sembrava quasi che tutte le
sfortune più nere avessero cercato apposta il sottoscritto, e la notizia,
seguita immancabilmente dall’ammissione della stessa Sabrine,
che la mia ragazza mi aveva lasciato per uno stupido bulletto
da due soldi, era stata solo l’ultima goccia!
Non che di lei m’importasse poi così tanto. In fondo se avevamo iniziato
qualcosa era solo perché me lo aveva chiesto e perché io non avevo molto di
meglio da fare. Suona davvero insensibile detto in questa maniera, me ne rendo
conto, ma in realtà Sabine per me non era altro che una bambola con cui mi divertivo a giocare. Nulla di più. Pur sapendolo, però, nel
mio cuore si era insinuata la vana illusione che quella ragazzetta si riscoprisse essere la mia anima gemella: un altro buco
nell’acqua.
La mia
anima gemella. Da quanto la cercavo?
Probabilmente da quando avevo visto per la prima volta il mondo. Sempre alla ricerca di qualcuno da
poter proteggere con le mie sole braccia, di qualcuno a cui regalare il mio
primo sorriso del mattino, di qualcuno da amare, e da cui essere amato…il sogno
di ogni uomo che poggia piede su questa fredda terra,
e fino ad allora era anche il mio sogno.
Avevo avuto
tante ragazze, nonostante fossi ancora un diciassettenne. Le avevo cambiate
come abiti, alla disperata ricerca di qualcuna che riuscisse
a farmi sentire il dolce succo del fiele d’Amore. Molte erano attratte
unicamente dal mio fisico, ne ero ben a conoscenza, ma
la speranza che prima o poi una qualunque di loro si sarebbe rivelata l’altra
metà della mia mela persisteva. L’uomo ha bisogno di sperare per vivere.
E io
continuavo a farlo, proseguendo nella mia caccia…
Ognuna di
quelle ragazze mi aveva detto, almeno una volta, “Ti amo”. Piangendo, ridendo,
arrossendo. Diversi erano stati i modi, ma il concetto era sempre stato
identico. Eppure nessuna di loro mi sentì mai rispondere a quell’affermazione:
io non avevo mai detto di amare qualcuno. Dopotutto
loro per me non si erano rivelate altro che giochi dalle belle forme, per cui non nutrivo il benché minimo interesse sotto quella
visione, perché, non appena tolte le vesti della compagna d’amore, alcune di
loro sapevano rivelarsi simpatiche amiche.
Sistemai le
mani dietro la nuca e chiusi pesantemente gli occhi, tinti come una limpida
mattina estiva, che mi pareva così lontana in quel pomeriggio temporalesco
d’autunno.
Un sospiro
pesante sfuggì alle mie labbra semichiuse, prima che la famigliare voce di mia
madre mi richiamasse nel mondo reale. Attesi che la sua voce, morbida
nonostante stesse gridando, ripetesse il mio nome per qualche volta, prima di
alzarmi controvoglia.
Scesi le
scale a piedi scalzi, trovandomi subito davanti alla cucina. L’odore di carne
bollita aveva invaso dolcemente quell’angolo della
casa e lo scroscio del rubinetto, batteva rumorosamente contro la pentola che
vi era stata messa sotto. La piacevole sensazione di essere protetto si diffuse
come quando ero bambino.
La figura
di mia madre di schiena, indaffarata tra i fornelli e i lavandini, appariva
come appena riemersa da un sogno, contornata dai fumi leggeri della cena che
stava cocendo. In un angolo buio della mia memoria si risvegliò un’immagine
lontana, simile a quella che mi si presentava agli occhi. Un altro pezzo del
mio personale puzzle che andava a incastrarsi in
attesa degli altri compagni mancanti, che forse non avrei mai ritrovato.
Osservai la
silhouette sottile dell’unica donna di casa, incantandomi a
osservare il movimento lento che la sua lunga treccia bruna faceva scivolando
sulla sua schiena. Il fiocchetto giallo ocra del grembiule, che s’era legata alla vita,
risaltava tra i suoi scuri abiti consumati a furia di usarli
saltuariamente.
Le avevo detto più volte d’indossare vestiti più vivaci, i quali
avrebbero risaltato la sua bellezza, non ancora appassita sotto i segni
dell’età, e che, magari, le avrebbe permesso di accaparrarsi qualche uomo. In
fondo aveva solo quarantacinque anni. Ma lei, ogni
volta, si era limitata a dirmi che l’uomo della sua vita l’aveva già trovato.
