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Autore: Shainareth    13/10/2009    2 recensioni
[Gundam SEED/Gundam SEED Destiny] Quella che segue è una fanfiction che, sostanzialmente, non offre alcuna novità a livello di trama, salvo poche eccezioni, in quanto ripercorre tutta la storia delle due guerre del Bloody Valentine vissute in prima persona da Athrun Zala. Ecco, forse è questa l'unica particolarità: una panoramica su entrambe le serie di Gundam SEED e Gundam SEED Destiny, viste con i suoi occhi e raccontate dalla sua bocca. In definitiva, si tratta di un approfondito studio a trecentosessanta gradi del suo personaggio.
Ho preferito perciò non tediare i lettori con dei capitoli lunghi e particolareggiati, concentrandomi piuttosto sui pensieri e, soprattutto, sugli stati d'animo del protagonista.
Non so quanto possa risultare credibile o attendibile questa mia versione di Athrun, mi auguro però di essere per lo meno riuscita a comprenderne, seppur in minima parte, la profondità. Spero non con la cecità propria della sciocca fangirl che sono.
Infine, ringrazio Atlantislux per il betaggio e per i preziosi consigli.
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Yzak Joule




La prima persona che conobbi all’accademia militare fu Yzak. Era figlio della rappresentante di Martius al Consiglio di PLANT, tale Ezalia Joule, stretta collaboratrice di mio padre. Capii subito la loro parentela per via dello stesso, insolito colore di capelli, candidi come la neve, e della grande somiglianza fisica. Yzak era però più alto, e la sua bella figura non passava affatto inosservata quando si trovava a sfilare nei corridoi. E se pure qualcuno poteva non interessarsi a lui e al suo fisico prestante, di certo non poteva non notare quell’albino dallo sguardo gelido e dall’imprecazione facile. A pensarci bene, solo ora mi rendo conto di come, Kira Yamato a parte, le persone a cui tutt’oggi sono maggiormente legato siano soggette, nei momenti di rabbia, a ringhiare parole poco gentili quasi ad ogni respiro.

   Yzak ed io non potevamo essere più diversi. E, al contempo, tanto simili.

   Mi bastò pochissimo per capire che dietro quegli occhi di ghiaccio si nascondeva invece uno di quei fuochi che difficilmente si sarebbero estinti. Metteva se stesso in tutto quello che faceva, e questo era un bel problema, perché io lo superavo quasi in ogni campo senza grandi difficoltà. L’unica volta che mi ritrovai dietro di lui, fu perché svolsi l’esame di abilità di tiro con la febbre. La cosa lo mandò ancora più in bestia. Non mi piaceva vantarmi dei punteggi che ottenevo, e a dirla tutta a volte nemmeno mi curavo di annotarli, perché sapevo che prima o poi Yzak sarebbe venuto a rinfacciarmeli.

   Eravamo bravi nelle stesse discipline, e questo lui lo vedeva come un affronto, soprattutto perché io ero più giovane di lui. Urlava ai quattro venti che mi detestava. Sapevo che non era vero. Lo sapeva anche lui, e negli anni a venire sarebbe stato costretto a dimostrarlo in più di un’occasione, un grande smacco al suo incrollabile orgoglio. Quanto a me, non avevo alcuna ragione per odiarlo.

   «Yzak, cerca di metterci più impegno», lo riprese una volta uno dei nostri istruttori. Già questo era bastato ad innervosirlo, ma fu quando si sentì dire che avrebbe dovuto prendere me come esempio che mi ritrovai nei guai.

   Quella sera venne a cercarmi e, sebbene un mio compagno di stanza provò a dividerci, iniziammo a picchiarci come bambini, attorniati da altri ragazzi che assistevano allo scontro. Dopo quella volta, ci intendemmo alla perfezione: lui rimase irascibile e mal disposto nei miei riguardi, io imparai a raccogliere le sue violente lamentele come una dimostrazione della mia superiorità. Non ricorremmo più alle mani, perché il nostro campo di battaglia era tornato ad essere l’addestramento, ed entrambi ci ammazzavamo di fatica per avere la meglio sull’altro.

   Alla fine dei corsi, sette mesi dopo, Yzak risultò il secondo cadetto dell’accademia, uno dei migliori che fossero mai usciti da lì, tanto che gli fu consegnata un’uniforme rossa, ambito premio che spettava unicamente ai soldati scelti. Fu una magra consolazione per lui: il primo in graduatoria, l’unico che era riuscito a batterlo, fui io.

   Alla cerimonia di diploma, gli offrii la mano, e lui mi voltò le spalle e se ne andò senza stringerla.






  
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