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Autore: Mala Mela    17/10/2009    1 recensioni
Aprii gli occhi malvolentieri, in seguito all’ennesima lancinante fitta alla testa. Con una mano mi scostai dalla fronte i capelli sudati, mentre con l’altra cercai a tentoni il barattolo degli antidolorifici. Dopo un attimo questo cadde a terra con un tonfo sordo, rovesciando sul pavimento una moltitudine di minuscole compresse rosate. Mi alzai controvoglia e le raccolsi rapidamente, poi, in barba all’igiene, ne misi due in bocca. Fui tentato di sdraiarmi nuovamente sul letto e riprendere sonno, ma le zampe di Edward VIII che graffiavano insistentemente la porta mi fecero desistere.
Fu così che, per l’ultima volta, mi svegliai la mattina del ventisette ottobre, nel centoquarantasettesimo anno dopo la proclamazione d’unità del sacro impero Britannico Boreale; erano le quattro e ventitré minuti e il calendario affisso alla parete mi informava che il sole sarebbe sorto esattamente dopo un’ora.
Questa storia si è classificata prima al contest "A me gli occhi".
Genere: Malinconico, Drammatico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Some Mad Hope

 

 

Some  Mad  Hope

 

 

 

 

Aprii gli occhi malvolentieri, in seguito all’ennesima lancinante fitta alla testa. Con una mano mi scostai dalla fronte i capelli sudati, mentre con l’altra cercai a tentoni il barattolo degli antidolorifici. Dopo un attimo questo cadde a terra con un tonfo sordo, rovesciando sul pavimento una moltitudine di minuscole compresse rosate. Mi alzai controvoglia e le raccolsi rapidamente, poi, in barba all’igiene, ne misi due in bocca.

Fui tentato di sdraiarmi nuovamente sul letto e riprendere sonno, ma le zampe di Edward VIII che graffiavano insistentemente la porta mi fecero desistere.

Fu così che, per l’ultima volta, mi svegliai la mattina del ventisette ottobre, nel centoquarantasettesimo anno dopo la proclamazione d’unità del sacro impero Britannico Boreale; erano le quattro e ventitré minuti e il calendario affisso alla parete mi informava che il sole sarebbe sorto esattamente dopo un’ora.

Dischiusi la porta permettendo a Edward di entrare nella stanza. Lui, dopo essersi strusciato con gratitudine sulle mie gambe, raggiunse miagolante la scrivania. Mi lanciò uno sguardo di disappunto che non seppi interpretare diversamente, poi, con un balzo, saltò sul ripiano e si acciambellò accanto alla macchina da scrivere.

« Hai capito male, bello » sospirai, scuotendo energicamente la testa. « Il sottoscritto ha delle questioni importanti da sbrigare, credo che oggi la scrittura passerà in secondo piano ».

A quel tempo ero pienamente convinto che Edward fosse la controparte felina della mia coscienza: per quanto potesse esserlo un gatto, era decisamente puntiglioso ed insistente e, cosa più importante, non dimenticava mai di richiamarmi al dovere.

L’avevo ricevuto in dono da mio fratello, poco prima che ci perdessimo di vista. Avevo conseguito da pochi mesi una laurea alla London School of Journalism, non a pieni voti ma con risultati accettabili, ed ero stato assunto come tirocinante presso il Modern World Journal. Adrian aveva insistito per festeggiare in qualche modo l’avvenimento e, nonostante la mia reticenza, mi era piombato in casa con il suddetto felino in una gabbietta.

« È un regalo, sai, per la laurea » aveva detto. « Sei sempre così asociale… vedrai che ti terrà compagnia ». Io mi ero limitato a sollevare le sopracciglia, espressione stessa della perplessità.

« Uh, si chiama Edward, Edward VIII » aveva continuato. Per un attimo ero stato tentato di chiedere che fine avessero fatto i primi sette, ma Adrian mi aveva sorriso in modo disarmante.

Quello era stato il nostro ultimo incontro, prima del suo trasferimento nelle ex-colonie africane di Nuova Hong Kong. Poi era sparito nel nulla.

Quanto a me, avevo lasciato il Modern World Journal dopo un anno di faticoso ed umiliante tirocinio, a favore del tanto agognato impiego nel prestigioso Steam Post.

Nell’ultimo decennio erano scoppiati numerosi tafferugli e rivolte armate lungo tutta la linea equatoriale; la maggior parte di essi era stata rivendicata da un misterioso gruppo terroristico, la cui missione, però, era alquanto chiara: rovesciare l’impero Britannico Boreale partendo dai suoi confini; con lo scopo di documentare parte di tali scontri, il sottoscritto era stato quindi spedito a Singapore, nella terra che un tempo veniva chiamata Malesia, in qualità di corrispondente.

