Prologue;
Memories of Autumn • [
μ ] - εуλ 1992
(xxx)
The day he met his curse and salvation
---
La verità
si era rivelata una sera in maniera del
tutto inaspettata, inattesa, scivolando via dalle labbra umide di alcol
di Reno
in un bar fumoso e poco frequentato di Junon. Era passata inosservata
come una
qualsiasi sciocchezza inserita a caso in un discorso sconclusionato di
fine
giornata, si era dissolta e si era annidata in un angolo recondito
della mente
di Tseng senza riemergere per molti anni. Aveva continuato
semplicemente a
sorseggiare distrattamente il proprio drink, leggendo dei fascicoli che
elencavano banali rapporti quotidiani.
Fu forse grazie al
liquore e alla disperazione che
riuscì a far riemergere quel ricordo poco importante, quasi
venti anni dopo,
quando si ritrovò costretto ad affrontare sé
stesso, seduto davanti al fuoco,
solo con le fiamme ed i suoi fantasmi.
Era una notte
qualsiasi, o forse la più terribile
che avesse mai trascorso in solitudine. Ingoiava amari sorsi di un
liquore
forte quasi quanto quello che era solito bere assieme a Reno, tentando
di
sopprimere un’irrefrenabile bisogno di rompere il bicchiere
sulla moquette
rossa. Mentre osservava la carta ripiegarsi su sé stessa,
fissando gli angoli
delle buste immacolate annerirsi e accartocciarsi in una rapida e
malinconica
danza di morte tra le fiamme del caminetto, rivide la scena come sulla
pellicola sbiadita di un vecchio film.
« Le bugie
sono come la droga. Racconti la prima
ripromettendoti di non compiere mai più lo stesso errore, ma
poi finisci
inevitabilmente vittima di un’assuefazione
completa.» le lunghe dita sottili di
Reno avevano iniziato rapidamente a chiudersi a pugno, ad una ad una,
in una
fatale ed inesorabile conta « La prima bugia è un
tentativo, la seconda è
ingenua, la terza necessaria. L’inconveniente è
che,» le ultime due dita
seguirono le prime tre all’unisono, interrompendo il ritmo,
mentre le labbra di
Reno assumevano una curva fatalista ed ironica al tempo stesso
« dalla quarta
in poi diventa impossibile tenere il conto.»
La sua voce era stata
soffocata dal tintinnio del
ghiaccio nel bicchiere, dal frusciare dei fogli tra le dita di Tseng,
da un
rintronante cupo blues che rimbombava da un vecchio jukebox in un
angolo del
locale, dal sommesso brusio che proveniva dai pochi tavoli occupati,
nella
penombra.
Anche se il tono con
cui furono pronunciate aveva
in qualche modo reso quell’argomento poco serio, - quel suo
continuo e
particolare modo di flettere la voce trasformava ogni discorso in una
cupa
presa in giro –, le sue erano state parole fondamentalmente
tristi. Tuttavia,
il giorno in cui vennero proferite subirono il destino che di solito
Tseng
riservava agli sproloqui di Reno: furono ascoltate di sfuggita e
deliberatamente ignorate.
La ceralacca rossa
iniziò a colare tra i tizzoni
ardenti, scivolando sulla carta e nella cenere come un inquietante
serpente di
sangue.
L’uomo che
li osservava morire in quel fuoco che
piano divorava quattro anni di speranze e preghiere, vide i sigilli
sciogliersi, mescolarsi alla carta annerita.
E fissando quasi
rapito il lento sgretolarsi di
quelle lettere mai spedite, quell’uomo comprese lentamente.
Reno era sempre stato
un individuo singolare. La
maggior parte delle volte che apriva la bocca si trattava solo di un
modo
rapido di far sfoggio delle proprie illimitate e spesso eccessive
abilità oratorie,
aprendo discorsi irritanti e privi di senso che non valeva la pena
neppure di
prendere in considerazione.
