Some Mad Hope
Aprii gli occhi
malvolentieri, in seguito all’ennesima lancinante fitta alla testa. Con
una mano mi scostai dalla fronte i capelli sudati, mentre con l’altra
cercai a tentoni il barattolo degli antidolorifici.
Dopo un attimo questo cadde a terra con un tonfo sordo, rovesciando sul
pavimento una moltitudine di minuscole compresse rosate. Mi alzai controvoglia
e le raccolsi rapidamente, poi, in barba all’igiene, ne misi due in
bocca.
Fui tentato di sdraiarmi
nuovamente sul letto e riprendere sonno, ma le zampe di Edward VIII che
graffiavano insistentemente la porta mi fecero desistere.
Fu così che, per
l’ultima volta, mi svegliai la mattina del ventisette ottobre, nel
centoquarantasettesimo anno dopo la proclamazione d’unità del
sacro impero Britannico Boreale; erano le quattro e
ventitré minuti e il calendario affisso alla parete mi informava
che il sole sarebbe sorto esattamente dopo un’ora.
Dischiusi la porta
permettendo a Edward di entrare nella stanza. Lui, dopo essersi strusciato con
gratitudine sulle mie gambe, raggiunse miagolante la scrivania. Mi
lanciò uno sguardo di disappunto che non seppi interpretare
diversamente, poi, con un balzo, saltò sul ripiano e si
acciambellò accanto alla macchina da scrivere.
« Hai capito male, bello
» sospirai, scuotendo energicamente la testa. « Il sottoscritto ha
delle questioni importanti da sbrigare, credo che oggi la scrittura
passerà in secondo piano ».
A quel tempo ero pienamente
convinto che Edward fosse la controparte felina della mia coscienza: per quanto
potesse esserlo un gatto, era decisamente puntiglioso ed insistente e, cosa
più importante, non dimenticava mai
di richiamarmi al dovere.
L’avevo ricevuto in
dono da mio fratello, poco prima che ci perdessimo di vista. Avevo conseguito da
pochi mesi una laurea alla London School of Journalism, non a pieni voti
ma con risultati accettabili, ed ero stato assunto come tirocinante presso il Modern World Journal. Adrian
aveva insistito per festeggiare in qualche modo l’avvenimento e,
nonostante la mia reticenza, mi era piombato in casa con il suddetto felino in
una gabbietta.
« È un regalo,
sai, per la laurea » aveva detto. « Sei sempre così
asociale… vedrai che ti terrà compagnia ». Io mi ero
limitato a sollevare le sopracciglia, espressione stessa della
perplessità.
« Uh, si chiama Edward,
Edward VIII » aveva continuato. Per un attimo ero stato tentato di
chiedere che fine avessero fatto i primi sette, ma Adrian mi aveva sorriso in modo disarmante.
Quello era stato il nostro
ultimo incontro, prima del suo trasferimento nelle ex-colonie africane di Nuova
Hong Kong. Poi era sparito nel nulla.
Quanto a me, avevo lasciato
il Modern World Journal dopo un anno di faticoso ed
umiliante tirocinio, a favore del tanto agognato impiego nel prestigioso Steam Post.
Nell’ultimo decennio
erano scoppiati numerosi tafferugli e rivolte armate lungo tutta la linea
equatoriale; la maggior parte di essi era stata rivendicata da un misterioso
gruppo terroristico, la cui missione, però, era alquanto
chiara: rovesciare l’impero Britannico Boreale partendo dai suoi
confini; con lo scopo di documentare parte di tali scontri, il sottoscritto era
stato quindi spedito a Singapore, nella terra che un tempo veniva chiamata
Malesia, in qualità di corrispondente.
Ed era stato lì,
esattamente cinque mesi, diciotto giorni e sette ore dopo il mio arrivo, che
era avvenuto il Fatto.
Il Fatto, se così
vogliamo continuare a chiamarlo, era il reale motivo della mia levataccia
mattutina, quel ventisette ottobre. Non il lancinante dolore alla testa,
né le compresse sparse sul mio scendiletto, né tanto meno le
unghie di Edward che grattavano la pesante porta in mogano. Solo il Fatto.
Non nego che tutti questi
elementi avessero avuto una discreta influenza sul mio risveglio, ma se nulla
di tutto ciò fosse accaduto, il mio rarissimo pendolo a propulsione
magnetica in ferro e lega di titanio avrebbe risuonato possentemente in tutta
la casa, alle cinque e zero minuti in punto.