Ed era stato lì, esattamente cinque mesi, diciotto giorni e sette ore dopo il mio arrivo, che era avvenuto il Fatto.

Il Fatto, se così vogliamo continuare a chiamarlo, era il reale motivo della mia levataccia mattutina, quel ventisette ottobre. Non il lancinante dolore alla testa, né le compresse sparse sul mio scendiletto, né tanto meno le unghie di Edward che grattavano la pesante porta in mogano. Solo il Fatto.

Non nego che tutti questi elementi avessero avuto una discreta influenza sul mio risveglio, ma se nulla di tutto ciò fosse accaduto, il mio rarissimo pendolo a propulsione magnetica in ferro e lega di titanio avrebbe risuonato possentemente in tutta la casa, alle cinque e zero minuti in punto.

Per questo semplice motivo mi apprestai a disinnescarne il meccanismo, evitando così di svegliare l’intero palazzo anzitempo. Poi, fedelmente seguito da Ed, mi diressi in bagno portando con me la lampada ad olio accesa poco prima. Faceva troppo freddo ed io, molto probabilmente, ero troppo pigro per uscire dal mio appartamento ed aprire la valvola del sistema energetico a vapore che, in ogni caso, si trovava semplicemente sul pianerottolo. Ergo, sarei rimasto al buio e al gelo ancora per parecchi minuti.

Cercai di non dar peso all’immagine riflessa nello specchio, ma fu impossibile. Il mio volto, reso ancora più spettrale dalla tremolante e fioca luce della lampada, mi guardava inespressivo, mentre due profonde occhiaie violacee mi cerchiavano pesantemente gli occhi. Tra gli scomposti ciuffi di capelli neri che mi ricadevano sulla fronte, non fui affatto stupito di vedere numerosi fili bianchi; parlando con uno psichiatra della Albrecht Inc. mesi addietro, ero stato informato che stress e depressione, talvolta, potevano manifestarsi anche sotto quell’aspetto.

Marcate rughe d’espressione, sguardo spento, capelli bianchi, colorito malsano… non ero certo un bello spettacolo, nemmeno per me stesso: avevo ventisei anni e l’aspetto di un ultraquarantenne. E a proposito di psichiatria, ecco che sotto lo specchio, sullo stesso ripiano del lavabo, mi attendeva pazientemente la mia ultima confezione di Paroxetina.

Con una smorfia di disappunto, ripresi la mia routine mattutina. Scostai i capelli poco sopra l’orecchio destro, rivelando l’assenza di cute; al suo posto si trovava una lucida e ricurva lamina di platino, di forma squadrata, grande all’incirca come il palmo di una mano. Ai quattro angoli erano visibili delle minuscole viti di colore scuro, mentre al centro era impresso il nome della casa farmaceutica produttrice: Albrecht Inc. Tutto nella norma.

Il Generatore Telencefalico Schreiber ad impulsi neuromuscolari non presentava graffi o lesioni, e, per quello che valeva, il fatto che fossi ancora in vita non faceva supporre guasti interni.

Ironicamente pensai che sarebbe stato impossibile che il Generatore facesse ancora più danni di quelli che gli scienziati della Albrecht Inc. mi avevano causato installandomelo. Certo, mi permetteva di vivere, respirare, pensare… ma il prezzo da pagare era troppo alto.

La mia vita era finita e ricominciata a Singapore, due anni prima, con il famoso attacco terroristico alla sede locale dello Steam Post, da me denominato il Fatto. Alle tre e quindici minuti del pomeriggio un boato aveva fatto tremare la terra, poi l’edificio era quasi crollato, ormai divorato dalle fiamme. Il sottoscritto aveva avuto la fortuna, o sfortuna, di trovarsi a poche decine di metri dal palazzo, intento ad ordinare un caffè lungo senza zucchero. Non ero stato coinvolto nell’esplosione, ma l’onda d’urto mi aveva scaraventato a terra, e una scheggia dei materiali di scarto aveva raggiunto la mia testa, penetrandomi il cranio.

Ero entrato in uno stato di coma irreversibile.

Gli operatori del pronto soccorso mi avevano raccolto e curato le ferite più superficiali, poi si erano “premurati” di rispedire il mio corpo al mittente.

Non avevo possibilità di risveglio e, non avendo alcun parente se non il mio irreperibile fratello, dopo un paio di mesi d’alimentazione artificiale, i medici del Central Middlesex Hospital di Londra avevano deciso di cedere il mio corpo ad un’importante casa farmaceutica. La Albrecht Inc. stava infatti perfezionando sugli esseri umani i primi modelli di Generatori Telencefalici, dei congegni che, sfruttando la naturale energia prodotta da un essere vivente, erano in grado di intervenire sulle parti cerebrali danneggiate, sostituendole.