Quando tuttavia
ricordava di come il dono della
parola non servisse solo a lamentarsi, a imprecare o ad urlare, Reno
sapeva
essere un uomo saggio. Si trattava di una saggezza grezza e priva di
morale,
plasmata dall’esperienza e dalle sofferenze di una vita
sregolata trascorsa
senza agi nei bassifondi di Midgar. Lui era l’unico nel loro
mondo di assassini
che fosse in grado di vedere la realtà per quello che era,
che riuscisse a
comprenderne ogni sfaccettatura, ad accettarla senza tentare in alcun
modo di
sfuggirle. Aveva la capacità di assimilarla, di respirarla,
di farla sua,
adattandosi al marcio ed alla corruzione come se fossero piccole
imperfezioni
senza valore, gli elementi naturali dell’aria che respirava.
Continuava a
immettere aria nei polmoni come se niente fosse, accettava quel cancro
senza
farsene un problema e non se ne lamentava. Era l’unico in
grado di capire
quanto ribellarsi fosse inutile, quanto fosse privo di senso illudersi
che
prima o poi le cose sarebbero andate diversamente, per loro e per il
Pianeta.
In quel mondo insanguinato di
truffe,
ingiustizie e putridume dove tutti non facevano altro che fingere, lui
era uno
dei pochi che riuscisse a rappresentare il mondo con estremo e
impietoso realismo
– in quei casi, le sue parole diventavano preziose come
diamanti rari.
Tseng
ripensò a quel suo stupido discorso sulle
bugie, mentre nel fuoco vedeva bruciare anche gli strascichi di inutili
promesse mai mantenute. Era stato così cieco da non
accorgersi che quella sera
Reno gli aveva offerto uno dei diamanti più preziosi mai
visti. Come aveva
potuto gettarlo via come un qualsiasi quarzo senza valore?
Abbandonò
mollemente le spalle contro lo schienale
morbido di quella poltrona costosa di pelle nera, il bicchiere ormai
mezzo
vuoto tra le dita aperte a ragno. Il vetro rifletteva i riverberi del
fuoco,
mescolandoli ai brevi lampi che percorrevano il ghiaccio e le onde
liquide
dell’alcol. Si passò la mano libera sul volto, poi
afferrò i capelli all’attaccatura,
in un moto di silenziosa e mesta frustrazione.
C’era una
risata che faceva di tutto per
sgorgargli dalla gola, ma la trattenne. Si limitò a
digrignare i denti,
silenziosamente, e poi a tornare inespressivo, la mano che scivolava
composta
sul bracciolo lucido.
Cieco
e
illuso.
C’era stato
un tempo lontano in cui un ragazzo
come gli altri aveva indossato morbidi abiti di lino con le maniche
ricamate di
fili d’oro e decorate di gru dipinte a mano. Aveva sentito
l’odore dell’incenso
per le strade, il rumore dell’acqua sulle rocce e sotto i
ponti di legno
laccato, aveva sentito la consistenza morbida delle stuoie sotto i
piedi nudi.
Una notte di inverno
si era seduto accanto al
letto di morte di suo padre, mentre la neve cadeva sul Da-Chao, le
montagne e gli
alberi.
Forse fu quello il
giorno del suo primo tentativo,
del primo passo verso l’assuefazione, mentre il suo piccolo
mondo di pace si
tingeva di bianco e la vita di suo padre si spegneva.
« Andrai via
da qui, figlio mio.» aveva detto suo
padre, gli occhi gonfi e arrossati, la voce ridotta ad un sibilo mentre
i suoi
polmoni cercavano in tutti i modi di raccogliere l’aria
necessaria « La mia
amata patria è ormai troppo piccola e povera
perché tu possa condurvi la vita
che meriti.» gli aveva sfiorato faticosamente il braccio, le
dita bianche e
gelide « Queste sono le mie ultime volontà,
figlio. Sarò l’ultimo di questa
stirpe a depositare qui le proprie ceneri.»
Il
giovane lo aveva fissato
intensamente per lunghi istanti;
c’erano tante cose che avrebbe voluto dirgli, ma le occhiate
febbrili piene di
aspettativa di suo padre erano state in grado di imporgli il silenzio.
Aveva
abbassato appena gli occhi scuri, in un moto di mesta, rispettosa ed
impassibile ubbidienza.
«
Andrò, padre.» aveva risposto, annuendo piano.
Aveva visto uno stanco
sorriso apparire sulle
labbra esangui del suo amato padre.
« Ti
ringrazio. Sono fiero di te, figlio.»