Per questo semplice motivo mi
apprestai a disinnescarne il meccanismo, evitando così di svegliare
l’intero palazzo anzitempo. Poi, fedelmente seguito da Ed, mi diressi in
bagno portando con me la lampada ad olio accesa poco prima. Faceva troppo
freddo ed io, molto probabilmente, ero troppo pigro per uscire dal mio appartamento
ed aprire la valvola del sistema energetico a vapore che, in ogni caso, si
trovava semplicemente sul pianerottolo. Ergo, sarei rimasto al buio e al gelo
ancora per parecchi minuti.
Cercai di non dar peso
all’immagine riflessa nello specchio, ma fu impossibile. Il mio volto,
reso ancora più spettrale dalla tremolante e fioca luce della lampada,
mi guardava inespressivo, mentre due profonde occhiaie violacee mi cerchiavano
pesantemente gli occhi. Tra gli scomposti ciuffi di capelli neri che mi ricadevano
sulla fronte, non fui affatto stupito di vedere numerosi fili bianchi; parlando
con uno psichiatra della Albrecht
Inc. mesi addietro, ero stato informato che stress e depressione, talvolta,
potevano manifestarsi anche sotto quell’aspetto.
Marcate rughe
d’espressione, sguardo spento, capelli bianchi, colorito malsano…
non ero certo un bello spettacolo, nemmeno per me stesso: avevo ventisei anni e
l’aspetto di un ultraquarantenne. E a proposito
di psichiatria, ecco che sotto lo specchio, sullo stesso ripiano del lavabo, mi
attendeva pazientemente la mia ultima confezione di Paroxetina.
Con una smorfia di
disappunto, ripresi la mia routine mattutina. Scostai i capelli poco sopra
l’orecchio destro, rivelando l’assenza di cute; al suo posto si
trovava una lucida e ricurva lamina di platino, di forma squadrata, grande
all’incirca come il palmo di una mano. Ai quattro angoli erano visibili
delle minuscole viti di colore scuro, mentre al centro era impresso il nome
della casa farmaceutica produttrice: Albrecht Inc.
Tutto nella norma.
Il Generatore Telencefalico Schreiber ad
impulsi neuromuscolari non presentava graffi o lesioni, e, per quello che
valeva, il fatto che fossi ancora in vita non faceva supporre guasti interni.
Ironicamente pensai che
sarebbe stato impossibile che il Generatore facesse ancora più danni di
quelli che gli scienziati della Albrecht
Inc. mi avevano causato installandomelo. Certo, mi permetteva di vivere,
respirare, pensare… ma il prezzo da pagare era troppo alto.
La mia vita era finita e
ricominciata a Singapore, due anni prima, con il famoso attacco terroristico
alla sede locale dello Steam Post, da me denominato
il Fatto. Alle tre e quindici minuti del pomeriggio un boato aveva fatto
tremare la terra, poi l’edificio era quasi crollato, ormai divorato dalle
fiamme. Il sottoscritto aveva avuto la fortuna, o sfortuna, di trovarsi a poche
decine di metri dal palazzo, intento ad ordinare un caffè lungo senza
zucchero. Non ero stato coinvolto nell’esplosione, ma l’onda d’urto
mi aveva scaraventato a terra, e una scheggia dei materiali di scarto aveva
raggiunto la mia testa, penetrandomi il cranio.
Ero entrato in uno stato di
coma irreversibile.
Gli operatori del pronto
soccorso mi avevano raccolto e curato le ferite più superficiali, poi si
erano “premurati” di rispedire il mio corpo al mittente.
Non avevo possibilità
di risveglio e, non avendo alcun parente se non il mio irreperibile fratello,
dopo un paio di mesi d’alimentazione artificiale, i medici del Central Middlesex Hospital di
Londra avevano deciso di cedere il mio corpo ad un’importante casa
farmaceutica.
Riprendendo conoscenza avevo
subito pensato al miracolo, ma poco dopo era cominciato l’incubo:
qualcosa era andato storto durante l’operazione e il mio sistema limbico era stato gravemente compromesso.
Mentre ancora mi trovavo in
osservazione presso i laboratori della Albrecht, erano cominciate le mie visioni. Queste si
presentavano più volte al giorno, anticipate da una tremenda nausea e
forti capogiri, e poi… poi li vedevo. I primi tempi ricordo di averle
trovate quasi divertenti, piacevoli ed esaltanti. Durante le visioni le mie
percezioni fisiche e psichiche si ampliavano, il mondo diventava più
luminoso e vivido: per un attimo mi sentivo come se avessi capito ogni cosa
della vita. Non esistevano più confini tra un oggetto e l’altro,
tutto era tutto, e allo stesso tempo conservava la sua individualità.