Anzi, si vantava con un sorriso, ne aveva trovati ben
due: i suoi splendidi figli. Per lei, noi eravamo la sua vita.
Sentirla
nuovamente gridare il mio nome mi risvegliò dai miei pensieri, facendomi capire
che non si era ancora accorta della mia presenza
- Che c’è, mamma? – le chiesi, posandole una mano sulla
spalla. Sembrava così piccola e fragile sotto la stretta della mia mano, eppure
lei era sempre stata una donna con una grande forza
d’animo, che camminava sempre con la schiena eretta e a testa alta. Aveva
dovuto imparare ad essere forte, aveva dovuto apprendere dolorosamente quell’arte per crescere due figli aiutata
solo da se stessa. Non doveva essere stato facile farci sia da madre che da
padre, in modo che non risentissimo dell’assenza della parte maschile della famiglia. Mi rendevo conto di questo, al contrario di quell’idiota di Michael, il mio fratello
minore.
- Oh,
finalmente! Sono ore che ti chiamo, Steve – esclamò, lasciando la pentola e asciugandosi le mani sul
tessuto giallognolo. Si voltò con un sorriso dolce sulle labbra, togliendosi
qualche ciocca dal volto affaticato.
- Non ti ho sentito, stavo dormendo - spiegai
- Scusami, non volevo svegliarti. E’ solo che sono preoccupata
per Michael – disse con un
tono che tentava di mascherare la sua ansia – Dovrebbe essere già qui…-
Stancamente
mi passai una mano tra le ciocche nere, che erano tanto lunghe da infastidirmi
gli occhi. Sapevo già dove mia madre volesse andare a
parare: guardandomi con quei suoi occhi azzurri mi avrebbe convinto ad andare a
prendere quel cretino, pur sapendo che tra noi non c’era mai stato un buon
rapporto e il fatto che fossimo fratelli non faceva che peggiorare la
situazione: lunghi silenzi a tavola, indifferenza più totale quando
c’incrociavamo nei corridoi, neanche una parola di benvenuto all’altro che
rientrava a casa. Quell’atmosfera così distaccata tra
noi aveva creato non pochi crucci e sofferenze all’unica donna di casa, la
quale aveva tentato in tutti i modi di abbattere quel muro che, non si sapeva
come o perché, si era creato tra di noi. Ogni suo
tentativo, però, era stato un puro e semplice fallimento: io e mio fratello non
ci sopportavamo e nulla l’avrebbe cambiato.
Nonostante quello, però, l’affetto che mi legava a mia madre non era mai
cambiato ed era proprio quell’affetto che mi faceva
preoccupare tanto per lei, al contrario del mio illustre fratello. Entrambi eravamo a conoscenza del fatto che l’ansia e
l’agitazione erano due fattori che potevano scatenare uno dei suoi attacchi di
cuore. Nostra madre, infatti, era nata con una malformazione al cuore che le
aveva sempre dato un sacco di problemi.
Non era un’occasione
rara che fosse colta e che io e Michael
fossimo costretti a trasportarla in ospedale, dove la imbottivano sempre di
ogni genere di farmaci. Durante l’ultima visita il dottore ci aveva preso da parte, sia a me che a mio fratello, e
nuovamente si era raccomandato di darle meno preoccupazioni possibili. Le sue
parole dovevano essere entrate da un orecchio e uscite dall’altro, nel caso di
quel cretino. Così, per evitare che mia madre finisse di nuovo in ospedale,
accettai di andare a prendere il mio consanguigno.
- Vado a
vedere dove è finita quella testa vuota – dissi
sconfitto, prendendo le chiavi della macchina e uscendo senza nemmeno infilarmi
la giacca. Sul volto di mia madre mi sembrò scorgere un sorriso di gratitudine,
il quale mi convinse che quell’uscita non era del
tutto inutile.
*
Spinsi di
più l’acceleratore, desideroso di sbrigare il più in fretta possibile quella
commissione.
La pioggia
batteva imperterrita sul parabrezza, offuscandomi la vista per pochi attimi,
prima che i tergicristalli la spazzassero via. Il suo
canto malinconico continuava a seguirmi anche lì…cacciai via i
miei pensieri prima che potessi ricominciare a perdermi nelle mie
domande su quel qualcosa che ancora non ero riuscito a trovare.
Come non
ero riuscito a trovare quel cretino! Avevo fatto, al contrario, tutta la strada
che solitamente percorreva per tornare a casa, ma di quell’incapace
non c’era la minima traccia. Seguendo il percorso finii davanti alla scuola che
entrambi frequentavamo e dove Michael faceva i suoi
allenamenti di basket.