Il giorno dopo aveva
sentito il pianto sommesso di
sua madre riecheggiare per tutta la casa ed aveva aperto il pannello
scorrevole
della sua stanza; seduto sui talloni sul legno del porticato, davanti
al
giardino di pietre ghiacciate di cui suo padre era sempre stato geloso,
aveva
osservato i fiocchi di neve cadere dal cielo per tutta la notte.
Si recò a
incontrarli al termine dei riti funebri
tramite i quali le ceneri di suo padre avevano trovato riposo tra
quelle dei
suoi predecessori. Quando si era presentato alla Pagoda indossando gli
abiti
che portavano il sigillo della sua casata, il nome della sua stirpe era
bastato
a convincere gli inviati da Midgar. La sua famiglia era una delle
più celebri
di Wutai, e lui ne era l’ultimo erede maschio.
« La tua
presenza porterà onore ed enormi vantaggi
all’azienda.»
Gli avevano promesso
un posto tra gli enti
esecutivi della ShinRa, gli chiesero di presentarsi alla pagoda entro
una
settimana per ripartire verso Midgar, gli avevano offerto la mano
aperta per
suggellare il patto.
Il ragazzo li aveva
esaminati lentamente,
rispondendo ai loro sorrisi solo con silenziosi e freddi sguardi.
« Vi
ringrazio.» si inchinò appena, senza degnare
i loro palmi spalancati neppure di un’occhiata.
E poco prima di
partire con
« Non sei
costretto ad andare, figlio.» sua madre
lo aveva implorato di rimanere con lei fino all’ultimo. La
notte prima della
partenza si era poggiata affranta allo stipite della porta scorrevole,
la sua
sagoma un po’ curva che si proiettava allungata sulle pareti
della stanza ormai
vuota.
« Questo
è ciò che voleva mio padre. Gli ho dato
la mia parola.» il giovane aveva risposto senza guardarla.
Lei era rimasta a
lungo in silenzio.
« Non ti
fermerò se questa è anche la tua
volontà.» si era infine arresa, la voce incrinata
e tremante « Ma se in realtà
non vuoi partire ed ami ancora la tua casa, rimani qui con me. Tuo
padre
capirebbe, ne sono certa. E’ giusto che tu sia libero di fare
ciò che
preferisci.»
Lui aveva chiuso gli
occhi, dischiudendo appena le
labbra.
Ho
dato
la mia parola, madre.
Come
potrei sopportare il disonore di mancare ad una tale promessa?
E’
il mio
dovere.
Sebbene il fiato gli
si mozzasse in gola aveva
trovato la forza di pronunciare le uniche parole che avrebbero
costretto sua
madre a lasciarlo andare. Le uniche che gli avrebbero permesso di
continuare ad
avanzare lungo il sentiero di devozione che aveva imboccato.
«
E’ ciò che voglio.»
Sua madre aveva
trattenuto il respiro, soffocando
un breve rantolo di dolore.
Il giorno della
partenza, quando lo aveva baciato
su entrambe le guance e lo aveva osservato mentre lasciava la casa che
non
avrebbe mai più rivisto, gli aveva rivolto uno strano
sguardo di accusa. Lui
lo aveva sentito su di sé anche dopo, quando non
fu più in grado di distinguere i tetti di Wutai tra gli
alberi.
Un addio amaro che gli
suggeriva un biasimo malinconico.
Pensi
che
tuo padre sarebbe fiero delle tue menzogne?
C’era stato
un giorno in cui il giovane di Wutai
aveva varcato la soglia di un mondo che non conosceva affatto. La prima
cosa
che notò, scendendo dall’auto che lo aveva
accompagnato davanti ai cancelli di
Midgar, fu che il cielo era uno specchio nero privo di stelle. Rimase
immobile
a fissarlo per lunghi istanti, stringendo tra le mani i manici duri dei
suoi
bauli da viaggio, in sottofondo i tonfi metallici provocati dagli
sportelli
della macchina che venivano aperti e richiusi. Cercò di
riconoscere le costellazioni,
tentò in tutti i modi di scorgere anche il minimo bagliore
in quella distesa di
pece – ma l’unica cosa che colse fu il vuoto, ed un
istante dopo si sentì
avvolto da un assoluto senso di disorientamento.
Il primo giorno lo
accolsero tra le mura di un
gigantesco palazzo di ferro e luci: il neon gli ferì gli
occhi, fu assordato e
confuso dalle voci di uomini di cui comprendeva a stento
l’accento. In molti
gli strinsero la mano senza che lui la offrisse, presentandosi
spontaneamente.