Riprendendo conoscenza avevo subito pensato al miracolo, ma poco dopo era cominciato l’incubo: qualcosa era andato storto durante l’operazione e il mio sistema limbico era stato gravemente compromesso.

Mentre ancora mi trovavo in osservazione presso i laboratori della Albrecht, erano cominciate le mie visioni. Queste si presentavano più volte al giorno, anticipate da una tremenda nausea e forti capogiri, e poi… poi li vedevo. I primi tempi ricordo di averle trovate quasi divertenti, piacevoli ed esaltanti. Durante le visioni le mie percezioni fisiche e psichiche si ampliavano, il mondo diventava più luminoso e vivido: per un attimo mi sentivo come se avessi capito ogni cosa della vita. Non esistevano più confini tra un oggetto e l’altro, tutto era tutto, e allo stesso tempo conservava la sua individualità.

Poi, qualche giorno dopo questi primi sintomi, si era presentata quella che avrei sempre considerato come la mia parte preferita; in seguito ad una vaga sensazione di spaesamento, mi alienavo completamente dal mondo, per piombare in un affascinante universo parallelo: quello della mia mente. Rivedevo mio fratello, i miei genitori e gente che mai avevo incontrato prima, parlavo e ridevo.

Era comunque risultato ovvio che in preda a tali allucinazioni mi sarebbe stato impossibile vivere normalmente. Dopo svariate ricerche, gli scienziati della Albrecht erano giunti ad una conclusione: per annullare le mie visioni era necessario seguire il procedimento opposto, assumendo giornalmente mescalina sintetica.

Si trattava di un alcaloide originario dell’America latina che, normalmente, se assunto per via orale causava forti allucinazioni. Riuscirono a dimostrare che sul mio cervello il principio attivo otteneva l’effetto opposto, riportando a livelli normali l’attività cerebrale.

Poteva sembrare che tutto si fosse sistemato, ma in seguito al mio licenziamento era sopraggiunta la depressione e con lei le mie visioni avevano cominciato a cambiare. Mi ero nuovamente rivolto alla casa farmaceutica per un supporto psicologico, ma dopo pochi colloqui gli psichiatri incaricati si erano limitati a prescrivermi antidepressivi e raddoppiarmi le dosi di mescalina.

Con il passare dei mesi, quelli che mi si erano presentati come magnifici sogni, erano lentamente mutati in incubi. Mostri dall’aspetto terrificante avevano cominciato a popolare le mie notti e, con la progressiva assuefazione alla mescalina, anche i miei giorni.

Finalmente, poche settimane prima di quella gelida mattina d’ottobre, ero riuscito a trovarlo; dopo mesi di viaggi inutili e vicoli ciechi, mi ero messo in contatto con l’unica persona che avrebbe potuto evitarmi d’impazzire: il dottor Schreiber, inventore del Generatore Telencefalico.

Non era stata una ricerca facile. Prima di tutto il dottor Schreiber era stato espulso dalla casa farmaceutica dopo aver deciso di abbandonare il progetto del generatore; essendo a conoscenza degli effetti che avrebbe potuto causare se non impiantato correttamente, aveva deciso di rinunciare ai suoi studi. Il quadro direttivo, che non doveva aver accettato di buon grado questa decisione, aveva fatto svolgere un’accurata indagine sul passato lavorativo del dottore. Quest’ultimo era stato infine radiato dall’albo per via di un banale cavillo burocratico.

Per mia fortuna avevo scoperto che Schreiber si trovava ancora in Inghilterra, ad Ipswich, e l’avevo dunque tempestato di lettere e telefonate. L’uomo, stanco della mia insistenza, aveva successivamente acconsentito ad incontrarmi, fissando l’appuntamento per il giorno ventisette ottobre.

E così quella mattina, tra l’emicrania e i miagolii di Edward, mi ritrovai di fronte allo specchio ad elucubrare su come sarebbe potuta cambiare la mia vita nell’arco di un paio d’ore. Mi lavai la faccia e presi dall’armadietto la confezione della mescalina sintetica; con mio sommo dispiacere notai che le capsule restanti erano soltanto due, praticamente metà di quelle che generalmente assumevo la mattina e un sesto di quelle che avrei dovuto prendere nell’arco di una giornata.

Sentii un brivido freddo corrermi lungo tutta la spina dorsale, ma cercai di rimanere calmo. Ostentando autocontrollo, presi nel palmo della mano quattro compresse di Paroxetina e le ingoiai senza pensarci due volte. Quella giornata non ne voleva proprio sapere di cominciare nel migliore dei modi.

