αἷμα
(haîma)
(haîma)
Ricordo come fosse ora
il giorno in cui, ancora bambino, caddi
nelle acque del fiume.
Ricordo ancora la consistenza viscida dell’acqua mentre mi trascinava a fondo, verso abissi silenziosi e immoti – ricordo l’ombra scarlatta dietro le palpebre mentre il sangue pulsava più forte, ricordo l’impressione di soffocare e quella strana, innaturale tranquillità.
La folle sensazione di essere invulnerabile e, al contempo, la consapevolezza di non avere più tempo – che mai più ce ne sarebbe stato, per me.
E tutto ritorna, adesso, in pigre creste di memoria, mentre ti guardo dormire, Harmodios – e l’alba raspa contro le tue palpebre chiuse a ricordarmi ancora una volta che non c’è più tempo.
Il sorgere del sole porterà con sé il rosso vischioso del sangue – se il nostro, o quello dei nostri nemici, io non posso saperlo. Sangue verrà sparso alla processione per i giochi, domani – il verde del mirto si tingerà di vermiglio di fronte agli occhi severi della vergine poliàs, ai piedi dell’Acropoli – e il colore sarà lo stesso, per i tiranni, e per i tirannicidi.
Sento il sapore di ferro nella bocca, vedo quel rosso che palpita dietro gli occhi – come quel giorno nel fiume – perché acqua e sangue, phlegma e haîma sono la stessa cosa.
Nutrono gli abissi dentro di noi – fluidi stagnanti che ci avvelenano, giorno dopo giorno dopo giorno.
Dopo l’amore, prima di addormentarti, mi hai guardato per l’ultima volta, e nei tuoi occhi c’era ancora tutta la fiducia della tua giovinezza. Ma io ho taciuto perché sapevo che sarebbe stato l’abisso a parlare per me.
L’abisso che accompagna quest’alba rosso-sangue che mi strazia con le sue unghie di bestia, l’abisso di ciò che non è stato e che non sarà mai, la voragine delle possibilità che non abbiamo avuto e che non avremo mai.
Sangue e polvere ricopriranno le nostre carni assassine, prima che il vuoto silenzioso ci inghiottisca – là dove non esiste suono e non esiste tempo.
Perché l’abisso ci guarda, Harmodios. E quando guardi nell’abisso, l’abisso guarda in te, e non c’è nessun luogo dove scappare.
Ci guarda.
E quando fisserò le sue iridi scarlatte, domani, io spero che l’abisso mi sorrida.
Note:
Armodio e Aristogitone sono due famosi amanti ateniesi, vissuti nel VI secolo a.c.
Quando Ipparco – fratello del tiranno della città, Ippia – si invaghisce del giovane e bellissimo Armodio, e viene da quest’ultimo rifiutato – in quanto fedele eromenos di Aristogitone – Ippia si vendica infangando il nome della sorella minore di Armodio.
I due amanti – stanchi dell’oppressione dei tiranni – organizzano una congiura per assassinare i due fratelli – con l’appoggio di altri nobili ateniesi.
Decidono di uccidere i tiranni durante la processione dei giochi Panatenaici – nascondendo i pugnali nelle corone di mirto.
Armodio e Aristogitone riescono a uccidere Ipparco, ma non Ippia. Armodio viene ucciso sul posto, mentre Aristogitone viene catturato e torturato per avere i nomi degli altri congiurati.
Aristotele narra che Aristogitone verrà ucciso senza che una sola parola sia uscita dalle sue labbra.
I due amanti sono entrati nella leggenda col nome di “tirannicidi”, e una loro famosa statua fu rubata da Serse e portata a Susa, ma fu restituita ad Atene da Alessandro il Grande, due secoli dopo.
Ricordo ancora la consistenza viscida dell’acqua mentre mi trascinava a fondo, verso abissi silenziosi e immoti – ricordo l’ombra scarlatta dietro le palpebre mentre il sangue pulsava più forte, ricordo l’impressione di soffocare e quella strana, innaturale tranquillità.
La folle sensazione di essere invulnerabile e, al contempo, la consapevolezza di non avere più tempo – che mai più ce ne sarebbe stato, per me.
E tutto ritorna, adesso, in pigre creste di memoria, mentre ti guardo dormire, Harmodios – e l’alba raspa contro le tue palpebre chiuse a ricordarmi ancora una volta che non c’è più tempo.
Il sorgere del sole porterà con sé il rosso vischioso del sangue – se il nostro, o quello dei nostri nemici, io non posso saperlo. Sangue verrà sparso alla processione per i giochi, domani – il verde del mirto si tingerà di vermiglio di fronte agli occhi severi della vergine poliàs, ai piedi dell’Acropoli – e il colore sarà lo stesso, per i tiranni, e per i tirannicidi.
Sento il sapore di ferro nella bocca, vedo quel rosso che palpita dietro gli occhi – come quel giorno nel fiume – perché acqua e sangue, phlegma e haîma sono la stessa cosa.
Nutrono gli abissi dentro di noi – fluidi stagnanti che ci avvelenano, giorno dopo giorno dopo giorno.
Dopo l’amore, prima di addormentarti, mi hai guardato per l’ultima volta, e nei tuoi occhi c’era ancora tutta la fiducia della tua giovinezza. Ma io ho taciuto perché sapevo che sarebbe stato l’abisso a parlare per me.
L’abisso che accompagna quest’alba rosso-sangue che mi strazia con le sue unghie di bestia, l’abisso di ciò che non è stato e che non sarà mai, la voragine delle possibilità che non abbiamo avuto e che non avremo mai.
Sangue e polvere ricopriranno le nostre carni assassine, prima che il vuoto silenzioso ci inghiottisca – là dove non esiste suono e non esiste tempo.
Perché l’abisso ci guarda, Harmodios. E quando guardi nell’abisso, l’abisso guarda in te, e non c’è nessun luogo dove scappare.
Ci guarda.
E quando fisserò le sue iridi scarlatte, domani, io spero che l’abisso mi sorrida.
Note:
Armodio e Aristogitone sono due famosi amanti ateniesi, vissuti nel VI secolo a.c.
Quando Ipparco – fratello del tiranno della città, Ippia – si invaghisce del giovane e bellissimo Armodio, e viene da quest’ultimo rifiutato – in quanto fedele eromenos di Aristogitone – Ippia si vendica infangando il nome della sorella minore di Armodio.
I due amanti – stanchi dell’oppressione dei tiranni – organizzano una congiura per assassinare i due fratelli – con l’appoggio di altri nobili ateniesi.
Decidono di uccidere i tiranni durante la processione dei giochi Panatenaici – nascondendo i pugnali nelle corone di mirto.
Armodio e Aristogitone riescono a uccidere Ipparco, ma non Ippia. Armodio viene ucciso sul posto, mentre Aristogitone viene catturato e torturato per avere i nomi degli altri congiurati.
Aristotele narra che Aristogitone verrà ucciso senza che una sola parola sia uscita dalle sue labbra.
I due amanti sono entrati nella leggenda col nome di “tirannicidi”, e una loro famosa statua fu rubata da Serse e portata a Susa, ma fu restituita ad Atene da Alessandro il Grande, due secoli dopo.