Sembravano tutti soddisfatti del suo arrivo, ma il giovane non si
illuse. Il
nome di suo padre correva su quelle bocche con troppa
rapidità perché quel loro
entusiasmo fosse disinteressato. Cercando di adattarsi alla situazione,
mostrava a tutti un cortese e silenzioso distacco.
La sera stessa gli
consegnarono la chiave di un
appartamento, informandolo che quella sarebbe stata la sua sistemazione
temporanea. Gli dissero che finché non fosse stato possibile
farlo alloggiare
direttamente al Quartier Generale, avrebbe dovuto cambiare alloggio
ogni quattro
giorni per questioni di sicurezza.
La prima casa era
situata al quinto piano di un
condominio a meno di due isolati dal Palazzo ShinRa. Era piccola e poco
accogliente, ma il giovane non ebbe nulla di cui lamentarsi: sapeva che
non
sarebbe servito a nulla. Si sedette sul bordo del materasso duro e
fissò il
vuoto a lungo, senza curarsi dei bauli ancora intatti. Le pareti erano
grigie e
anonime – non c’erano decorazioni di carta di riso,
né qualsiasi altra cosa.
Il secondo giorno
degli uomini in giacca e cravatta
bussarono alla sua porta: erano le cinque del mattino ma lo trovarono
sveglio –
non era riuscito a chiudere occhio. Gli consegnarono formalmente degli
abiti
avvolti in un sottile e leggero foglio bianco di carta velina,
dicendogli di
presentarsi al Quartier Generale alle sette in punto. Aprendo
l’involto,
distese sul suo letto intatto un completo blu scuro: sul taschino della
giacca
era ricamato il simbolo della ShinRa, un piccolo rombo perfettamente
simmetrico
che incorniciava il logo della compagnia.
Alle sette e mezzo del
secondo giorno, il giovane
incontrò il Presidente ShinRa. Si presentò nel
suo grande ufficio dell’ultimo
piano con addosso la sua nuova scomoda divisa, salutandolo con un
profondo
inchino formale. Il Presidente gli diede il benvenuto
nell’organizzazione di
intelligence della sua agenzia – un organismo che, a detta
sua, era composto
solo di persone da lui stesso ritenute meritevoli di enorme fiducia.
Sembrava
che quelle parole di circostanza volessero in qualche modo rendergli
noto
quanto fosse importante il servizio che il figlio di un grande
feudatario di
Wutai avrebbe svolto per la società. Ma per qualche motivo,
il giovane le udì
distorte e gli parve che si trattasse solo di un metodo velato per
tenere a bada
un potenziale pericolo.
« Sono molto
onorato.» fu la risposta a quelle
vuote lusinghe. Una bugia ingenua di tre parole.
E tuttavia sentiva
ancora la voce di sua madre sussurrargli
fredde accuse all’orecchio.
Chi
pensi
di ingannare con queste tue menzogne?
Il terzo giorno gli
diedero le chiavi del suo
secondo alloggio e gli mostrarono il cartellino che lo identificava
come
dipendente della ShinRa – sulla carta plastificata si leggeva
chiaramente Sezione investigazioni del
dipartimento
degli Affari Interni.
Il quarto giorno lo
accompagnarono nelle prigioni
del palazzo e gli mostrarono un prigioniero bendato, legato ad una
sedia nel
bel mezzo di una cella umida. Gli diedero una pistola e gli dissero
“spara”.
Il Turk tese il
braccio e fissò in silenzio l’uomo
imprigionato; il dito tremava sul grilletto e il calcio bollente
dell’arma gli
si conficcava nel palmo provocandogli un dolore lancinante. E prima di
obbedire,
poggiando la canna sulla fronte del prigioniero, vide le lacrime rigare
le sue guance,
mentre una bassa preghiera sommessa e singhiozzante gli sfuggiva dalle
labbra
secche. Quando il frastuono dello sparo gli inibì
l’udito, estraniandolo da
qualsiasi cosa su quel Pianeta, il Turk riuscì a non pensare
a quanto quella nenia
gli fosse sembrata simile ad uno dei sutra di Wutai.