Uscii dal bagno ed aprii l’unico cassetto della mia scrivania: al suo interno, fra cartacce e ritagli di giornale, vi erano in bella mostra i miei biglietti per Ipswich, seconda classe, partenza da Liverpool Street Station alle cinque e quarantacinque. Rincuorato e tranquillizzato dalla loro vista, richiusi il cassetto, sospirando rumorosamente.

Non appena entrai in cucina, capii che il mio stomaco non avrebbe collaborato e, più precisamente, in quel preciso istante sembrava contorcersi su se stesso, annodandosi ed avvolgendosi in continuazione.

Mea culpa, ammisi. Nel giro di venti minuti avevo, senza pensarci, ingurgitato una mole di medicinali non indifferente, minimamente preoccupato per le sorti del mio stomaco.

Rovesciai una manciata di croccantini nella ciotola di Edward, poi tornai in camera scuotendo la testa con fare sconsolato: la mia mente era palesemente altrove.

Mi vestii rapidamente e senza cura, indossando stivali, un paio di pantaloni stropicciati e la camicia del giorno prima. Non sarebbe valsa la pena di toglierne di puliti dall’armadio, pensai. Mi attendevano tre ore di viaggio su uno dei più scomodi ed affollati treni dell’impero, dopo questa epocale esperienza avrei avuto comunque l’aria di un vagabondo insonne.

Afferrai il pesante cappotto di lana grigia che trovai nel guardaroba, poi presi i biglietti dal cassetto e li misi nella tasca interna, assicurandomi che quest’ultima fosse ben chiusa.

Prima di uscire di casa mi avvolsi attorno al collo una sciarpa scura ed accarezzai Edward che, come da copione, cominciò a fare le fusa e a miagolare insistentemente. Ignorandolo richiusi la porta dell’appartamento, diretto alla Liverpool Street Station.

La raggiunsi dopo venti minuti di cammino a passo sostenuto, mentre la fredda aria autunnale mi sferzava violentemente il volto, arrossandomi la pelle. Superai con tranquillità i droidi della Tech-Poilice, cercando con lo sguardo il binario numero sette. Una volta individuato il mio treno, obliterai il biglietto d’andata e vi salii, sperando di trovare posto.

Mancava ancora un quarto d’ora alla partenza, per questo i vagoni mi parvero quasi deserti; mi sedetti nella terza carrozza, scegliendo un sedile accanto al finestrino per scongiurare eventuali attacchi di claustrofobia.

Spossato ed annoiato al tempo stesso non riuscii ad impedirmi di prendere sonno e, non appena la mia testa si posò contro il vetro, venni inghiottito da un profondo torpore.

Mi risvegliai circa mezz’ora dopo, infastidito dall’insistente borbottio degli altri passeggeri; il vagone ora brulicava di vita, anche troppo per i miei gusti.

Alla mia destra sedeva una donna piuttosto anziana, dai lineamenti severi e induriti dal tempo, mentre di fronte a me si trovava una coppia, un uomo e una donna sulla quarantina.

Tutti avevano caratteristiche che mi risultarono familiari, ma non seppi definire con precisione cosa: era la stessa sensazione di un déjà-vu. Continuai a guardarli, convinto di averli già visti prima di quel momento, ma purtroppo la mia mente non diede alcuna risposta.

Poi mi accorsi di lui.

Se ne stava svaccato sul sedile dall’altra parte del corridoio, il suo abbigliamento avrebbe potuto gareggiare col mio in quanto ad eleganza, e la sua espressione era una strana combinazione di noia e sconforto; era lui, non vi era ombra di dubbio.

Quell’uomo era mio fratello, Adrian.

Mi alzai bruscamente, colto alla sprovvista.

« Figliolo, un po’ di educazione! » borbottò l’anziana alla mia destra. Io la ignorai e lo raggiunsi con poche falcate.

« A-adrian! » balbettai, artigliandogli una spalla con la mano, quasi ad impedire una sua fuga. « Cosa ci fai qui? Ero convinto che tu fossi… » le parole mi morirono in gola, di fronte al suo sguardo perplesso.

« Come mai sei così agitato, fratellino? » mi chiese, come se si stesse rivolgendo ad un bimbo di sei anni. « Sono esattamente dove dovrei essere ».

Scossi la testa con vigore, leggermente stordito dalle sue parole.

« Dovresti essere in Africa, nelle ex-colonie di Nuova Hong Kong » ribattei, abbassando il tono della voce. Adrian si strinse nelle spalle, come se nulla fosse.

« Beh, è evidente che ora non sono più lì » aggiunse.

« Potevi avvertirmi, no? » domandai, arricciando il naso. « So che ti sembrerà strano, ma il mio numero è sull’elenco telefonico ».

« Diciamo che sono stato, uh, impossibilitato ».

« Ovvero? » chiesi scettico, mentre lui scrollava per l’ennesima volta le spalle, dandomi sui nervi.

