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Autore: rekichan    26/11/2009    17 recensioni
Prima classificata al contest: "Operazione conquista del fandom" indetto da Saeko no Danna e Nejiko.
Mi ero preparato psicologicamente per anni a quel momento; sapevo che l’uso del Mangekyou sharingan causa la perdita della vista; sapevo che – come era accaduto ad Itachi – prima o poi anche i miei occhi si sarebbero appannati una volta per tutte.
Genere: Malinconico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Naruto Uzumaki, Sasuke Uchiha | Coppie: Naruto/Sasuke
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Per Kei.

 

 

 

Ma allora che ci guadagni?
"Ci guadagno", disse la volpe, "il colore del grano".

[Il piccolo principe; Antoine Jean Baptiste Marie Roger de Saint-Exupéry]


[Il colore del buio]

 

Prima di quel giorno non aveva mai attirato la mia attenzione. Era solo un ragazzino fastidioso e confusionario che s’insinuava a forza nella mia vita, assillandomi con le sue continue richieste di sfide e la sua presunzione di riuscire a superarmi.

Successivamente, mentre ero concentrato sul mio obiettivo, mi era apparso come una voce lontana; un piccolo e fastidioso grillo parlante che mi ripeteva incessantemente: «Torna a casa, Sasuke! Torna a casa!»

Non mi sono mai dato la pena di ascoltare quella voce; perfino dopo la Quarta Guerra in cui abbiamo combattuto fianco a fianco contro Danzo, ho preferito l’esilio alla mia reintegrazione nel Villaggio della Foglia.
Lui era sempre lì, ad urlarmi contro e a chiedermi di tornare. Non vi riuscii.
Avevo passato delle ore seduto sulle rovine del quartiere Uchiha, a contemplare le mura distrutte dal tempo e dalla guerra; su alcuni di essi spiccava ancora la pittura rossa e bianca del simbolo del clan.

Era tutto finito. Sapevo di avere delle persone intorno che mi parlavano, ma le loro voci erano solo un’eco lontana che si perdeva nell’aria. In mente, avevo un solo pensiero: ero libero. Dalla vendetta; dai legami col passato; da quel desiderio di distruzione che Itachi aveva scatenato in me anni ed anni prima. Ero libero, ma mai avrei creduto che quella libertà agognata potesse essere tanto grave e terribile.

Cosa avrei fatto da quel momento in poi? Dove sarei andato? E, soprattutto, chi sarei stato? Tutto ciò che era Sasuke Uchiha giaceva adesso sotto quelle macerie.

In quell’attimo fatale, realizzai che non sarei mai potuto vivere a Konoha.

Quel quartiere ormai distrutto era il mio passato; la vendetta era stata il mio presente. Adesso, mi trovavo a dover costruire un futuro che non avevo mai prospettato.

Lui, in tutta la mia confusione, rappresentava solo una voce confusa tra le altre. Non lo guardai neanche in quei giorni in cui Tsunade decideva la mia pena e lui assisteva al processo; non gli rivolsi la mia attenzione neanche quando – ormai prosciolto dalle accuse – comunicai alla Godaime la mia decisione di lasciare Konoha una volta per tutte, visto che lì il lavoro di ninja mi era precluso a causa dei miei trascorsi.

Non lo guardai; non mi accorsi neanche della sua presenza. Eppure lui era sempre stato lì; in ogni momento di quel terribile e confuso periodo, lui c’era. Era al mio fianco; la sua mano amica posata sulla mia spalla.

Troppo preso da me stesso, non vi avevo mai fatto caso. Nei miei pellegrinaggi successivi da ronin per i villaggi, non vi pensai. Probabilmente, per me la sua amicizia e la sua presenza erano state talmente scontate che non avevo mai considerato la possibilità di perderlo.

Solo adesso che la vista mi sta abbandonando e il mondo comincia ad essere avvolto dalle tenebre, ho rivisto il suo volto. No, non l’ho incontrato, né sono tornato sui miei passi. È che quando si ha la consapevolezza che presto sarai avvolto dal buio, un uomo deve cominciare a pensare all’immagine che vuole portare con sé nell’oscurità.
Si ha una sola possibilità e non è permesso sbagliarsi.
Inizialmente, pensavo con supponenza che non m’interessava una cosa così romantica, ma mano a mano che il mondo perdeva luce e i suoi contorni si facevano sempre più opachi giorno dopo giorno, fui spaventato dalla prospettiva di un’esistenza senza luce.