Si abituò
difficilmente all’odore dello smog per
strada, al frastuono che la inondava da mattina a sera, alle luci
abbaglianti,
al pavimento ruvido degli uffici e dell’asfalto.
All’inizio non riuscì a
chiudere occhio, ma alla fine le sue abitudini cedettero e si
modificarono – il
letto duro della sua stanza diventò una
necessità, così come il caffè amaro
dei
distributori in ufficio, o il colletto stretto e asfissiante di quella
giacca
blu inamidata. Le notti insonni terminarono, complici le intense
giornate di
lavoro.
L’unica cosa
a cui non riuscì mai ad assuefarsi,
per quanto si sforzasse, fu premere il grilletto. Quando al mattino gli
bastava
una leggera pressione dell’indice sul metallo freddo per
spezzare la vita di un
uomo, gli incubi che gli impedivano il sonno tornavano sempre, ogni
notte, a
volte per mesi.
E poi venne la guerra.
Se ne accorse una
mattina qualsiasi, sfogliando
dei mandati di arresto e di perquisizione. Uno dei fascicoli fissava il
primo
bombardamento su Wutai alle ore otto del mattino, in data otto agosto.
Sembrava
uno scherzo o un errore che uno dei Turk lo venisse a sapere a quel
modo – il
giovane rilesse quella dichiarazione di guerra più di dieci
volte, stringendo
forte tra le dita il foglio bianco che portava la firma del Presidente
ShinRa.
Quella sera stessa
chiese udienza al Presidente.
Si presentò davanti alla sua scrivania contando i passi
lungo le scale, i pugni
stretti in una morsa nel tentativo estremo di mantenere il controllo.
Si presentò
di fronte a quell’uomo per conoscere
il perché di quella guerra e ottenne in risposta solo uno
sguardo di irritata
sufficienza.
« Per quale
motivo un semplice Turk dovrebbe
contestare le decisioni dei suoi superiori?» il Presidente si
era alzato in
piedi, sbattendo le mani contro la scrivania.
« Wutai
è la mia terra.» fu la giustificazione
semplice e sincera che giunse in risposta
« Wutai
è un’isola maledetta popolata di sciocchi
ipocriti. Abbiamo tentato di trovare un accordo con loro, ma la loro
ostinazione
e i loro dogmi obsoleti di orgoglio e dovere ce lo hanno
impedito.» le parole
del Presidente lo ferirono come pugnali affilati « Ora
è tempo che Wutai riceva
ciò che si merita.»
Il giovane
deglutì, i principi in cui aveva sempre
creduto che si sgretolavano improvvisamente ad ogni parola,
frantumandosi in
mille pezzi ai suoi pedi come gingilli di vetro privi di valore. Il
presidente
li aveva scherniti e denigrati fino a disintegrarli nel nulla.
« Posso
aiutarvi. Lasciatemi il comando delle
contrattazioni e datemi la possibilità di
provare.» fu l’ultimo tentativo
disperato « Ritirate la dichiarazione di guerra.»
Gli occhi del
presidente si erano immediatamente
accesi di rabbia:
« I Turk
obbediscono. L’obbedienza è l’unica cosa
che viene chiesta loro in cambio di uno stipendio che chiunque sul
Pianeta
invidierebbe, e tu – chi credi di essere tu,
per osare anche solo venire qui al mio cospetto per
rivolgermi una domanda
del genere?» il Presidente si era riseduto lentamente,
rivolgendogli un gesto
stizzito della mano, quasi dimenticandosi della sua presenza
« Sei congedato.»
La notte del sette
agosto, il fracasso degli
elicotteri e dei bombardieri che si alzavano in volo
dall’aeroporto della
ShinRa non gli fece chiudere occhio. Il suo decimo appartamento era
più
spazioso dei precedenti, si trovava molto più vicino al
Quartier Generale di
qualsiasi altro avesse occupato. Affacciandosi alla finestra della sua
stanza
avrebbe facilmente potuto assistere alla processione militare che si
alzava in
volo in una cupa promessa di morte e rovina.
Abbassò le
persiane e si chiuse a chiave nel
bagno; si accasciò sul lavandino, rimettendo bile e acido
dallo stomaco vuoto.
Il rombare dei motori che si allontanavano giungeva attutito attraverso
le
sottili pareti di prefabbricato, ma lo assordarono e lo tormentarono
fino a
fargli quasi esplodere la testa dal dolore.