Non sapevo
neanche perché avesse scelto proprio quello sport, dove tutti devono essere
alti almeno un metro e novanta (ma non è vero!!! NdBlack – E tu che ne sai? NdWhite
– Sono un’ammiratrice di Slam Dunk e Generation
Basket ^^’’’’ – Ah, beh…ottima fonte -.- NdWhite).
Dopotutto lui non era così alto: era di poco più basso di me che ero un metro e ottanta.
Sbuffando
svoltai l’angolo, per frenare davanti alla palestra, dove solitamente si
tenevano gli esercizi per i corsi sportivi. L’edificio era completamente
avvolto dall’oscurità e anche lì, di mio fratello, neanche l’ombra.
- Ma dove cazzo si è cacciato? –
ringhiai furioso, stringendo i pugni sul volante per placare la mia rabbia.
Poi una
figura attrasse la mia attenzione: lui.
Era seduto
sul marciapiede, dall’altra parte della strada, con la testa china e i capelli
che gli cadevano disordinatamente sul volto, fisso a guardare il borsone blu ai
suoi piedi. La pioggia scivolava rabbiosa su di lui bagnandolo fino alle ossa,
ma sembrava che la cosa non gli importasse molto, come non sembrava importargli
la mia presenza.
- Che gli è presto, stavolta? – domandai al vuoto, chiudendo
la portiera della macchina. Il rumore prodotto fu tanto forte che, per un
attimo, riuscì a superare perfino lo straziante grido delle gocce d’acqua che
morivano sull’asfalto, sulla macchina, su di noi…
Controvoglia
mi avvicinai a lui, fermandomi quando fui a pochi passi da dove s’era seduto.
Solo a quel punto sembrò accorgersi di me
- Ste…-
- Si può
sapere che diavolo ti passa per la testa, razza di coglione?
– lo aggredii, interrompendo subito il suo tentativo di parlare – La mamma si è
spaventata a morte, cretino che non sei al…?! – mi
bloccai non appena il suo volto s’alzò verso di me: la candida pelle era segnata
da vistosi segni rossi, che, con molta probabilità, si
ripetevano anche su tutto il suo corpo. Dovevano averlo picchiato proprio per
bene.
Per un
attimo sentì un’inspiegabile rabbia scorrermi nelle vene, una furia cieca verso
coloro che avevano alzato le mani su colui che
raramente riuscivo a definire come fratello. Mi stupii di quella mia reazione,
ma essa si volatilizzo velocemente com’era venuta, con
una scossa esasperata della mia testa.
- Possibile
che tu non riesca neanche a difendere te stesso? – sbottai senza neanche
rendermene conto.
Offeso, mi
fulminò con un’occhiataccia che riuscì a colpirmi nonostante fosse seminascosta
dalle sue lunghe frange bagnate. Un brivido scivolò lungo la mia schiena.
Neanche ora saprei dire se questo fosse dovuto al
freddo o…ad altro…
Solo in
quel momento sembrai accorgermi del fatto che eravamo entrambi sotto la
pioggia, la quale, avida, s’era impossessata presto
dei miei leggeri abiti, inzuppandomi fino al midollo. Se continuavamo
a stare lì ci saremmo presi una bronchite, e poi chi l’avrebbe sentita nostra
madre?
- Entra in macchina – gli ordinai, dandogli le spalle e
tornandomene in auto. Nonostante non lo stessi
guardando, potevo sentire la presenza di Michael che,
silenzioso come al suo solito, mi stava seguendo ubbidiente.
- Per poco
non facevi venire un infarto a mamma – lo rimproverai
duramente, non appena si fu accomodato sul sedile del passeggero – Dimmi, sei
scemo o cosa? Lo sai che mamma si preoccupa facilmente! -
- Vedermi in questo stato l’avrebbe, certamente, ammazzata sul colpo –
ribatté lui, totalmente atonico. Trattenetti a fatica l’impulso di tiragli
un pugno. Quella sua completa apatia, con la quale si rivolgeva unicamente
verso il sottoscritto, riusciva a irritarmi più di
quanto riuscivo ad ammettere.
Dovetti
ammettere, tuttavia, che il suo pensiero non era così
errato. Non che questo potesse giustificare la sua egoistica imprudenza
- Potevi
almeno telefonare -
- Mi hanno
rubato il cellulare – rispose, con un tono che suonava
quasi annoiato.