Mi ero preparato psicologicamente per anni a quel momento; sapevo che l’uso del Mangekyou sharingan causa la perdita della vista; sapevo che – come era accaduto ad Itachi – prima o poi anche i miei occhi si sarebbero appannati una volta per tutte.

Eppure, il giorno in cui la vista mi abbandonò per la prima volta, rabbrividii. Fu un attimo, un semplice attimo in cui era diventato tutto buio. Poi la luce era tornata, ma sapere… sapere che accadeva così; che da un momento all’altro tutto intorno a me poteva spegnersi, mi fece paventare l’oscurità totale che fino a quel momento avevo accolto quasi come un’amica.

Cominciai a pensare quale immagine avrei voluto con me per tutto il resto della mia vita, ma quando chiudevo gli occhi riflettendo su cosa mi sarebbe piaciuto conservare, vedevo solo i fantasmi dei miei morti che venivano a perseguitarmi.

Alla fine, decisi di portare con me il grano.

Da piccolo adoravo accompagnare mia madre a raccogliere i papaveri tra le spighe; giocavo con i loro steli e mi perdevo in quell’immensità gialla; mi inebriavo dell’odore di paglia che mi circondava e fissare quell’incredibile vastità color oro mi mozzava il fiato.

Tuttavia, mentre fissavo il campo di grano cercando di fissarlo bene nella mente, mi venne in mente un volto.

Lì per lì cercai di scacciarlo, infastidito dalla sua presenza mentre cercavo di catturare la mia ultima immagine. Ancora una volta, interferiva con la mia vita. Pensai a lui con fastidio, noia e mal disposto a tollerare quel viso che continuava a danzarmi di fronte agli occhi.

Eppure quel volto non voleva andarsene e più fissavo il grano, più i suoi contorni si facevano definiti; la linea della mascella si delineava, le sue labbra si schiudevano in un sorriso e i suoi capelli… i suoi capelli avevano il colore del grano.

Per giorni, quell’immagine mi perseguitò. Sognai il suo volto, i suoi capelli, il suo sorriso. Alla fine, non ressi più.

Naruto Uzumaki ha vinto. Domani parto per Konoha a catturare l’ultima immagine della mia vita.

 

So di essere vicino a Konoha grazie all’odore dei meli in fiore, un aroma che riconoscerei dovunque. È quello dei miei anni più sereni, quelli della mia infanzia.

È primavera, penso che sia una bella stagione per diventare ciechi. Tutto profuma e rende più facile orientarsi e puoi gustarti tutti i colori che ti circondano. Prima non avevo mai fatto caso a quanto potessero essere belli i colori; erano solo accessori inutili di una natura che non apprezzavo, né consideravo.
Adesso mi sembrano tutti meravigliosi e mi pento di aver perso tanti anni a rimirare solo il rosso del sangue.

Sto diventando sentimentale, ma la prospettiva del buio non mi piace. Un tempo, l’ho agognato; l’ho desiderato così da non dover vedere gli orrori che mi circondavano. Sarebbe stato bellissimo essere cieco, anni ed anni fa, quando…

No, ho promesso a me stesso di non rivangare mai quel giorno. Troppi sono i sentimenti contrapposti che provo per la mia famiglia e per il loro aguzzino. Rischio di impazzire se ci ripenso e adesso, a più di quarant’anni di distanza, non ne vale la pena. Voglio pensare ai colori, agli odori; memorizzare ogni particolare del paesaggio che mi si stende davanti.

Non so quando la vista mi abbandonerà del tutto. Può essere tra un giorno, come tra anni. Spero solo di arrivare in tempo e catturare la mia ultima immagine. Mi alleno da anni a muovermi senza la vista; sfrutto l’olfatto, l’udito e il tatto. Arrivare a Konoha con gli occhi bendati non è stato difficile: devo risparmiare la mia vista per lui, per il grano.