Quando alzò
gli occhi e si guardò allo specchio,
l’immagine riflessa gli mostrò un uomo in lacrime.
A cosa servivano la
giustizia e l’orgoglio, ormai?
Avrebbero fermato quella follia? Avrebbero lavato le sue mani
imbrattate dal
sangue degli uomini che aveva ucciso?
A
cosa
serve l’onore, se sono costretto a insozzarlo perseguendo dei
valori in cui non
credo?
I polpastrelli premuti
contro il vetro, il giovane
di Wutai poggiò la fronte contro la superficie fredda,
digrignando i denti, le
lacrime che colavano senza tregua fino al mento appuntito.
E battendo i pugni
contro la sua immagine riflessa,
il Turk si sentì un traditore. Non era forse lontano dalla
sua gente che sarebbe
morta? Non si rendeva conto di quanto quelle sue lacrime fossero
inutili?
Che
valore ha il mio giuramento, padre?
Quante
persone sono già morte a causa mia? Quante ne moriranno
ancora?
Continuando a fissare
l’uomo nello specchio,
studiando le sue guance salate ed incavate, il suo sguardo vacuo ed il
sudore
che gli imperlava la fronte e gli inumidiva i capelli, il Turk
impugnò la
pistola. Aveva abbandonato la terra di suo padre, offrendosi
ingenuamente come
prigioniero politico. Si era votato ad una vita fantasma, spingendo il
proprio
ego fino all’annullamento. E non poteva scappare: poteva solo
rimpiangere e
urlare, mentre iniziava la distruzione di ogni cosa avesse amato. Ora
che il
suo onore era andato in frantumi, a cosa serviva vivere?
Poggiò la
canna sulla propria tempia, il dito che
per la prima volta non fremeva nel toccare il grilletto.
Quante
vite ho strappato in nome dell’onore?
Secondo
quale diritto ho ucciso?
Solo
chi
è pronto a morire possiede quel diritto.
Chiuse gli occhi, il
ronzio degli aerei che
spariva lentamente.
La molla
scattò a vuoto. Non c’erano più
proiettili.
Neppure la morte gli
era più concessa.
Quando il giorno dopo
si guardò allo specchio, la
luce dei suoi occhi era diversa. Quando sorse l’alba
dell’otto agosto, il
ragazzo di Wutai non esisteva più. Non esistevano
più legami di sangue, né
abiti ricamati di seta, né la nostalgia di un mondo che
probabilmente in quello
stesso istante stava già bruciando.
Ora c’era un
uomo che avrebbe condotto la vita che
aveva scelto in silenzio, come in un eterno cammino di espiazione.
Si legò la
cravatta come ogni mattina, pettinando
all’indietro i capelli che iniziavano a diventare troppo
lunghi. Infilò il
caricatore nella pistola, ignorando la fitta ragnatela di crepe che
deturpava
lo specchio.
E firmando il primo
rapporto con il suo nuovo nome
fittizio – il nome di quell’uomo nato dalle lacrime
– impugnando un’elegante
stilografica nera, si fece silenziosamente una promessa ingenua.
Ho
abbandonato tutto per questa vita. Non è forse giusto che vi
dedichi tutto me
stesso?
Pose il sigillo della
ShinRa sulle ultime due
lettere della sua firma ancora acerba.
E’
ciò
che merito.
Era l’otto
agosto quando iniziò la lenta disfatta
di Wutai.
Era l’otto
agosto quando nacque Tseng.
Quando gli furono
consegnate le chiavi del
sedicesimo o forse diciottesimo appartamento,
Tseng iniziò ad occuparsi dei
sondaggi per
Il ruolo dei Turk, in
quel caso – uno dei compiti ufficiali
della Sezione Investigazioni –
era sottoporre i candidati a sondaggi e prove sia fisiche che
psicologiche in
modo da verificare che fossero idonei o meno alla procedura di
trasformazione
in SOLDIER. Tseng aveva svolto il suo dovere con estrema
professionalità fin
dal primo colloquio, prendendo appunti in silenzio, ascoltando e
registrando
ogni parola. La maggior parte dei volontari erano ingenui precari che
speravano
di cambiare vita – incantati dalle promesse elargite dagli
sponsor ShinRa o dal
sogno di gloria proposto dagli eroi SOLDIER come Sephiroth –
ma erano pochi
quelli ad avere i requisiti adatti. Ogni volta che si sedevano davanti
a lui,
tesi ed impazienti come se da quell’incontro dipendesse la
loro vita, Tseng non
riusciva a fermare quel muto flusso di coscienza che gli scorreva nella
testa,
in sottofondo – Poveri sciocchi avventati, non hanno idea di che
inferno li attenda. E nonostante ciò continuava a
lavorare, ponendo i
sigilli e la propria firma quando i test risultavano positivi. Quando
doveva congedare
i volontari non adatti, li osservava andarsene senza mostrare loro
alcuna
espressione, anche se spesso era costretto ad assistere impassibile
anche alla
loro delusione disperata.