Poi, qualche giorno dopo
questi primi sintomi, si era presentata quella che avrei sempre considerato
come la mia parte preferita; in seguito ad una vaga sensazione di spaesamento,
mi alienavo completamente dal mondo, per piombare in un affascinante universo
parallelo: quello della mia mente. Rivedevo mio fratello, i miei genitori e
gente che mai avevo incontrato prima, parlavo e ridevo.
Era comunque risultato ovvio
che in preda a tali allucinazioni mi sarebbe stato impossibile vivere
normalmente. Dopo svariate ricerche, gli scienziati della Albrecht erano giunti ad una conclusione: per annullare le
mie visioni era necessario seguire il procedimento opposto, assumendo
giornalmente mescalina sintetica.
Si trattava di un alcaloide
originario dell’America latina che, normalmente, se assunto per via orale
causava forti allucinazioni. Riuscirono a dimostrare che sul mio cervello il
principio attivo otteneva l’effetto opposto, riportando a livelli normali
l’attività cerebrale.
Poteva sembrare che tutto si
fosse sistemato, ma in seguito al mio licenziamento era sopraggiunta la
depressione e con lei le mie visioni avevano cominciato a cambiare. Mi ero
nuovamente rivolto alla casa farmaceutica per un supporto psicologico, ma dopo
pochi colloqui gli psichiatri incaricati si erano limitati a prescrivermi
antidepressivi e raddoppiarmi le dosi di mescalina.
Con il passare dei mesi,
quelli che mi si erano presentati come magnifici sogni, erano lentamente mutati
in incubi. Mostri dall’aspetto terrificante avevano cominciato a popolare
le mie notti e, con la progressiva assuefazione alla mescalina, anche i miei
giorni.
Finalmente, poche settimane
prima di quella gelida mattina d’ottobre, ero riuscito a trovarlo; dopo
mesi di viaggi inutili e vicoli ciechi, mi ero messo in contatto con
l’unica persona che avrebbe potuto evitarmi d’impazzire: il dottor Schreiber, inventore del Generatore Telencefalico.
Non era stata una ricerca
facile. Prima di tutto il dottor Schreiber era stato
espulso dalla casa farmaceutica dopo aver deciso di abbandonare il progetto del
generatore; essendo a conoscenza degli effetti che avrebbe potuto causare se
non impiantato correttamente, aveva deciso di rinunciare ai suoi studi. Il
quadro direttivo, che non doveva aver accettato di buon grado questa decisione,
aveva fatto svolgere un’accurata indagine sul passato lavorativo del
dottore. Quest’ultimo era stato infine radiato dall’albo per via di
un banale cavillo burocratico.
Per mia fortuna avevo
scoperto che Schreiber si trovava ancora in
Inghilterra, ad Ipswich, e l’avevo dunque
tempestato di lettere e telefonate. L’uomo, stanco della mia insistenza,
aveva successivamente acconsentito ad incontrarmi, fissando
l’appuntamento per il giorno ventisette ottobre.
E
così quella mattina, tra l’emicrania e i miagolii di Edward, mi
ritrovai di fronte allo specchio ad elucubrare su come sarebbe potuta cambiare
la mia vita nell’arco di un paio d’ore. Mi lavai la faccia e presi
dall’armadietto la confezione della mescalina sintetica; con mio sommo
dispiacere notai che le capsule restanti erano soltanto due, praticamente
metà di quelle che generalmente assumevo la mattina e un sesto di quelle
che avrei dovuto prendere nell’arco di una giornata.
Sentii
un brivido freddo corrermi lungo tutta la spina dorsale, ma cercai di rimanere
calmo. Ostentando autocontrollo, presi nel palmo della mano quattro compresse
di Paroxetina e le ingoiai senza pensarci due volte.
Quella giornata non ne voleva proprio sapere di cominciare nel migliore dei
modi.
Uscii
dal bagno ed aprii l’unico cassetto della mia scrivania: al suo interno,
fra cartacce e ritagli di giornale, vi erano in bella mostra i miei biglietti
per Ipswich, seconda classe, partenza da Liverpool
Street Station alle cinque e quarantacinque. Rincuorato e tranquillizzato dalla
loro vista, richiusi il cassetto, sospirando rumorosamente.
Non
appena entrai in cucina, capii che il mio stomaco non avrebbe collaborato e,
più precisamente, in quel preciso istante sembrava contorcersi su se
stesso, annodandosi ed avvolgendosi in continuazione.
Mea culpa, ammisi. Nel giro di venti minuti avevo, senza
pensarci, ingurgitato una mole di medicinali non indifferente, minimamente
preoccupato per le sorti del mio stomaco.
Rovesciai
una manciata di croccantini nella ciotola di Edward, poi tornai in camera
scuotendo la testa con fare sconsolato: la mia mente era palesemente altrove.