 

Konoha è mutata molto in questi anni; si è ingrandita e da piccolo centro ninja è diventata una città rigogliosa e fiorente, ricca di attività commerciali.
Alzo la benda per osservarne i cambiamenti. Le macerie hanno lasciato il posto a nuove abitazioni, c’è un parco nel villaggio e la guardia all’ingresso mi ha fatto passare lasciandomi solo depositare un documento. Era molto giovane e non ha battuto ciglio quando ha letto il mio nome  sulla Carta d’Identità ninja; si è limitato a registrare il mio ingresso e a darmi il benvenuto a Konoha.
Sorrido amaramente, mentre mi accingo a varcare la soglia del villaggio della mia infanzia. Un tempo, il solo sussurrare il nome degli Uchiha incuteva timore e rispetto; adesso è dimenticato come un qualsiasi cognome. Il clan più potente dell’intera Konoha è stato catturato dall’oblio.
Non riesco a non esserne amareggiato. Il mio clan è sempre stato il fulcro della mia vita; l’orgoglio e l’onore di appartenere alla casata Uchiha è sempre vivo in me, nonostante la sua caduta.
Mi hanno chiamato traditore del villaggio, senza sapere che la prima fedeltà è quella che si deve alla propria famiglia. Venivamo educati ad amare e proteggere il clan, a dimostrare di essere degni di appartenere alla nostra casata; eravamo e dovevamo essere i migliori. Vedere questo sfacelo, mi distrugge.
Per un Uchiha non c’è niente di peggio dell’oblio; siamo un clan nato per la gloria, nel bene e nel male.
Soffro, rendendomi conto che Danzo ha vinto. Io ho ucciso Danzo, ma Konoha ha distrutto il nostro ricordo e io, ultimo esponente della mia famiglia, ho voltato le spalle.
Adesso sì che mi sento un traditore.

Scuoto il capo, cercando di evitare i pensieri cupi che mi assillano la mente. Devo concentrarmi sui miei passi e trovare il Palazzo degli Hokage. Chissà se ha cambiato sede o si trova sempre al centro del villaggio? Mi incammino. La folla mi urta; il vociare delle comari che fanno compere è sempre lo stesso, ma la popolazione no. Noto che ci sono molti più civili che ninja.
Non so se definirlo un sintomo di decadenza. Di sicuro, l’era dei ninja è ormai trascorsa.
Noi shinobi siamo relitti del passato che dobbiamo lasciare il posto alle nuove generazioni. E’ finito il tempo delle arti magiche e delle illusioni. Presto si dimenticherà l’esistenza del chakra e il suo utilizzo. È un fenomeno dilagante nel nostro mondo. Konoha non è il primo villaggio in cui mi capita di vedere il declino della nostra arte militare. Ne ho già visti tanti nelle stesse condizioni. Eppure speravo che per Konoha il destino fosse diverso. È infantile? Probabile, ma quando si invecchia si torna un po’ bambini e alla soglia dei cinquant’anni non pensi più alla vendetta, né a ciò che è plausibile o meno. Vivi emozionandoti per ogni piccola cosa; il giorno che passa è l’unica cosa che conta; il tempo scorre sulla tua pelle in maniera tangibile e ogni attimo è prezioso.

Sospiro e mi fermo a chiedere indicazioni. Scopro che il palazzo degli Hokage è sempre al solito posto, al centro di Konoha. Mi faccio spiegare come arrivarci; le strade mio malgrado sono cambiate e i contorni appannati non mi permettono un orientamento facile. Ho la tentazione di mettermi alla prova e procedere ad occhi bendati, ma rinuncio. Voglio godermi ancora un po’ Konoha, vedere cosa è cambiato e cosa no.
Ringrazio il mio interlocutore e procedo. Konoha… Konoha… Il luogo dove sono cresciuto eppure così estraneo. Quanti anni sono che non provo un vero sentimento d’amore per questo villaggio? Tanti, mi ripeto. Veramente tanti. Un tempo volevo proteggerlo come membro della Polizia di Konoha. Cosa è cambiato da allora? Cosa…? Dov’è quel bambino che osservava la montagna degli Hokage e gioiva al pensiero di far parte di quel mondo?
Konoha. Il solo nome è fonte per me di tanti amari ricordi. Dopo la morte dei miei genitori, ho avuto un rigetto per il villaggio stesso, successivamente, l’ho odiato. Eppure adesso mi sembra di essere tornato un po’ bambino al percorrere di nuovo queste strade.