A Midgar non era
facile distinguere le stagioni,
ma il calendario segnava l’inizio dell’autunno. Non
c’erano alberi spogli né
foglie secche per le strade e la cappa di smog ed inquinamento
manteneva la
temperatura costante – un caldo umido spesso soffocante che
si attenuava solo
durante le rare nevicate invernali.
In quel periodo il suo
lavoro si limitava
semplicemente nell’incontrare la gente, nel raccogliere
informazioni utili, nel
timbrare e contrassegnare biglietti di non ritorno verso il mondo
SOLDIER.
Ed era
una sera autunnale quando Tseng
vide il nome di un uomo non idoneo
stampato su uno di quei biglietti.
Se ne
accorse all’istante, sfogliando
le cartelle degli arruolamenti. Esaminò il fascicolo
leggendo ogni paragrafo
con attenzione: a giudicare dai risultati del sondaggio, si trattava di
un uomo
molto forte fisicamente, che tuttavia presentava delle debolezze minime
e dei trascurabili disturbi di natura
psichiatrica. Per quale motivo vi era stato apposto il sigillo? Una
svista? Un
errore di un collega?
Abbandonò
la cartella sul tavolo della
stanza degli archivi, dirigendosi a grandi passi verso
l’ascensore. Svista o
errore che fosse, solo una cosa era certa: quell’uomo non
avrebbe probabilmente
sopportato il trattamento.
Aspettò
di arrivare al cinquantesimo piano
fissando i numeri che crescevano rapidamente sul monitor a cristalli
liquidi – 44, 45, 46 – mentre
oltre i vetri
dell’ascensore i palazzi squallidi di Midgar si
rimpicciolivano e diventavano
in fretta insignificanti sotto i suoi piedi, a mano a mano che saliva. Quando le porte scorrevoli si
aprirono, accelerò il passo, dirigendosi verso il
laboratorio dove si
svolgevano le esposizioni Mako degli agenti SOLDIER.
Probabilmente,
in quegli attimi che
erano intercorsi tra la scoperta di quell’errore di
valutazione e la rapida
salita verso il laboratorio, Tseng era riuscito in qualche modo ad
illudersi di
poter salvare una vita – dopo che per molto tempo non aveva
fatto altro che
distruggerne.
Ma quando
gli infermieri lo portarono
davanti al letto del paziente 34, ogni sua speranza si dissolse
all’istante.
Si
avvicinò lentamente, ogni passo che
diventava più pesante e difficoltoso come in una corsa
disperata nel fango; e
quando si fermò, accartocciando tra le dita il fascicolo che
lo aveva condotto
fin lì, incontrò lo sguardo vitreo di un uomo
morto.
Aveva il
fisico imponente di un
minatore, ma il volto incavato raccontava un’altra storia.
Sembrava essere
dimagrito improvvisamente, all’istante, quasi che la sostanza
gli fosse stata
aspirata via dalle carni in un colpo solo. I bulbi oculari
sprofondavano nelle
orbite scure come in due profondi crateri vuoti, i capelli erano radi,
bianchi
come quelli di un vecchio. Giaceva lì, respirando a fatica,
muovendo gli occhi ciechi
che sembravano posarsi su ogni cosa senza tuttavia vedere nulla.
Tseng
studiò quegli occhi a lungo,
prima che l’uomo si accorgesse di lui; e fu osservando i
pigmenti castani delle
iridi che si rimescolavano disordinatamente al liquido verde del Mako
– una
macchia densa che si irradiava dalla pupilla come l’olio su
di uno specchio
d’acqua – che comprese di non poter fare nulla.