- Sei troppo stupido per difenderti? – lo schernì, con un
sorsetto serafico. Sapevo che avrei provocato le sue ire con quell’affermazione, ed era proprio per quel motivo che avevo detto una cosa del genere. Solo per vedere quella sua
maschera impassibile incrinarsi, per qualche secondo.
- Stupido?!
Non so te, Mr.Muscolo, ma io non sono in grado di
confrontarmi con sei ragazzi tutti alti il doppio e spessi il triplo di me! –
urlò infervorandosi.
- Piantala di urlare – lo ammonii seccamente, prendendo il mio
cellulare e componendo il numero di casa.
Come immaginavo era impossibile, per noi, stare cinque minuti
senza litigare. Preferii, così, telefonare a nostra madre giusto per informarla
che avevo trovato quell’imbecille. In secondo luogo
avrei dovuto trovare una scusa plausibile, grazie alla quale avremmo
potuto restare fuori casa fino a notte inoltrata, per evitare che la
visione del secondogenito ridotto in quella maniera aggravasse lo stato di
salute della donna di casa.
La prima
scusa che mi venne in mente fu che saremmo andati ad una festa organizzata dai
nostri compagni di scuola - Rientreremo a tarda notte.
Non aspettarci alzata – mi affrettai ad aggiungere.
A quella
notizia la donna dall’altra parte della cornetta non riuscì a reprimere un
grido di gioia, che mi obbligò ad allontanare il telefonino dal mio povero
orecchio assordato
- Mamma,
perché diavolo gridi??? – sbraitai, mentre il ragazzo
al mio fianco mi lanciava un’occhiata traversa che stava chiaramente a
significare una cosa del tipo “guarda che lo stai facendo anche tu”. Ignorai
volutamente quello sguardo, consigliando a nostra madre di andare a dormire
dalla signora McGonnall per quella notte, in modo da
non restare da sola.
La signora McGonnall era la nostra vicina di casa, una vecchietta
allegra e fin troppo arzilla per la sua veneranda età. Viveva da sola con i
suoi tre gatti, dai nomi impossibili da ricordare, e il suo cagnolino Rolly. Forse proprio a causa di questa sua solitudine, si
era avvicinata presto a noi ed era sempre stata disponibile e gentile, in
particolare dopo che nostro padre se n’era andato di casa. Diciamo pure che la
consideravo ormai come una nonna, e il paragone non era
poi così fantasioso. Una volta la sentii parlare con un uomo che, furibondo,
continuava a gridarle che cosa mai la legasse alla nostra casa. La sua risposta
fu tanto semplice da ferirmi: - Loro sono la famiglia che non ho mai avuto -
Capì allora
che anche quella dolce nonnina che ci cucinava i suoi deliziosi dolcetti alla
cannella nascondeva un passato molto triste. Come il nostro, del resto…
La voce di
mio fratello mi riportò alla realtà
- Questo
vuol dire che dovremmo passare la serata insieme – disse,
cercando di apparire piuttosto seccato per la cosa.
- Non ti
lamentare! E’ solo colpa tua se ci troviamo in questa dannata situazione…- le
mie parole di rimprovero furono interrotte bruscamente dalle sue
- Piantala! – sibilò, continuando a tenere lo sguardo fisso
sul parabrezza – Piantala di rimproverarmi. Chi ti credi di essere? Nostro padre, forse? -
M’irrigidii
involontariamente a quell’insinuazione, per poi
sciogliermi sotto l’influsso della rabbia. Una rabbia che fa
offuscare tutti i tuoi pensieri razionali, che non fa vedere più nulla, che non
ti fa più distinguere il bene dal male, se mai questa distinzione esista
davvero.
Con
violenza strinsi i pugni sulle sue spalle, troppo esili per
appartenere a un giocatore di basket, costringendolo a voltarsi verso di
me. Il suo sguardo s’incrociò subito con il mio, permettendomi di notare una
punta di stupore nelle sue iridi argento.
- Non me ne
frega nulla di te e di cosa cazzo fai! Ma se quello che fai danneggia mamma, non ci penso su due
volte a tirarti un cartone in faccia! -
- Perché non lo fai, allora? - mi stuzzicò
Quando si è
preda della collera crolla ogni genere di pensiero raziocinante, anche il più
banale che ti permetterebbe di rispondere civilmente a
una così stupida istigazione. Si agisce d’istinto, e il mio
istinto, in quel momento, mi diceva unicamente di colpirlo. Così alzai
minacciosamente il pugno muovendolo velocemente verso il suo volto, ma mi
bloccai a pochi soffi dalla sua candida pelle.