Sono arrivato.  Almeno questo è sempre uguale. I ninja entrano ed escono dall’enorme struttura a cupola un po’ rovinata dal tempo. Ci sono pochi giovani e molti anziani, ennesima conferma che il nostro mondo è ormai in declino. Entro e non mi fermano, sono in pochi a lanciare qualche occhiata incuriosita ad un viandante.
Studio i corridoi, le mura, le persone. Il mio sguardo si posa su tutto ciò che possa rientrare nel suo raggio visivo. Mi scopro assetato di immagini, di luce e di colori. È come abbeverarsi ad una fontana senza riuscire a placare mai la sete.
L’ufficio dell’Hokage è di fronte a me. Ancora qualche passo. Ancora…

Il buio mi avvolge. È un attimo. Un solo attimo in cui la vista mi abbandona. Ma perché ci mette tanto a tornare? Senza accorgermene, sono a terra, la mano sugli occhi e il senso di panico che mi avvolge. A tratti, riesco a distinguere delle ombre, ma niente di più. Solo confuse macchie di colore che mi circondano.
Ho poco tempo, forse? Dal giorno in cui sono partito sono passati sei mesi. Possibile che in sei mesi la mia vista sia peggiorata così tanto? Viaggiando al buio, non me ne ero reso conto.

Forse non c’è più tempo. Devo sbrigarmi. Devo vederlo. Dannazione, dobe! Ancora non mi capacito perché debba essere proprio la tua immagine ad accompagnarmi per il resto dei miei giorni. Ancora non capisco perché debba essere tu il grano che voglio portare con me nel buio.
C’è qualcuno accanto a me che cerca di aiutarmi a rimettermi in piedi. Scosto bruscamente la sua mano, gettandomi contro la porta dell’ufficio dell’Hokage. C’è il caos intorno a me, molti ninja si sono messi in allarme a quello scatto, ma non me ne curo. Dobe! Dobe! Dove cazzo sei, dobe?

«Che succede? Chi… Sasuke…?»

Eccolo. Sento la sua voce. La tunica bianca e rossa dell’Hokage danza davanti a me, priva di definizione. Mi è caduto il cappuccio che indossavo per non essere riconosciuto. Non mi importa. Voglio solo un altro attimo di vista. Solo un attimo, per vederlo. Dov’è la luce quando serve? Dove?

«Andate, ci penso io. È… è un amico.»

Tentenna, nel pronunciare quella parola. Ovvio, non mi sono fatto vedere per trent’anni. Adesso ne abbiamo entrambi quarantasette. Come può considerarmi ancora suo amico dopo tutto questo tempo? Non lo so, ma questa è la grande capacità di Naruto Uzumaki, no? No. Non lo so, non ne sono sicuro. Non sono mai riuscito veramente a capire il suo modo di pensare, così diverso dal mio. Mi sono sempre e solo limitato ad accettare la sua presenza al mio fianco, il suo inseguirmi.
Ho sempre dato per scontata la mia superiorità e il suo essermi sempre un passo indietro.
Adesso lui è Hokage, ha raggiunto il suo obiettivo, il suo sogno. Naruto Uzumaki, il dobe, l’usuratonkachi, l’idiota del villaggio ce l’ha fatta. Io, Sasuke Uchiha, sono solo l’ultimo rappresentante di una casata in estinzione che ha preferito il vagare senza meta al costruirsi una vita.
Stavolta sono io ad osservare la sua schiena. Lo invidio. Perché ha vissuto, perché ha sempre combattuto per ciò che credeva, perché… perché è sempre lo stesso, nonostante gli anni che passano. Ed io non riesco a vederlo. Vedo solo una macchia confusa che mi danza davanti, incerto se avvicinarsi o meno.
Gli altri ninja sono usciti, lasciandoci soli. Lo sento titubante e insicuro. Non sa cosa dire, né cosa chiedermi.
Posso immaginare il suo sconcerto nel rivedermi lì.
Mi rendo conto che è stato sciocco da parte mia recarmi a Konoha. La mia presenza avrebbe potuto smuovere acque che era meglio rimanessero tranquille; i ricordi ci assalgono senza lasciarci tregua.