E’ troppo tardi.
Dopo
qualche istante, quando quegli
occhi innaturalmente bicromi si fissarono su di lui e riuscirono a
metterlo a
fuoco, l’espressione dell’uomo sembrò
rianimarsi; la voce sibilò tra le sue
labbra violacee in un basso rantolo:
«
Lei è uno dei Turk, non è vero?
Riconosco la divisa.» il silenzioso annuire di Tseng fece in
modo che su quel
volto tirato apparisse un grande sorriso « E’
grazie a voi che sono qui, vi
sono molto grato.» si era fermato un attimo a riprendere
fiato « Quando sarò
SOLDIER la mia vita cambierà! Potrò permettermi
un casa più grande e potrò
prendermi cura dei miei figli e di mia moglie…mi stanno
aspettando a Corel…»
tossì forte «…non sapevo
cos’altro fare. Quando sarò SOLDIER ci
trasferiremo
qui e loro vivranno la vita che meritano…»
Tseng
corrugò appena la fronte,
annuendo in risposta. Non riusciva a dire nient’altro e
sapeva bene che
qualsiasi cosa sarebbe comunque stata inutile. Di colpo
l’uomo si irrigidì, gli
occhi che si offuscavano nuovamente; proseguì a bassa voce,
balbettando, lo
sguardo che si perdeva ancora in universi che non poteva vedere.
«
Però è dura, signore. Mi hanno detto
che è normale che abbia così freddo, dopotutto
sono solo alla prima
esposizione…» tossì ancora,
più forte di prima, il tono di voce che sfumava
dalla lucidità febbrile al delirio «…ma
io ho davvero troppo freddo,
signore. E non sento le gambe, e fa male, e gli
occhi bruciano.» si voltò nuovamente a guardarlo
« Ma è normale, non è così?
Alla prossima esposizione si sistemerà tutto, mi
abituerò, e sarò un SOLDIER,
si?»
Tseng
restituì lo sguardo,
osservandolo mentre farneticava su quelle lenzuola bianche e accecanti
che
sarebbero probabilmente state il suo letto di morte. E respirando
piano, dischiuse le labbra:
«
Si.» annuì ancora, lentamente « Non
si preoccupi. Andrà tutto bene.»
Dopo un
istante di silenzio, l’uomo abbandonò
la testa quasi calva sul cuscino, gli occhi che si riducevano in
fessure:
«
Grazie di tutto, signore.» la sua
espressione si fece di colpo serena « Grazie di
cuore.»
Tseng si
allontanò in silenzio, l’eco
delle proprie parole che lo tormentava fino quasi a portarlo alla
follia, come
una maledizione.
Alcuni
giorni dopo, tenendo in mano il
manico della sua ventiquattro ore nera, Tseng si fermò
davanti alle porte
chiuse dell’ascensore al cinquantanovesimo piano.
Abbassò lo sguardo,
sentendosi strattonare debolmente i pantaloni – una bambina
stringeva nel pugno
bianco e piccolo le pieghe blu della sua divisa. La studiò
in silenzio,
ricambiando il suo sguardo luminoso con brevi e pacate occhiate
interrogative.
La
bambina indossava un camice bianco
da laboratorio, aveva i capelli raccolti in una corta treccia castana e
due
grandi occhi espressivi che brillavano di un verde acceso.
Se ne
stava lì, immobile, a piedi nudi
sul pavimento lucido, lo guardava con tanta intensità che
Tseng pensò per un
istante che con quegli occhi lei potesse leggere qualsiasi suo segreto.
E poi le
labbra rosa e carnose della
bambina si mossero:
«
Non essere triste, signore.»
Alcune
ore dopo, Tseng si recò
nuovamente al cinquantesimo piano, le parole della bambina non gli
davano
tregua. E quando lo fecero entrare nell’infermeria, vide che
il letto numero 34
era vuoto, intatto come se nessuno lo avesse occupato per anni.
Gli
infermieri gli si accostarono
scuotendo il capo e gli sussurrarono “Intossicazione
da Mako. Stadio terminale.”
L’uomo
di Corel era morto.
Fissando le lenzuola
pulite, Tseng sentì
distintamente la voce di una donna sussurrargli fredde accuse
all’orecchio.
A
cosa
pensi siano servite le tue menzogne?
(xxx)