Mi
vestii rapidamente e senza cura, indossando stivali, un paio di pantaloni
stropicciati e la camicia del giorno prima. Non sarebbe valsa la pena di
toglierne di puliti dall’armadio, pensai. Mi attendevano tre ore di
viaggio su uno dei più scomodi ed affollati treni dell’impero,
dopo questa epocale esperienza avrei avuto comunque l’aria di un
vagabondo insonne.
Afferrai
il pesante cappotto di lana grigia che trovai nel guardaroba, poi presi i
biglietti dal cassetto e li misi nella tasca interna, assicurandomi che
quest’ultima fosse ben chiusa.
Prima
di uscire di casa mi avvolsi attorno al collo una sciarpa scura ed accarezzai
Edward che, come da copione, cominciò a fare le fusa e a miagolare
insistentemente. Ignorandolo richiusi la porta dell’appartamento, diretto
alla Liverpool Street Station.
La raggiunsi dopo venti
minuti di cammino a passo sostenuto, mentre la fredda aria autunnale mi
sferzava violentemente il volto, arrossandomi la pelle. Superai con
tranquillità i droidi della Tech-Poilice,
cercando con lo sguardo il binario numero sette. Una volta individuato il mio
treno, obliterai il biglietto d’andata e vi salii, sperando di trovare
posto.
Mancava ancora un quarto
d’ora alla partenza, per questo i vagoni mi parvero quasi deserti; mi
sedetti nella terza carrozza, scegliendo un sedile accanto al finestrino per
scongiurare eventuali attacchi di claustrofobia.
Spossato ed annoiato al tempo
stesso non riuscii ad impedirmi di prendere sonno e, non appena la mia testa si
posò contro il vetro, venni inghiottito da un profondo torpore.
Mi risvegliai circa
mezz’ora dopo, infastidito dall’insistente borbottio degli altri
passeggeri; il vagone ora brulicava di vita, anche troppo per i miei gusti.
Alla mia destra sedeva una
donna piuttosto anziana, dai lineamenti severi e induriti dal tempo, mentre di
fronte a me si trovava una coppia, un uomo e una donna sulla quarantina.
Tutti avevano caratteristiche
che mi risultarono familiari, ma non seppi definire con precisione cosa: era la stessa sensazione di un
déjà-vu. Continuai a guardarli, convinto di averli già
visti prima di quel momento, ma purtroppo la mia mente non diede alcuna
risposta.
Poi mi accorsi di lui.
Se ne stava svaccato sul
sedile dall’altra parte del corridoio, il suo abbigliamento avrebbe
potuto gareggiare col mio in quanto ad eleganza, e la sua espressione era una
strana combinazione di noia e sconforto; era lui, non vi era ombra di dubbio.
Quell’uomo era mio
fratello, Adrian.
Mi alzai bruscamente, colto
alla sprovvista.
« Figliolo, un po’ di educazione! » borbottò l’anziana alla mia destra. Io
la ignorai e lo raggiunsi con poche falcate.
« A-adrian! » balbettai, artigliandogli una spalla con la mano,
quasi ad impedire una sua fuga. « Cosa ci fai
qui? Ero convinto che tu fossi… » le
parole mi morirono in gola, di fronte al suo sguardo perplesso.
« Come mai sei così agitato, fratellino? » mi chiese, come se si stesse rivolgendo ad un bimbo
di sei anni. « Sono esattamente dove dovrei essere ».
Scossi la testa con vigore,
leggermente stordito dalle sue parole.
« Dovresti essere in
Africa, nelle ex-colonie di Nuova Hong Kong » ribattei, abbassando il
tono della voce. Adrian si strinse nelle spalle, come
se nulla fosse.
« Beh, è
evidente che ora non sono più lì »
aggiunse.
« Potevi avvertirmi, no? »
domandai, arricciando il naso. « So che ti sembrerà strano, ma il
mio numero è sull’elenco telefonico ».
« Diciamo che sono
stato, uh, impossibilitato ».
« Ovvero? » chiesi
scettico, mentre lui scrollava per l’ennesima volta le spalle, dandomi
sui nervi.
« Stai perdendo smalto,
fratellino » mi derise. « Un tempo eri decisamente più
perspicace ».
« Sai
com’è, un tempo una parte del mio cervello non era ancora stata
rimpiazzata da un Generatore Telencefalico ».
La notizia non lo
turbò minimamente, anzi, si limitò a scompigliarsi con nonchalance
la zazzera color paglia.
« Smettila di
giustificarti » rispose. « Questo non ti rende onore ».
« Non mi sto… oh, insomma! »
esclamai frustrato. « Riappari dopo anni e
l’unica cosa che riusciamo a fare è litigare? ».