« Stai perdendo smalto, fratellino » mi derise. « Un tempo eri decisamente più perspicace ».

« Sai com’è, un tempo una parte del mio cervello non era ancora stata rimpiazzata da un Generatore Telencefalico ».

La notizia non lo turbò minimamente, anzi, si limitò a scompigliarsi con nonchalance la zazzera color paglia.

« Smettila di giustificarti » rispose. « Questo non ti rende onore ».

« Non mi sto… oh, insomma! » esclamai frustrato. « Riappari dopo anni e l’unica cosa che riusciamo a fare è litigare? ».

Adrian mi rivolse il suo particolarissimo sorriso sghembo, rivelando una fila di denti ingialliti dal fumo.

« Siamo fratelli e i fratelli fanno questo: litigano ».

« Sì, nella tua contorta idea del mondo » gli feci notare. « Da quanto sei qui? Cosa è successo nelle colonie? ».

« Come dire… sono qui da un po’ di tempo, ma è come se ci fossi sempre stato » mormorò sibillino. « Per quanto riguarda le colonie, uh, niente di che. Un po’ di questo e un po’ di quello, come ovunque del resto ».

All’udire queste parole, inarcai entrambe le sopracciglia con aria scettica.

« Come, prego? Devo piangere in cinese per chiederti di essere più preciso? ».

« Ehi, ehi, il Generatore Telencefalico ti ha fatto diventare acido, lo sai? » disse lui, stiracchiandosi pigramente.

« No, Adrian, sei tu che mi fai diventare acido » ribattei, puntandogli un dito contro come quando avevamo dieci anni. « Sono tuo fratello, è normale che io sia… stupito, ecco tutto ».

« Vuoi dirmi che non te ne sei accorto? » mi chiese ironico, indicando con la testa la donna che prima mi era seduta accanto.

Mi voltai e la studiai con attenzione per una manciata di secondi.

« Accorto di cosa? » domandai in seguito, leggermente perplesso.

« Andiamo, spremi un po’ quelle meningi meccaniche che ti ritrovi » mi esortò, con una nota di fastidio nella voce. « Non posso credere che la tua memoria sia così corta! ».

« Mh… mi pare di averla già vista altrove, nulla più » tentai.

« Bingo fratellino, bingo! » esclamò Adrian, lasciandosi andare ad una risata sguaiata. « Vedi che applicandoti riesci ad ottenere dei discreti risultati? Ah, non capirò mai come hai fatto a laurearti alla London School of Journalism con la mente chiusa che ti ritrovi… ».

« Simpatico come sempre ».

« Già, già » annuì. « Ma continua a guardarla. Ora sai di averla già vista altrove… ma dove? Forza, fruga nella tua memoria ».

Cercai di concentrarmi, ma fu del tutto inutile. Più mi sforzavo, più i miei ricordi mi sfuggivano dalle mani, rapidi come pesci.

« Mi… mi arrendo » sospirai, dopo un’attenta analisi.

« Uh, ma come? Vergogna » mi schernì. « Riproviamo, guarda quella coppietta. Allora, ti dice nulla? ».

« Sembrano… no, impossibile » mormorai. « Non possono- ».

« Sì invece, sono proprio loro ».

« Sono morti » gli feci notare. « Mamma e papà sono morti otto anni fa. Quei due gli somigliano solo vagamente ».

Adrian ridacchiò, estraendo una sigaretta dal taschino sdrucito ed accendendola.

« Vagamente, uh? » chiese. « Sei un appassionato di eufemismi, vedo ».

« Senti, smettila di scherzare » gli dissi francamente, innervosito. « A che gioco stiamo giocando? ».

« Io non sto giocando, e tu? ».

« Io… Adrian! » esalai frustrato. « Non puoi dirmi semplicemente cosa sta succedendo, senza giri di parole? ».

Mio fratello scosse la testa e si alzò; ora i nostri occhi erano alla stessa altezza.

« Ascoltami bene, perché non lo ripeterò certo due volte » scandì lentamente. Io annuii, facendogli cenno di continuare. « Quei due non sembrano mamma e papà... ».

« Ecco! E io cosa dic- ».

« Vuoi stare zitto un attimo? Vorrei spiegarti la cosa senza interruzioni di sorta » ringhiò, afferrandomi per il collo del cappotto. « Ora ho perso il filo de discorso, contento, fratellino? Dov’ero arrivato? Ah, sì. Beh, quei due non sembrano mamma e papà, e sai perché? Perché, uh, loro sono mamma e papà ».

« Ma sono mor- ».

« Ci sto arrivando, con calma! » mi zittì. « E sì, genio, sono morti. Mentre che mi dici della signora che ti sedeva accanto? Solo una parola: nonna. Prima che tu me lo chieda, sappi che è morta pure lei ».