I suoi
occhi. I suoi occhi, dello stesso colore dei raggi di una luna estiva, avevano
abbandonato il velo di sfida per lasciarsi andare a d’una
aperta tristezza.
Credo furono proprio quelle due iridi d’argento a bloccare il mio
gesto. Le stesse iridi che mi fermai a contemplare.
Non avevo mai notato quanto gli occhi di quel cretino fossero
belli. Forse perché avevo avuto poche occasioni per guardarli a così poca
distanza, o forse perché non avevo mai avuto motivo di fissarli…
Con un
profondo sospiro lasciai la presa sulle sue spalle e distolsi il mio sguardo
dal suo, tornando a poggiarmi al sedile.
- Senti, se
vogliamo superare questa notte senza farci a pezzi dobbiamo fare una tregua –
- Mh – presi quel grugnito per un sì.
Accesi il
motore, già stufo del cocciuto comportamento che Michael
stava tenendo. La mia idea era di infilarmi nel primo pub aperto che avremmo incrociato lungo la strada. Grazie a quel genio che
mi stava di fianco, infatti, ero stato costretto ad uscire di casa con lo
stomaco vuoto, che ora brontolava per quella mia dimenticanza. Molto
probabilmente anche il mio compagno stava morendo di fame, ma lo conoscevo
abbastanza per sapere che non l’avrebbe ammesso mai, neanche sotto tortura. Non
valeva la pena sprecare fiato con quello lì.
- Dove stiamo andando? – mi chiese, togliendosi di dosso il
giaccone zuppo d’acqua, rimanendo solo con un’altrettanto fradicia maglia di
cotone, che aderiva sul suo corpo come una seconda pelle, esaltandone il più
piccolo muscolo.
Ero a
conoscenza del fatto che Michael aveva sempre riscosso un notevole successo con la fazione femminile e,
proprio come per me, questo era dovuto in gran parte al suo aspetto: morbide ciocche
corvine dai riflessi quasi bruni, il viso dai tratti delicati e ancora non del
tutto sviluppati, il corpo minuto ma allenato come quello di qualsiasi atleta,
e poi quegli occhi d’argento…così magnetici. Al contrario del sottoscritto,
però, la sua fama non era dovuta unicamente ad un
fattore estetico, ma, anzi, il suo carattere gentile e riservato gli conferiva
maggiore fascino. L’esatto contrario del mio, più
rumoroso e, paradossalmente, più scontroso. Era proprio il suo carattere che
faceva andare in delirio numerose ragazze e ragazzi, a sentire le voci che
giravano liberamente per i corridoi.
- Ehi, sei
tra noi? – la sua voce mi giunse delicata alle orecchie
- Eh?! Cosa? -
Aggrottò le
sopracciglia, con fare interrogativo – Ti ho chiesto dove stiamo andando - ripeté
- Nel primo
pub che troviamo. Sto morendo di fame. Penso che valga la stessa cosa anche per
te - dissi, anche se ero ben poco fiducioso della sua
risposta.
- Effettivamente – sussurrò lui, lasciandomi letteralmente a bocca
aperta
“Cosa?! Mister-sto-sempre-zitto
mi ha dato una risposta affermativa? Questa sì che sarà
una notte da ricordare!” ironizzai nella mia mente, inconsapevole di quanto in
realtà fossi vicino alla verità.
Free talk
Salve! ^^ Qui parla Black Angel, la
guardiana dei Portali Infernali.
Dopo le mie
favole del Giardino dei Peccatori e dei Dannati, passo ad un genere un po’ più
roseo ma ugualmente intriso di quell’angst che mai
guasta (almeno per la sottoscritta) ^^ Idealmente Moment dovrebbe essere il
primo capitolo di una breve trilogia incentrata sui due fratellini protagonisti:
in questa prima parte, infatti, i loro pensieri e sentimenti sono affrontati
superficialmente, per dare un maggior spazio alla storia in se che aprirà le
danze per il secondo capitolo…credo non si sia capito nulla, ma abbiate pietà
per una poveraccia che non conosce uno straccio d’italiano ^^’’’
Vorrei
soltanto affrontare un ultimo punto, prima di svanire nelle nebbie dell’eternità:
visto che so che a molti potrebbe infastidire una
tematica del genere, voglio dire fin da subito che questa storia riguarda un
amore omosessuale tra due fratelli (un incesto, in poche e semplici parole).
Grazie
mille per l’attenzione ^^ Aspetto vostri commenti e/o
critiche (con molta probabilità saranno in netta maggioranza quest’ultime NdWhite – Il tuo
sostegno è sempre ammirevole -.- NdBlack)