Come stai? Dove sei stato? Io sto bene, tu? Finalmente sei Hokage. Sì, non male, eh?

Discorsi vuoti, senza tempo. Non ho il coraggio di avanzare la mia richiesta. Mi pare così stupido ora, chiedergli di farsi guardare in viso. Così stupido… Naruto non si toglie il cappello conico da Hokage; sembra voler evitare il mio sguardo e si ripara dietro il copricapo, simbolo di un muro che nessuno dei due riesce a valicare.
Gli anni ci hanno cambiati così tanto, anche se io non riesco a scorgere i cambiamenti fisici. Quando sono partito cominciavo ad avere qualche capello bianco e qualche ruga intorno agli occhi. E Naruto? Quanto il tempo avrà inciso sul suo volto il suo passaggio? D’istinto, mi avvicino. Si ritrae dalla mia mano tesa, né io riesco ad allungarla di più per sfiorare il suo viso.
Il tempo ci ha mutato così tanto? Un tempo, il silenzio sarebbe stato rotto da un suo urlo infantile e squillante; un tempo, non saremmo stati tanto a lungo senza rivolgerci l’uno all’altro, nel bene e nel male.
Un tempo, non ora. Ora ci sono trent’anni di silenzio a separarci; ci sono strade diverse che non hanno fatto altro che incrociarsi, per poi allontanarsi una volta per tutte.

Un nuovo incontro sarebbe stato una forzatura, eppure l’ho voluto ugualmente. Ho costretto il mio sentiero a riportarsi nuovamente sulla strada di Naruto Uzumaki senza pensare alle conseguenze. Tutto, per la mia ultima immagine, per quella fotografia di cui ho bisogno e necessito. Un atto egoistico, forse. Eppure non riuscirei a stare senza. E ancora una volta è Naruto a farne le spese; ancora una volta, ho bisogno del suo aiuto, della sua presenza.
Solo adesso che si sta negando, mi rendo conto dell’errore che ho sempre fatto: ho vissuto nel terrore che potesse superarmi, senza accorgermi che mi aveva raggiunto e che, paziente, aveva rallentato per stare al mio passo.
E io… io adesso guardo la sua schiena.

«È passato parecchio tempo, Sasuke. – la sua voce è fredda. Trema leggermente, nonostante si sforzi di mantenerla monocorde. Non è mai stato bravo a nascondere le sue emozioni e con gli anni questa sua abilità non è migliorata. O forse è solo il mio udito ad essere più fine e a cogliere le sfumature. – Come mai sei qui?»

Taccio. Non so cosa rispondere. Tutte le motivazioni, che fino ad un attimo prima mi parevano serie, adesso sfumano, prive di qualsivoglia connessione logica.
Come spiegargli che sono lì per lui? Per quella persona che ho sempre ignorato, insultato ed evitato? Che per una volta non sono lì per farmi inseguire, ma sono io a cercare?
Adesso che siamo nella stessa stanza e il silenzio regna sovrano tra noi, mi rendo conto del mio desiderio infantile. Del mio…

«… capriccio.»

È la mia risposta. Naruto sbuffa, sarcastico. Si gira verso di me, ma il suo volto è nascosto in parte dal cappello. Non vedo i suoi occhi, né i suoi capelli. Solo una macchia rosata che deve essere il viso.

«Non sei mai stato un tipo originale.»

Commenta, ricordando, probabilmente, un’altra occasione in cui avevo utilizzato quella parola. Stringo i denti, sibilando a mezza voce un insulto che non proferivo da tempo.

«Dobe…»

«Teme…»

Ho un sussulto al sentirmi chiamare con quell’appellativo. Me l’hanno rivolto tante volte, ma lui è l’unico che riesce a dargli un’intonazione particolare. È il suo modo di fare, forse, che lo rende così familiare. È come se gli anni scivolassero via dai nostri corpi stanchi, facendoci tornare ragazzini. Indietro, ai giorni di quel Gruppo Sette in cui due bambini immaturi facevano a pugni, cercando di superarsi a vicenda.