Adrian mi rivolse il suo particolarissimo sorriso sghembo,
rivelando una fila di denti ingialliti dal fumo.
« Siamo fratelli e i
fratelli fanno questo: litigano ».
« Sì, nella tua
contorta idea del mondo » gli feci notare. «
Da quanto sei qui? Cosa è successo nelle colonie? ».
« Come dire… sono
qui da un po’ di tempo, ma è come se ci fossi sempre stato »
mormorò sibillino. « Per quanto riguarda
le colonie, uh, niente di che. Un po’ di questo e un po’ di quello,
come ovunque del resto ».
All’udire queste
parole, inarcai entrambe le sopracciglia con aria scettica.
« Come, prego? Devo piangere in cinese per chiederti di
essere più preciso? ».
« Ehi, ehi, il Generatore Telencefalico
ti ha fatto diventare acido, lo sai? » disse
lui, stiracchiandosi pigramente.
« No, Adrian, sei tu che mi fai diventare acido » ribattei,
puntandogli un dito contro come quando avevamo dieci anni. « Sono tuo
fratello, è normale che io sia… stupito, ecco tutto ».
« Vuoi dirmi che non te ne sei accorto? » mi chiese ironico, indicando con la testa la donna
che prima mi era seduta accanto.
Mi voltai e la studiai con
attenzione per una manciata di secondi.
« Accorto di cosa? »
domandai in seguito, leggermente perplesso.
« Andiamo, spremi un
po’ quelle meningi meccaniche che ti ritrovi » mi esortò,
con una nota di fastidio nella voce. « Non posso
credere che la tua memoria sia così corta! ».
« Mh…
mi pare di averla già vista altrove, nulla più » tentai.
« Bingo fratellino, bingo!
» esclamò Adrian,
lasciandosi andare ad una risata sguaiata. «
Vedi che applicandoti riesci ad ottenere dei discreti risultati? Ah, non
capirò mai come hai fatto a laurearti alla London School
of Journalism con la mente
chiusa che ti ritrovi… ».
« Simpatico come sempre
».
« Già,
già » annuì. « Ma continua a
guardarla. Ora sai di averla già vista altrove… ma dove? Forza, fruga nella tua memoria ».
Cercai di concentrarmi, ma fu
del tutto inutile. Più mi sforzavo, più i miei ricordi mi
sfuggivano dalle mani, rapidi come pesci.
« Mi… mi arrendo
» sospirai, dopo un’attenta analisi.
« Uh, ma come? Vergogna »
mi schernì. « Riproviamo, guarda quella
coppietta. Allora, ti dice nulla? ».
« Sembrano… no,
impossibile » mormorai. « Non possono- ».
« Sì invece,
sono proprio loro ».
« Sono morti » gli feci notare. « Mamma e papà sono morti otto anni fa. Quei due
gli somigliano solo vagamente ».
Adrian ridacchiò, estraendo una sigaretta dal
taschino sdrucito ed accendendola.
« Vagamente, uh? »
chiese. « Sei un appassionato di eufemismi, vedo ».
« Senti, smettila di
scherzare » gli dissi francamente, innervosito. «
A che gioco stiamo giocando? ».
« Io non sto giocando, e tu? ».
« Io… Adrian! » esalai frustrato. «
Non puoi dirmi semplicemente cosa sta succedendo, senza giri di parole?
».
Mio fratello scosse la testa
e si alzò; ora i nostri occhi erano alla stessa altezza.
« Ascoltami bene,
perché non lo ripeterò certo due volte » scandì
lentamente. Io annuii, facendogli cenno di continuare. « Quei due non
sembrano mamma e papà... ».
« Ecco! E io cosa dic- ».
« Vuoi stare zitto un attimo? Vorrei spiegarti la cosa
senza interruzioni di sorta » ringhiò,
afferrandomi per il collo del cappotto. « Ora ho
perso il filo de discorso, contento, fratellino? Dov’ero arrivato? Ah,
sì. Beh, quei due non sembrano mamma e papà, e sai perché?
Perché, uh, loro sono mamma e
papà ».
« Ma sono mor- ».
« Ci sto arrivando, con calma! »
mi zittì. « E sì, genio, sono
morti. Mentre che mi dici della signora che ti sedeva accanto? Solo una parola:
nonna. Prima che tu me lo chieda, sappi che è morta pure lei ».
Sentii la bocca asciugarsi
progressivamente, ma nonostante questo mi sforzai di parlare.
« Che cazzata »
sibilai, liberandomi dalla sua presa. « Ora
verrai a dirmi che sei morto pure tu? ».
« Beh, uh, un motivo
c’era se non mi sono più fatto sentire » disse, sorridendo
sardonicamente.
