DISCLAIMER: sfortunatamente nessuno dei personaggi mi appartiene, né sono mai venuta in contatto con loro. La caratterizzazione dei personaggi e i fatti narrati sono frutto della mia immaginazione e assolutamente non reali. Non intendo offendere nessuno e non traggo alcun guadagno dalla stesura di questo racconto.
Brian Molko/Stefan Olsdal, non esplicitamente amore, anche perché credo che nel loro rapporto ci sia qualcosa di ben più profondo. Vorrei ringraziare Giada, che mi ha ispirata con un suo disegno totalmente fuori di testa, e ovviamente la mia Mary che sopporta il mio stile tremendo ed è ufficialmente la mia beta-reader di fiducia (senza contare che mi ha praticamente costretta a pubblicare su EFP). Buona lettura!
Il titolo è ispirato all’omonima canzone “If Only Tonight We Could Sleep” dei Cure.
*
Il bottone lucido guizzò fuori dall’asola, quasi
fosse coperto d’olio, e rimbalzò contro il muro con un rumore secco, simile a
uno scoppio. Le dita di Brian rimasero sospese a mezz’aria, come indecise sul da
farsi, mentre un gruzzolo di filo scuro penzolava da un buco minuscolo, proprio
lì, vicino alla cucitura, creando un’insopportabile visione complessiva di
disordine, di imperfezione, che la sua immagine, riflessa nello specchio, aveva
accolto con gli occhi spalancati e la bocca semiaperta, in segno di enorme
disappunto.
«Cazzo!» le sue corde vocali stridettero quasi in automatico, anche se
decisamente in ritardo, mentre si slacciava in fretta anche gli altri bottoni, e
tastava la stoffa nera del gilet nel punto incriminato.
«Stef!» chiamò, senza pensarci due volte, camminando a passo spedito mentre si
sfilava rabbiosamente il capo rovinato e se lo portava davanti con le braccia
tese, quasi con disprezzo, fino a trovarsi davanti a una porta, che aprì, senza
minimamente preoccuparsi di quanto fosse conforme ai principi delle buone
maniere. «Stef, cazzo, guarda!» continuò, davanti a una figura alta, sottile,
che al contrario di quanto si aspettava gli stava rivolgendo la schiena
scoperta, chino su un cassetto. Era una bellissima schiena, bianca, segnata
dalle curve giuste, e anche se Brian non glie l’aveva mai detto – o almeno, non
nelle condizioni di ricordarselo – accoglieva sempre volentieri quella visione.
Stefan si voltò lentamente, inarcando le sopracciglia oltre la ciocca di capelli
castani che gli copriva una buona metà del viso; finse stupore, come se non si
aspettasse quell’irruzione. Lo faceva ogni volta, anche se ormai si era abituato
a prepararsi con netto anticipo all’ingresso dell’altro da quella porta, tanto
era certo che sarebbe successo, come ogni singola sera.
«Cosa dia... Brian?» la sua intonazione si fece più calma, appena si accorse di
come l’amico lo guardava, reggendo tra le mani l’indumento con le mani sudate
contratte in uno scatto nervoso, e che, appena furono liberate da quel fardello,
prese a contorcere l’una nell’altra.
«Brian.» ripeté, rigirandoselo tra le dita, mentre osservava quegli occhietti
limpidi volti verso l’alto, tersi come un cielo estivo, che apparivano e
scomparivano sotto le palpebre solcate dal trucco. Le ciglia di Brian sbattevano
in relazione al suo nervosismo: quando era teso, era solito aprire e chiudere
gli occhi con una frequenza disumana, che lentamente si trasformava in uno
strizzare isterico.
Stefan posò una mano sulla spalla dell’altro, finché con delicatezza non riuscì
a volgerlo verso la parete opposta, su cui troneggiavano due enormi ante di
ciliegio. Con un gesto meccanico, che riuscì però a far sembrare improvvisato,
le spalancò. Un profumo di pino invase la stanza, e sentì il suo esile compagno
inspirarlo a fondo, per poi tremare, contrariato.
«Chi ha cambiato il pout pourri? Mi sembrava di aver detto che...»
«Come vedi» lo interruppe subito, quasi ignorando la sua inutile protesta, ma
mantenne il solito tono materno, indicando l’enorme macchia nera che riempiva il
vano «Non hai che da prenderne un altro.»
«Ma io non ne voglio gli altri. Voglio il mio.» fece, arricciando le labbra con
il suo solito fare da bambino capriccioso, che però riusciva in qualche modo a
rendere sempre raffinato. Forse era il tono di voce fermo, mellifluo con cui
esprimeva i suoi desideri, unito a quello sguardo infantile, che il sudore sulla
fronte e la cornice di capelli mossi contribuivano a rendere ancora più patetico
di quanto già fosse. Brian Molko era effettivamente patetico, ma sapeva fare
anche questo con un’ineccepibile classe.
«Brian, abbi pazienza» Stefan cominciava a cedere al desiderio di infilarsi
sotto la doccia. «È mezzanotte, il concerto è finito, accontentati di un...
gilet di rimpiazzo, e vedrai che domani lo ricuciamo.»
Il cantante alzò ancor di più il mento, e non mancò di inclinare anche la testa
su un lato, stringendosi nelle spalle esili che quella ridicola camicia cercava
di rendere più larghe con un turbinio di pieghe.
«Promesso?» cinguettò, prendendo tra le mani il suo indumento preferito. Erano
mesi che lo indossava a ogni concerto, ormai era diventato una sorta di rito,
rinunciare al quale avrebbe presagito per lo show del giorno una disfatta
totale.
«Promesso» lo assicurò l’altro. «Ora andiamo a dormire, su...»