Sentii la bocca asciugarsi progressivamente, ma nonostante questo mi sforzai di parlare.

« Che cazzata » sibilai, liberandomi dalla sua presa. « Ora verrai a dirmi che sei morto pure tu? ».

« Beh, uh, un motivo c’era se non mi sono più fatto sentire » disse, sorridendo sardonicamente.

« Mi sono stancato » esclamai stizzito, voltandogli le spalle. « Questo scherzo non è divertente… ».

« E ora, uh, che cosa stai cercando di fare? ».

« Di andarmene! » risposi, litigando con la maniglia che portava al vagone precedente. « Se solo questa porta si volesse aprire… ».

Adrian scoppiò nuovamente in una fragorosa risata.

« Quella porta non si può aprire, smettila di scuoterla » mi disse. « Io sono morto, ok? Mi ascolti, uh? ».

Sospirai scoraggiato, lasciando perdere la maniglia. Il cuore mi batteva furiosamente nel petto, mentre gelide gocce di sudore avevano cominciato a scorrermi lungo la schiena; misi le mani in tasca, cercando furiosamente qualche vecchia compressa di Xanax, ma nulla.

« Sì… sì, ti sto ascoltando » balbettai, appoggiandomi alla parete per non perdere l’equilibrio. « Sto solo… ».

« Un attacco d’ansia? Eh, beh, immagino sia normale per te… sei sempre stato un tipo emotivo ».

« Basta » implorai, avvertendo una lancinante fitta al petto. « Perché mi stai facendo questo? Non è… ».

« Divertente? » chiese. « L’hai già detto. Altri commenti? ».

« Adrian, ti prego, smettila ».

« Io sono morto, loro sono morti… e tu? Sei vivo? Fratellino, dimmelo. Sei vivo? ».

 

 

Riaprii gli occhi nel vagone semivuoto, il cuore che mi pulsava in gola e i capelli appiccicati alla fronte sudata. Mi guardai attorno, allarmato.

Di Adrian non vi era neanche l’ombra, così come dei miei genitori o di mia nonna. Dal fondo del corridoio, invece, un uomo in divisa si stava dirigendo verso di me con aria arcigna.

« Cosa ci fa ancora qui? » mi apostrofò, sgarbato. « Siamo ad Ipswich da almeno un’ora: questo è il capolinea e il treno non ripartirà fino a questa sera! ».

Sbattei nuovamente le palpebre, cercando di realizzare dove mi trovavo e cosa mi stava accadendo; a quanto pareva ero giunto a destinazione.

Sempre sotto lo sguardo insistente dell’uomo, mi alzai in piedi barcollando, ancora stranito dal sogno fatto poco prima, poi scesi rapidamente dal treno, deciso a mettere quanta più distanza fa me e il mezzo.

Le mani mi tremavano ancora e i miei occhi non potevano fare a meno di guizzare da un lato all’altro della stazione, in cerca di non sapevo nemmeno cosa. La voce di mio fratello, ancora paurosamente vivida nella mia testa, continuava a risuonarmi nelle orecchie confondendomi.

Una volta raggiunta l’uscita mi fermai bruscamente e, urtato in continuazione dal resto dei passanti, feci un profondo respiro. Ok, mi dissi. Era il momento di razionalizzare.

Cominciai a ripetermi che si trattava “solo” di un sogno, nulla più. Probabilmente la mancanza di mescalina sintetica era stata percepita soltanto a livello subconscio e si era tradotta in un incubo piuttosto… vivido. Non era da me spaventarmi per così poco.

Ad onor del vero non ricordavo nemmeno più di cosa avessi parlato con Adrian, ma il suo tono, la sua espressione, la sua strafottenza erano ancora lì, di fronte a me.

Cercai di scacciare questi pensieri concentrandomi sul mio obbiettivo; estrassi dalla tasca il foglietto strappato su cui avevo annotato le indicazioni per raggiungere il dottor Schreiber e le confrontai con la strada in cui mi trovavo: Burrell Road.

Per un attimo sembrò che la fortuna girasse dalla mia parte: l’abitazione di Schreiber non distava più di quattro isolati da lì. Mi strinsi nel cappotto e, con un sorriso beota stampato sul volto, mi diressi a sud, verso Belstead Avenue.

Il luogo non era esattamente come me l’ero immaginato, anche se sarebbe corretto dire che l’intera città non era come nella mia mente. Abituato com’ero al caotico centro di Londra, Ipswich mi apparve come un monocromatico reticolato di villette a schiera identiche, riprodotte in sequenza fino all’infinito. Non vi era nulla, al di fuori del nome, che differenziasse Halifax Road da Lanecrost Way, o Waltham Close da Ramsey Close. 