« Mi sono stancato
» esclamai stizzito, voltandogli le spalle. « Questo scherzo non è divertente… ».
« E ora, uh, che cosa stai cercando di fare? ».
« Di andarmene! »
risposi, litigando con la maniglia che portava al vagone precedente. « Se
solo questa porta si volesse aprire… ».
Adrian scoppiò nuovamente in una fragorosa risata.
« Quella porta non si
può aprire, smettila di scuoterla » mi disse. «
Io sono morto, ok? Mi ascolti, uh? ».
Sospirai scoraggiato,
lasciando perdere la maniglia. Il cuore mi batteva furiosamente nel petto,
mentre gelide gocce di sudore avevano cominciato a scorrermi lungo la schiena;
misi le mani in tasca, cercando furiosamente qualche vecchia compressa di Xanax, ma
nulla.
« Sì…
sì, ti sto ascoltando » balbettai, appoggiandomi alla parete per
non perdere l’equilibrio. « Sto solo… ».
« Un attacco d’ansia? Eh, beh, immagino sia
normale per te… sei sempre stato un tipo emotivo ».
« Basta »
implorai, avvertendo una lancinante fitta al petto. «
Perché mi stai facendo questo? Non è… ».
« Divertente? » chiese. « L’hai già detto. Altri commenti?
».
« Adrian,
ti prego, smettila ».
« Io sono morto, loro sono morti… e tu? Sei vivo? Fratellino, dimmelo. Sei vivo?
».
Riaprii gli occhi nel vagone
semivuoto, il cuore che mi pulsava in gola e i capelli appiccicati alla fronte
sudata. Mi guardai attorno, allarmato.
Di Adrian
non vi era neanche l’ombra, così come dei miei genitori o di mia
nonna. Dal fondo del corridoio, invece, un uomo in divisa si stava dirigendo
verso di me con aria arcigna.
« Cosa ci fa ancora qui? »
mi apostrofò, sgarbato. « Siamo ad Ipswich da almeno un’ora: questo è il
capolinea e il treno non ripartirà fino a questa sera! ».
Sbattei nuovamente le
palpebre, cercando di realizzare dove mi trovavo e cosa mi stava accadendo; a
quanto pareva ero giunto a destinazione.
Sempre sotto lo sguardo
insistente dell’uomo, mi alzai in piedi barcollando, ancora stranito dal
sogno fatto poco prima, poi scesi rapidamente dal treno, deciso a mettere
quanta più distanza fa me e il mezzo.
Le mani mi tremavano ancora e
i miei occhi non potevano fare a meno di guizzare da un lato all’altro
della stazione, in cerca di non sapevo nemmeno cosa. La voce di mio fratello,
ancora paurosamente vivida nella mia testa, continuava a risuonarmi nelle
orecchie confondendomi.
Una volta raggiunta
l’uscita mi fermai bruscamente e, urtato in continuazione dal resto dei
passanti, feci un profondo respiro. Ok,
mi dissi. Era il momento di razionalizzare.
Cominciai a ripetermi che si
trattava “solo” di un sogno, nulla più. Probabilmente la
mancanza di mescalina sintetica era stata percepita soltanto a livello
subconscio e si era tradotta in un incubo piuttosto… vivido. Non era da
me spaventarmi per così poco.
Ad onor del vero non
ricordavo nemmeno più di cosa avessi parlato con Adrian,
ma il suo tono, la sua espressione, la sua strafottenza erano ancora lì,
di fronte a me.
Cercai di scacciare questi
pensieri concentrandomi sul mio obbiettivo; estrassi dalla tasca il foglietto
strappato su cui avevo annotato le indicazioni per raggiungere il dottor Schreiber e le confrontai con la strada in cui mi trovavo: Burrell Road.
Per un attimo sembrò
che la fortuna girasse dalla mia parte: l’abitazione di Schreiber non distava più di quattro isolati da
lì. Mi strinsi nel cappotto e, con un sorriso beota stampato sul volto,
mi diressi a sud, verso Belstead Avenue.
Il luogo non era esattamente
come me l’ero immaginato, anche se sarebbe corretto dire che
l’intera città non era come nella mia mente. Abituato
com’ero al caotico centro di Londra, Ipswich mi
apparve come un monocromatico reticolato di villette a schiera identiche,
riprodotte in sequenza fino all’infinito. Non vi era nulla, al di fuori del nome, che differenziasse Halifax Road da Lanecrost Way, o Waltham Close da Ramsey Close.
Trattenni un sorriso,
attraversando il deserto Stoke Park Cross. Il terrore
e l’angoscia che mi avevano attanagliato all’arrivo stavano
lasciando il posto all’adrenalina che, lentamente, cominciava scorrermi
nelle vene. Ogni passo era un passo
in meno che mi distanziava dal mio obbiettivo.
