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Autore: Shu    07/06/2005    2 recensioni
Julia. Un bar, un piano, una canzone, i suoi pensieri. Una piccola fanfiction, una delle prime che ho scritto ormai due anni fa... Quindi siate un pochino clementi please!:)
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Julia Heartilly
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Eyes on Me

Eyes on Me

 

Il rumore sordo dei tacchi scendeva lento la piccola scala del piccolo locale. Poi cessò, e la ragazza sorrise, mentre i luminosi capelli scuri, corti e leggeri, le sfioravano le guance, gli occhi neri, il rossetto; portava un bel vestito, quella sera.

La giovane donna si inchinò, e sedette al pianoforte. Le sue dita erano posate sull’avorio lucido dei tasti, ma gli occhi, quelli no: i suoi occhi erano ancora su quella scala, in fondo a quella sala…

 

Finalmente scoppiò un timido applauso, e tirai il mio dannato sospiro di sollievo. Credevo che non ci fosse nessuno, invece la saletta era quasi piena. E poi c’era lui.

Dalle scale avevo visto il sorriso beffardo del suo amico, quello alto, ma poi finalmente avevo visto anche lui. Lo guardai per un attimo. La divisa militare e le sue spalle larghe mi facevano vedere in lui un vero uomo, di quelli che non hanno mai paura; ma i suoi occhi verdi, l’emozione sul suo viso e quello sguardo che mi diceva che in lui stavano passando mille e mille pensieri, no, quelli erano gli occhi di un bambino, del bambino che si specchia trasognato nelle vetrine guardando quello che non può avere.

Esitai un attimo prima di sedermi al piano, ma poi pensai: non mi pagano per questo. E così attaccai.                

Era quello il mio dovere: sorridere e suonare. Del resto non importava niente a nessuno. Sorridere, anche quando qualche ufficiale ubriaco mi lanciava battute e sguardi pungenti; anche quando me ne andavo senza che gli avventori se ne accorgessero, senza nemmeno uno sguardo su di me; sorridere, anche quando pensavo alla mia canzone, alla mia segreta canzone che non avrei scritto mai…

Ogni giorno, ogni sera, sempre, era sempre tutto uguale: gli scoppi di risa, la carta da parati, le parole sullo spartito, il tintinnio dei bicchieri. E quel piccolo tavolino laggiù nell’angolo. Ma forse anche quello era un’illusione, e non esisteva, non esisteva niente.

Ma sentivo ancora qualcosa, su di me. Che cosa? Erano i tuoi occhi, gli unici ancora fissi su di me. I tuoi amici parlavano fitti e tu non rispondevi, gli altri clienti ormai non si accorgevano più del sottofondo musicale che accompagnava le loro risate e le loro battute se non quando s’interrompeva. Ma tu no.

Eri tu, Laguna, che mi davi sicurezza, la dolcissima consuetudine che mi accompagnava ogni sera, lo sguardo sincero in cui, per un istante, riuscivo a leggere le parole della mia canzone…

Eravamo noi, io e te. Tu eri il cliente del bar. Io la cantante. Diversi, lontani, due ruoli opposti. Credevi che il tuo fosse solo quello di starmi a guardare, a distanza, mentre il mio era quello di lasciarmi contemplare, ignara di te, e a mezzanotte fuggire via, scomparire dalla realtà, per poi lasciare il mio fantasma a vivere un altro po’ dentro i tuoi sogni. Ma tu non sei un sognatore. Perché anche i miei occhi erano su di te.

Lo sapevi? Sapevi che anch’io avevo il tuo stesso bisogno d’amore, e che, occhi negli occhi che non s’incontravano mai, ti rendevo le mille piccole attenzioni che mi davi? Forse non sapevi che io non ero solo la bella irraggiungibile cantante, il tuo sogno irrealizzabile per sempre; ma una persona, con i suoi sentimenti, i suoi pensieri, una persona veramente esistente, non la principessa delle tue favole.

Chissà, magari dentro di te avevi l’immagine di una donna perfetta, quasi un idolo in vestito da sera sulla pedana del bar, il fascino dell’inaccessibile, di quanto ci fosse di più lontano dal tuo piccolo universo. Ma riuscivi a pensare anche a com’ero tutti i giorni, oltre al vestito elegante e alla voce del piano, a cosa pensavo la mattina mentre mi scaldavo il caffè, a quando provavo qualche pezzo in camera mia con i capelli in disordine e gli occhi struccati? Esisteva dentro di te anche l’immagine di una donna vera che vive, che sogna, che prova dolore? Che vive, che sogna, che prova dolore per te, sì, proprio per te, millesimo avventore del locale, soldato semplice di un paesino in collina, uno dei tanti sconosciuti che incrociano per qualche secondo la loro vita con la mia… sì, soltanto per te…

E allora no, lo vedi, non sei un sognatore. Noi due, opposti, distanti, ma in realtà così vicini da sembrare viaggiare sulla stessa nuvola, in altri cieli e in altri luoghi…

E mi dicevo, e ti dicevo: stavolta cambiala questa storia, dai, alzati, gira intorno al tavolino, così, passa tra le poltrone, sali questi tre piccoli, brevi scalini… Coraggio, non sono fatta di fumo, non sono un’illusione, io ci sono davvero! Questa sera ce la farai a dirmi il tuo nome, a chiedermi un ballo, a cantarmi quella canzone…

Ma quando alzai gli occhi dal mio spartito, tu eri lì, davanti a me. Un sussulto, una nota sbagliata, il cuore in gola. Stavo ancora sognando? Era vero? Era vero. Arrossito, esitante, ma c’eri; e i tuoi occhi erano inaspettatamente vicini, di colpo così dentro ai miei che potei finalmente leggervi tutte le parole e le note della mia canzone. E non scordarle mai più.