«Ehi, aspetta, aspetta un minuto» Brian spalancò gli occhi, e anche le sue
pupille si dilatarono, mentre tornava con lo sguardo all’armadio aperto e un
dito tremante si alzava, lasciando cadere il pezzo di stoffa per cui tanto si
era dannato e andando a indicare un punto sempre più alto. «Quello che cos’è?»
esalò d’un fiato. Un luccichio si nascondeva tra i panni opachi; tante piccole
stelline argentee, che si muovevano appena lui spostava la testa anche di un
solo millimetro. Continuò a fissare lo sguardo su quella misteriosa apparizione,
scorrendo con la mente tutti i metodi, tutte le soluzioni che avrebbe potuto
adottare per raggiungere quell’altezza e capire di cosa si trattasse.
Spostò lo sguardo sull’altro uomo, scorrendo con occhi estasiati tutta la sua
altezza. «Stef, posso salirti sulle spalle?» sussurrò, e lui non poté fare a
meno di soffocare lo stupore e annuire, disarmato dalla passione che sembrava
aver illuminato quei piccoli occhi, troppo spesso spenti. Sembrava che avesse
trovato una ragione di vita, una luce, in quel che stava cercando di raggiungere
per sfogare la sua curiosità: sembrava un bambino sveglio la mattina di Natale,
davanti al regalo che la madre gli ha nascosto sopra la mensola più alta del
soggiorno, illudendosi così di celarglielo.
Si chinò piano, quel che bastava perché l’altro gli salisse sulla schiena, per
poi mettersi a cavalcioni del suo collo. Non era eccessivamente faticoso per il
suo fisico, e ormai l’aveva fatto così tante volte che neppure ci fece caso.
Quando Brian giunse al massimo della sua altezza, i piedi che gli ciondolavano
impercettibilmente nel vuoto, gli sembrò di poter dominare il mondo.
L’adrenalina gli saliva in petto, mentre tendeva una mano verso la stoffa scura
e sfavillante. Finalmente si fece tangibile, ed ebbe l’istinto di strattonarla
con violenza per farla sua nel minor tempo possibile; ma toccare improvvisamente
quella distesa stellata, e la paura di rovinarla, o peggio farle del male,
avevano fatto sì che le sue dita scivolassero con placidità sull’appendiabiti,
per sfilare le spalline con la massima delicatezza, sebbene fremesse dal
desiderio di stringere quell’oggetto tra le sue braccia.
Quando i suoi piedi toccarono di nuovo terra, non aveva smesso di fissarlo.
Pareva che uno sciame di astri lucenti fosse atterrato su quel pezzo di seta,
per quanto scintillava: prese a scuoterlo con dolcezza, facendo tintinnare le
minuscole stelline di luce.
«È... un vestito» disse, e sulle prime sembrò perplesso. Era tanto che non ne
indossava uno simile e, a dire il vero, le poche immagini che quell’abito
riusciva a evocare non riuscivano che a fargli del male. Aveva giurato che non
ne avrebbe mai più messo uno. In effetti, da quando Cody esisteva, non faceva
che preoccuparsi di cosa avrebbe pensato di lui, una volta abbastanza grande da
informarsi e scoprire che quella puttana impertinente era solo una delle mille
facce di suo padre. Incredibile come quell’esserino aveva cambiato la sua vita,
e un po’ aveva cambiato anche lui, dato per certo che non si era mai preoccupato
del suo modo di porsi, per tutti i trent’anni precedenti alla sua nascita.
Restava in silenzio, non dava segni di cedimento, eppure il bassista sapeva che
prima o poi avrebbe desistito; non c’erano mai state barriere fisiche fra di
loro, e certamente, se avesse davvero voluto svestirsi, si sarebbe anche
dimenticato della sua presenza. E così, quello si sfilò in fretta i pantaloni,
sbottonò con un gesto fluido i bottoni della camicia, e lasciò che quel tessuto
così cedevole gli scivolasse lungo i fianchi.
Si volse verso lo specchio, e sembrava felice; si rimirava come se al mondo non
esistesse più nessun altro, passandosi una mano nei capelli d’ebano, che
andarono a scivolargli dietro le orecchie. Stefan lo guardava, e non poté fare a
meno di lasciarsi scappare un sorriso. Era bello, quando si ravviava i capelli
in quel modo: sembrava vulnerabile. Il Molko che non mancava mai di mostrare il
medio o esprimere con schiettezza la sua opinione, che tirava costantemente la
sua sigaretta e sorseggiava birra in ogni attimo libero, che colpiva ogni sera
la chitarra con impeto urlando inconsolabile la sua disperazione, che trovava
sempre l’affermazione più irriverente su cui far discutere i giornali, era solo
una maschera? Il vero Brian era lui, la fragilità di quella pelle diafana che
scintillava sotto un abito da donna, abbastanza corto da scoprire le ginocchia
gracili di chi non si è mai sentito abbastanza forte da proteggersi da sé?
Comunque andassero davvero le cose, la seconda versione era maledettamente
bella, e per un attimo Stefan pensò che sarebbe stato uno strazio lasciare
semplicemente che il giorno sorgesse: perché allora, tutto sarebbe tornato come
prima. Ci sarebbero stati di nuovo un gilet e una camicia, un bicchiere di birra
e qualche affermazione sfrontata sbattuta davanti a una telecamera.
Gli cinse la vita, chinandosi eccessivamente per posare la testa sulla sua
spalla, e indugiò sull’immagine di entrambi riflessa nello specchio. Senza
dubbio, tutto sarebbe tornato come prima. Ma fino ad allora, ci sarebbero stati
soltanto una fragile principessa e il suo principe, che non vorrebbe mai
lasciarla andare via.