Trattenni un sorriso, attraversando il deserto Stoke Park Cross. Il terrore e l’angoscia che mi avevano attanagliato all’arrivo stavano lasciando il posto all’adrenalina che, lentamente, cominciava scorrermi nelle vene.  Ogni passo era un passo in meno che mi distanziava dal mio obbiettivo.

Presto tutto sarebbe finito.

La casa del dottor Schreiber mi colpì per banalità e insignificanza. Il tetto marrone, i muri color tortora... nessuno avrebbe mai pensato che al suo interno potesse vivere uno dei più geniali scienziati dell’impero, poi caduto in disgrazia.

Mi avvicinai alla porta, spavaldo ed eccitato, e bussai con vigore. Il rumore delle mie nocche contro il legno scuro risuonò in tutta la via, apparentemente senza attirare l’attenzione di nessuno.

Non ottenendo risposta, bussai nuovamente, questa volta ancora più forte. Attesi un paio di minuti, ma la casa sembrava abbandonata.

Ero certo si trattasse di quella giusta, quindi provai ad abbassare la maniglia: era aperto. L’interno era completamente avvolto dall’ombra ma, notai, sui mobili non vi era nemmeno un filo di polvere, segno che l’edificio era abitato.

« Dottor Schreiber? » chiamai, leggermente dubbioso. « Dottor Schreiber, è in casa? ».

Ancora una volta nessuno mi rispose.

« Dottore? » chiamai nuovamente, a voce più alta. « Sono qui per l’appuntamento che avevamo concordato, se lo ricorda? Le ho parlato del mio Generatore Telencefalico ».

« Ah, è soltanto lei » commentò una voce, proveniente dal soggiorno. « E io che pensavo fosse qualcuno della Albrecht. Che noia ».

« Schreiber? » domandai. « È lei? »

« Per Giove, chi diavolo dovrei essere? » borbottò offeso, alzandosi dall’enorme poltrona ed accendendo una lampada. « Avanti, non farmi perdere tempo. Cosa vuoi? ».

Tremai impercettibilmente nell’osservare l’uomo che mi trovavo d’innanzi. Il Dottor Schreiber era alto non meno di un metro e novanta, largo e pesante quanto un armadio, ed ora mi fissava con occhi piccoli e freddi.

« Lei… sa quanta fatica ho fatto per trovarla, vero? ».

« Certo, moccioso » mi apostrofò. « L’unico motivo per cui ho accettato di vederti è che se sei arrivato fin qui devi avere un motivo più che valido. Ma bada bene, ciò non significa che sarò disposto a perdere inutilmente il mio tempo con te ».

Annuii meccanicamente, rimanendo immobile con la bocca spalancata.

« Avanti, parla! » mi incalzò con tono brusco. « Ti ho appena detto che non ho tutto il giorno da dedicarti! ».

« O-ovvio, dottore » balbettai. « Sono qui per parlare del Generatore Telencefalico, come le avevo accennato. Vede, mi è stato installato non più di due anni fa, in seguito ad un incidente ».

« Non posso farci nulla » mi interruppe.

« Ma non sa nemmeno cosa le voglio dire! » protestai. « Mi ascolti! ».

« So cosa mi vuoi dire, ragazzino » disse. « Sono nato prima di te, sai? ».

« Allora avanti, mi illumini » lo sfidai, mettendo momentaneamente da parte il mio timore.

« Sono sorte delle complicazioni, non è così? Quegli… idioti della Albrecht Inc. ti hanno installato il Generatore per curarti, ma hanno finito per fare ancora più danni ».

Mi ritrovai nuovamente ad annuire, spiazzato.

« Durante l’operazione il mio sistema limbico è stato rovinato » rivelai. « All’inizio non pareva nulla di strano, ma poi… sono cominciate ».

« Cominciate cosa? ».

« Le visioni, le allucinazioni. E gli incubi. Per poterli tenere sotto controllo sono costretto ad assumere quantità esorbitanti di mescalina sintetica, l’unico modo che ho per rimanere lucido. Purtroppo gli anni passano ed il mio copro comincia ad assuefarsi ».

L’uomo scrollò le spalle, voltandosi.

« Non è un problema mio, non capisco perché tu sia venuto da me ».

« Lei non capisce… » mormorai. « La mia vita è un incubo, letteralmente. Lei è laureato in medicina, immagino che conosca gli effetti di un cosiddetto “Bad Trip”. Forza, immagini. Soffro di depressione e col passare del tempo non riesco ad avere alcun controllo sulla mia mente ».

« Te lo ripeto, questo non è affar mio! ».

« Ma lei è l’inventore del Generatore! Lei è un genio! » mi ritrovai a ruggire. « Deve conoscere qualche modo per... non so, sistemare le cose ».