 

Quanta tenerezza mi facevi così addormentato sul mio letto un po’ disfatto, con le guance ancora rosse e la mano scivolata da sotto il cuscino…

Ti avevo offerto da bere, come fanno le donne belle e sicure della loro infallibile tentazione nei film e nei romanzi; e pensavo che tu mi avresti parlato delle notti in trincea e del tuo esercito fuori della città, e piano piano mi avresti fatta ubriacare, come fanno tutti quegli uomini belli e sicuri di sé dei film e dei romanzi… Finiscono tutte così, le storie.

Ma niente era come potevo immaginare, e tu non eri né un sogno né un film, ma eri quello che eri, l’eterno bambino impacciato che al pub ordinava solo succo di frutta, che mi aveva frastornato con i suoi racconti entusiasti di paesi lontani e desideri caldi, e che adesso dormiva un poco ubriaco sul mio solito letto disfatto…

Chissà quante volte avrò immaginato il giorno in cui ci saremmo finalmente incontrati, e parlati, dopo esserci così a lungo cercati, e chissà quante volte ci avrai pensato tu. Eppure non siamo sognatori, perché era tutto così… diverso da qualsiasi fantasia, tutto incredibilmente, stupendamente diverso; e ogni tanto mi veniva un po’ da ridere, qualche volta da arrabbiarmi, e poi un po’ da piangere, ma era la realtà, così bella proprio perché imperfetta.

Siamo riusciti ad amarci solo dentro silenzi e sguardi, tra l’affetto e l’ammirazione, nei nostri desideri così inconsapevolmente simili, nelle parole di una canzone. E ancora riuscivo a ricordare quella mia canzone, e sapevo che l’avrei ricordata e sussurrata per sempre, anche quando non avrei più avuto i tuoi occhi su di me. Perché questo mi basta, chi lo sa, forse davvero non sono io quella giusta per te, quella sera era solo la collisione di un istante tra sogno e realtà, tra le nostre realtà e i nostri sogni paralleli, forse non siamo altro che occhi che non smetteranno mai di cercarsi, non in questo, ma in un altro mondo, in uno dei mille mondi possibili.

Mi basta sapere che non sei un sognatore, ma che sei vivo, e vero, e potevo sentire il tuo respiro addormentato sempre vicino, potevo conoscere le tue semplici e realistiche certezze, i desideri concreti e caldi che mi raccontavi quella sera seduto sul mio letto disfatto. Ti bastava una piccola casa e una donna semplice al tuo fianco, una tenera mamma con un dolce bambino; non volevi nient’altro, se non tenere ancora per un poco i tuoi occhi su di me.

 

Il rumore sordo dei tacchi scendeva lento la scala. Poi cessò, e la donna sorrise, mentre i luminosi capelli scuri, corti e leggeri, le sfioravano le guance, gli occhi neri, il rossetto; portava un bel vestito, quella sera.

“L’auto è pronta, signora Caraway; il signore l’aspetta fuori.”

“Grazie, Rosie” la donna fece un cenno alla sua cameriera, e si avvicinò per salutare la bambina che teneva in braccio. Aveva forse quattro anni, gli stessi capelli di sua madre stretti in due codini, i grandi occhi lucidi e una lacrimuccia sulla guancia rotonda. “Dove vai, mamma? Quando torni?”

La giovane diede un bacio alla figlia. “A teatro, Rinoa. Quando sarai più grande, io e papà porteremo anche te. Intanto fai la brava, e tornerò in tempo per darti ancora mille baci della buonanotte.” Poi uscì.

L’uomo guidava nervoso per le strade cittadine, avvolte nella nebbia. Una leggera cortina di pioggia tamburellava sul metallo dell’auto, lasciando lunghe righe nere sul parabrezza; lui non si curò di azionare il tergicristallo. “Lo sai che siamo in ritardo?”

La donna sospirò. “E’ che… Rinoa non mi lasciava andare. Si è messa anche a piangere, poverina…”

“Fosse la prima volta, Julia…”

“Lo so, ma… Mi facevano tanta tenerezza i suoi occhi così dolci… quei bellissimi occhi su di me…”

L’uomo sorrise, e si voltò verso la moglie. “Anche i miei sono dei dolcissimi occhi su di te?”

E poi vide l’immensa sagoma dell’autobus. Di colpo sopra la piccola auto, nella stessa corsia. Un grido, lo stridore metallico, il vetro in frantumi, la luce accecante degli enormi fari del pullman… Luce…

Buio.

 

   
 
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