Presto tutto sarebbe finito.
La casa del dottor Schreiber mi colpì per banalità e
insignificanza. Il tetto marrone, i muri color tortora... nessuno avrebbe mai
pensato che al suo interno potesse vivere uno dei più geniali scienziati
dell’impero, poi caduto in disgrazia.
Mi avvicinai alla porta,
spavaldo ed eccitato, e bussai con vigore. Il rumore delle mie nocche contro il
legno scuro risuonò in tutta la via, apparentemente senza attirare
l’attenzione di nessuno.
Non ottenendo risposta,
bussai nuovamente, questa volta ancora più forte. Attesi un paio di
minuti, ma la casa sembrava abbandonata.
Ero certo si trattasse di
quella giusta, quindi provai ad abbassare la maniglia: era aperto.
L’interno era completamente avvolto dall’ombra ma, notai, sui
mobili non vi era nemmeno un filo di polvere, segno che l’edificio era
abitato.
« Dottor Schreiber? » chiamai, leggermente dubbioso. «
Dottor Schreiber, è in casa? ».
Ancora una volta nessuno mi
rispose.
« Dottore? » chiamai nuovamente,
a voce più alta. « Sono qui per
l’appuntamento che avevamo concordato, se lo ricorda? Le ho parlato del
mio Generatore Telencefalico ».
« Ah, è soltanto
lei » commentò una voce, proveniente dal soggiorno. « E io
che pensavo fosse qualcuno della Albrecht.
Che noia ».
« Schreiber? » domandai. « È
lei? »
« Per Giove, chi diavolo dovrei essere? » borbottò offeso, alzandosi dall’enorme
poltrona ed accendendo una lampada. « Avanti,
non farmi perdere tempo. Cosa vuoi? ».
Tremai impercettibilmente
nell’osservare l’uomo che mi trovavo d’innanzi. Il Dottor Schreiber era alto non meno di un metro e novanta, largo e
pesante quanto un armadio, ed ora mi fissava con occhi piccoli e freddi.
« Lei… sa quanta fatica ho fatto per trovarla,
vero? ».
« Certo, moccioso » mi apostrofò. « L’unico motivo per cui ho accettato di vederti
è che se sei arrivato fin qui devi avere un motivo più che
valido. Ma bada bene, ciò non significa che sarò disposto a
perdere inutilmente il mio tempo con te ».
Annuii meccanicamente, rimanendo
immobile con la bocca spalancata.
« Avanti, parla! » mi
incalzò con tono brusco. « Ti ho appena
detto che non ho tutto il giorno da dedicarti! ».
« O-ovvio,
dottore » balbettai. « Sono qui per
parlare del Generatore Telencefalico, come le avevo
accennato. Vede, mi è stato installato non più di due anni fa, in
seguito ad un incidente ».
« Non posso farci nulla
» mi interruppe.
« Ma non sa nemmeno cosa le voglio dire! » protestai. « Mi
ascolti! ».
« So cosa mi vuoi dire,
ragazzino » disse. « Sono nato prima di
te, sai? ».
« Allora avanti, mi
illumini » lo sfidai, mettendo momentaneamente da parte il mio timore.
« Sono sorte delle complicazioni, non è
così? Quegli… idioti della Albrecht Inc. ti hanno
installato il Generatore per curarti, ma hanno finito per fare ancora
più danni ».
Mi ritrovai nuovamente ad
annuire, spiazzato.
« Durante
l’operazione il mio sistema limbico è
stato rovinato » rivelai. « All’inizio non pareva nulla di
strano, ma poi… sono cominciate ».
« Cominciate cosa?
».
« Le visioni, le allucinazioni. E gli incubi. Per
poterli tenere sotto controllo sono costretto ad assumere quantità
esorbitanti di mescalina sintetica, l’unico modo che ho per rimanere
lucido. Purtroppo gli anni passano ed il mio copro comincia ad assuefarsi ».
L’uomo scrollò
le spalle, voltandosi.
« Non è un
problema mio, non capisco perché tu sia venuto da me ».
« Lei non
capisce… » mormorai. « La mia vita
è un incubo, letteralmente. Lei è laureato in medicina, immagino
che conosca gli effetti di un cosiddetto “Bad Trip”. Forza,
immagini. Soffro di depressione e col passare del tempo non riesco ad avere
alcun controllo sulla mia mente ».
« Te lo ripeto, questo non è affar mio! ».
« Ma lei è l’inventore del Generatore! Lei
è un genio! » mi ritrovai a ruggire.
« Deve conoscere qualche modo per... non so, sistemare le cose ».