«Dobe. – ripeto. E la distanza tra noi sembra alleviarsi un poco. Posso immaginare il suo volto distendersi, le labbra sorridere. – Dobe.»

«Dovresti rivolgerti con più reverenza all’Hokage, teme.»

Sbotta. Ma non è infastidito. Ghigno.

«Mi scusi, dobedaime

Mi sposto di lato per evitare il pugno diretto al mio viso. Chiudo gli occhi, in modo da percepire meglio i suoi movimenti. In breve, siamo sul pavimento a picchiarci come quando eravamo ragazzi.
Ed è bello rotolarsi per terra come due bambini, ridere delle offese che ci lanciamo contro e stancarsi per la lotta, restando sudati ed ansimanti sul pavimento. Fa bene. Fa sentire vivi.
Sono bastati pochi gesti ed il muro è crollato. Siamo noi. Sempre. Dobe e Teme, Teme e Dobe. Sorrido, quando lo sento ridere perché è riuscito ad atterrarmi. O almeno così crede. Scatto a destra e in poco tempo gli sono sopra, bloccandolo a terra.

«Ne passerà di tempo, prima che tu riesca a superarmi, dobe.»

Ghigno. So che potrebbe liberarsi, ma non lo fa. Si lascia battere, accontentandosi, ancora una volta, di rimanere indietro di quel passo che in realtà non ci ha mai diviso.
E finalmente, ce l’ho di fronte. Finalmente, posso vedere il suo viso. Apro gli occhi…

…no! No! No!
Io…

…non ci vedo.

 

Riconosco il campo di grano dall’odore d’estate che lo permane. Sono due ore che siamo qui, Naruto ha insistito per restare fino al tramonto. Gli piace descrivermi i colori e le sfumature del cielo. Ha una vera e propria passione per i tramonti.
Aspetto che il sole cali, lasciando che Naruto appoggi il capo sulla mia spalla. Distrattamente gli accarezzo i capelli, mentre ascolto le sue parole:

«E le nubi sono bluastre stasera. E il sole è un po’ nascosto, ma rosso rosso! E il cielo è tinteggiato d’arancione e giallo. Si vedono le prime stelle e…»

Certo, le sue capacità descrittive non sono – credo – all’altezza dello spettacolo, ma mi piace vedere l’impegno che mette per farmi pesare meno la mia cecità.
Non ho fatto in tempo a vedere il suo viso, ma ho comunque guadagnato il mio grano.

«Sasuke…»

Sento le sue dita stringersi attorno alla mia maglia, d’istinto lo stringo più forte a me.

«Dimmi.»

«Mi dispiace per la tua vista. Volevi vedermi… e io…»

Gli tappo la bocca. Cerco il suo viso con la mano; accarezzo le sue gote con la punta delle dita e seguo la linea delle sue labbra. Conosco a memoria ogni centimetro del suo corpo, tanto che mi basta un tocco per riconoscerlo.

«Ma io ti vedo, dobe. – mormoro, accarezzandolo. Le sue mani stringono la mia. – Ti vedo.»

Mentre lo bacio, l’odore del grano si mischia al suo.

E nel buio si sente il colore.

 

N/A:
È un esperimento in prima persona, ogni tanto mi prende lo schiribizzo di farne e di solito ne escono fuori delle cose prive di senso. Beh, questa è una di quelle, nonostante per me il senso ce l’abbia eccome.
Sasuke qua può sembrare un po’ troppo romantico, ma ha quasi sessant’anni, sta diventando cieco e ha tanti rimpianti sulle spalle. Credo sia normale per una persona anziana arrivare ad emozionarsi per poco, nonostante un carattere burbero. E Sasuke, diciamola tutta, è un tipo emotivo, anche se non lo dà a vedere.
Per quanto riguarda Naruto, diciamo che ho bellamente approfittato della narrazione in prima persona per evitare di approfondirlo. Spero solo che sia tratteggiato bene.
In ogni caso, sono felice di aver vinto. E ringrazio i giudici per gli splendidi giudizi e faccio i complimenti a tutte le altre partecipanti, specie alle due podiste: Kei_saiyu ed Ainsel.
A presto,
rekichan

   
 
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