« Mi spiace, ma dietro il mio abbandono c’è un motivo ben preciso: conosco da molto i danni che il Generatore può causare. Non c’è alcuna soluzione ».

Deglutii a fatica, indietreggiando di qualche passo.

« No, non è possibile » negai, sentendo l’aria venire meno. « Sto impazzendo, capisce? Io… ».

« Credimi » aggiunse con voce grave. « La tua unica possibilità è vivere, continuando a distruggere il tuo corpo con dosi sempre maggiori di mescalina. Non credo tu abbia altra scelta ».

Rimasi in silenzio, riflettendo su ciò che mi aspettava. Mi rifiutavo di riconoscere tanto facilmente la sconfitta, non era da me. Tutte le speranze e le aspettative delle ultime ore si erano sgonfiate, cadendo su di me come il cadavere di un enorme pallone aerostatico, finendo per soffocarmi.

« E se… lo disattivasse? » domandai, sentendo la bocca sempre più secca. « Se lo spegnesse, se rendesse inutilizzabile il generatore? ».

Schreiber attese un attimo.

« In tal caso le tue visioni cesserebbero » disse. « Ma tu moriresti ».

« Fa male? » chiesi piano, con un filo di voce.

« Morire, intendi? » mi domandò lui, con una nota di sarcasmo nella voce. « Non so, io sono ancora vivo ».

« E se mi addormentasse? Mi potrebbe anestetizzare, così io dormirei e lei potrebbe disattivare il generatore ».

« Tu sei pazzo! Non posso fare questo, sarebbe… ».

« Un suicidio assistito, nulla più. È contemplato dal comma F della quarta regolamentazione 18/254c. sull’etica e sul comportamento degli operatori sanitari. Vi ho scritto un articolo, anni fa » chiosai, sciorinando le mie conoscenza giuridiche. « E poi, come dice lei, sono pazzo. Non lo nego ».

Il dottore si voltò a guardarmi, sollevando un sopracciglio.

« Credi che una semplice legge possa essere più importante della mia coscienza? » mi chiese.

« Questo non lo so, ma non certo che lei si senta in colpa » tentai bluffando. « E ha ragione: se solo si fosse battuto con maggior convinzione contro la Albrecht Inc. ora io non sarei qui, a chiederle di uccidermi! ».

« Non giocare con me, ragazzo! » tuonò improvvisamente. « Vuoi morire? Allora esci! ».

« C-come? » domandai interdetto.

« Esci da qui » ripeté lui. « Vai in strada, lanciati sotto un treno, tagliati le vene, buttati da un grattacielo. Se sei stanco della tua vita, non vedo perché tu mi debba angustiare! ».

« Io… » tentennai. « Non lo so. Credo, sì, insomma… penso di aver paura » ammisi.

L’uomo trattenne a stento una risata.

« Come volevasi dimostrare! ».

« È proprio per questo che le sto chiedendo aiuto » cercai nuovamente di spiegare. « Con lei tutto ha avuto inizio e tutto finirà, capisce? È un cerchio che si chiude. Forse sono pazzo come dice lei, ma quello che è certo è che lo diventerò se non vuole disattivare il Generatore. La prego, questa è la sua possibilità di… redenzione ».

Schreiber tacque, soppesando le mie parole.

« Una volta fatto ciò potrà dire addio ai fantasmi che la seguono da anni, esattamente come farò io. Non desidera anche lei una vita migliore? ».

« Ne sei sicuro? » mi chiese, dopo una risata spaventosamente simile ad un latrato. « Sei certo di preferire la morte? ».

« Mai stato più certo in vita mia » risposi.

Schreiber sospirò pesantemente, scrutandomi con attenzione. Mi morsi l’interno della bocca per impedirmi di urlare, ma fu quasi inutile; infatti, pochi attimi dopo, un singhiozzo poco virile mi sfuggì dalle labbra.

« Seguimi » disse Schreiber, dopo una lunga paura. « Il mio laboratorio si trova in cantina ».

« Solo… solo un’ultima cosa » dissi, fermandolo. « 17, Finchley Road, Londra ».

« E cosa sarebbe? » domandò scettico.

« È il mio indirizzo, vi troverà il mio gatto, Edward VIII. Si prenda cura di lui ».

 

 

Mi sdraiai sul lettino con gesti meccanici, poi, lentamente chiusi gli occhi.

Non stava per accadere nulla di strano, mi dissi, era solo la logica conclusione dei fatti. Alla vita seguiva la morte, così come al termine del giorno vi era la notte.

Non avevo ragione di aver paura: in quel momento ciò che mi attendeva non era altro che un sonno buio ed ovattato, finalmente privo di sogni. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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