« Mi spiace, ma dietro il mio abbandono
c’è un motivo ben preciso: conosco da molto i danni che il
Generatore può causare. Non c’è alcuna soluzione ».
Deglutii a fatica,
indietreggiando di qualche passo.
« No, non è
possibile » negai, sentendo l’aria venire meno. «
Sto impazzendo, capisce? Io… ».
« Credimi »
aggiunse con voce grave. « La tua unica
possibilità è vivere, continuando a distruggere il tuo corpo con
dosi sempre maggiori di mescalina. Non credo tu abbia altra scelta ».
Rimasi in silenzio,
riflettendo su ciò che mi aspettava. Mi rifiutavo di riconoscere tanto
facilmente la sconfitta, non era da me. Tutte le speranze e le aspettative
delle ultime ore si erano sgonfiate, cadendo su di me come il cadavere di un
enorme pallone aerostatico, finendo per soffocarmi.
« E se… lo disattivasse? »
domandai, sentendo la bocca sempre più secca. «
Se lo spegnesse, se rendesse inutilizzabile il generatore? ».
Schreiber attese un attimo.
« In tal caso le tue
visioni cesserebbero » disse. « Ma tu moriresti ».
« Fa male? » chiesi
piano, con un filo di voce.
« Morire, intendi? » mi
domandò lui, con una nota di sarcasmo nella voce. « Non so, io sono ancora vivo ».
« E se mi addormentasse? Mi potrebbe anestetizzare, così
io dormirei e lei potrebbe disattivare il generatore ».
« Tu sei pazzo! Non posso fare questo, sarebbe… ».
« Un suicidio assistito, nulla più. È
contemplato dal comma F della quarta regolamentazione 18/254c. sull’etica
e sul comportamento degli operatori sanitari. Vi ho scritto un articolo, anni
fa » chiosai, sciorinando le mie conoscenza giuridiche.
« E poi, come dice lei, sono pazzo. Non lo nego ».
Il dottore si voltò a
guardarmi, sollevando un sopracciglio.
« Credi che una semplice legge possa essere più
importante della mia coscienza? » mi chiese.
« Questo non lo so, ma
non certo che lei si senta in colpa » tentai bluffando. « E ha
ragione: se solo si fosse battuto con maggior convinzione contro
« Non giocare con me, ragazzo! »
tuonò improvvisamente. « Vuoi morire?
Allora esci! ».
« C-come? »
domandai interdetto.
« Esci da qui »
ripeté lui. « Vai in strada, lanciati
sotto un treno, tagliati le vene, buttati da un grattacielo. Se sei stanco
della tua vita, non vedo perché tu mi debba angustiare! ».
« Io… »
tentennai. « Non lo so. Credo, sì,
insomma… penso di aver paura » ammisi.
L’uomo trattenne a
stento una risata.
« Come volevasi dimostrare! ».
« È proprio per
questo che le sto chiedendo aiuto » cercai nuovamente di spiegare. « Con lei tutto ha avuto inizio e tutto finirà,
capisce? È un cerchio che si chiude. Forse sono pazzo come dice lei, ma
quello che è certo è che lo diventerò se non vuole
disattivare il Generatore. La prego, questa è
la sua possibilità di… redenzione
».
Schreiber tacque, soppesando le mie parole.
« Una volta fatto ciò potrà dire addio ai
fantasmi che la seguono da anni, esattamente come farò io. Non desidera
anche lei una vita migliore? ».
« Ne sei sicuro? » mi
chiese, dopo una risata spaventosamente simile ad un latrato. « Sei certo di preferire la morte? ».
« Mai stato più
certo in vita mia » risposi.
Schreiber sospirò pesantemente, scrutandomi con
attenzione. Mi morsi l’interno della bocca per impedirmi di urlare, ma fu
quasi inutile; infatti, pochi attimi dopo, un singhiozzo poco virile mi
sfuggì dalle labbra.
« Seguimi
» disse Schreiber, dopo una lunga paura.
« Il mio laboratorio si trova in cantina ».
« Solo… solo
un’ultima cosa » dissi, fermandolo. « 17, Finchley
Road, Londra ».
« E cosa sarebbe? »
domandò scettico.
« È il mio indirizzo, vi troverà il mio
gatto, Edward VIII. Si prenda cura di lui ».
Mi sdraiai sul lettino con
gesti meccanici, poi, lentamente chiusi gli occhi.
Non stava per accadere nulla
di strano, mi dissi, era solo la logica conclusione dei fatti. Alla vita
seguiva la morte, così come al termine del giorno vi era la notte.
Non avevo ragione di aver
paura: in quel momento ciò che mi attendeva non era altro che un sonno
buio ed ovattato, finalmente privo di sogni.