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Autore: Mala Mela    29/01/2010    6 recensioni
{Erano passati venticinque anni dalla costituzione della quarta Repubblica Democratica di Corea: le precedenti erano sorte e cadute come castelli di carta, ripiegate su se stesse, distrutte dai propri alleati e dalle proprie ambizioni, sempre troppo pretenziose. Erano passati venticinque anni ed io, per la prima volta nella mia seppur breve vita, ne varcavo il confine.
Ci fermarono.
Controllarono il visto di mio padre: medico chirurgo. Un militare ci squadrò silenzioso, scrutando con attenzione il documento cinese che gli era appena stato porto, poi lo passò ad un suo sottoposto e indicò mio padre.
Lo sollevarono di forza e lo perquisirono, chiedendogli di aprire la valigetta in cuoio rovinato che portava sempre con sé: non trovarono che medicine.
Passarono a me che, nel frattempo avevo sperato di essere diventata invisibile.
« Lei è a posto! » gridò papà, cercando di divincolarsi dalla presa ferrea dei soldati. « È solo mia figlia! ».
Il primo militare parve capire, infatti sbraitò qualcosa in un dialetto incomprensibile e ci lasciò passare. Noi eravamo riusciti ad entrare, mentre migliaia di persone morivano nel tentativo di uscire.}
Storia di una ragazza, di un fermaglio, di un furto, di un criminale, di un patto, di una guerra dimenticata e di una grigia Pyongyang.
Genere: Romantico, Commedia, Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Hwoarang, Ling Xiaoyu
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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• Pyongyang, Luglio 2319

 

· Pyongyang, Luglio 2319

 

 

 

 

 

Erano passati venticinque anni dalla costituzione della quarta Repubblica Democratica di Corea: le precedenti erano sorte e cadute come castelli di carta, ripiegate su se stesse, distrutte dai propri alleati e dalle proprie ambizioni, sempre troppo pretenziose. Erano passati venticinque anni ed io, per la prima volta nella mia seppur breve vita, ne varcavo il confine.

Ci fermarono.

Controllarono il visto di mio padre: medico chirurgo. Un militare ci squadrò silenzioso, scrutando con attenzione il documento cinese che gli era appena stato porto, poi lo passò ad un suo sottoposto e indicò mio padre.

Lo sollevarono di forza e lo perquisirono, chiedendogli di aprire la valigetta in cuoio rovinato che portava sempre con sé: non trovarono che medicine.

Passarono a me che, nel frattempo avevo sperato di essere diventata invisibile.

« Lei è a posto! » gridò papà, cercando di divincolarsi dalla presa ferrea dei soldati. « È solo mia figlia! ».

Il primo militare parve capire, infatti sbraitò qualcosa in un dialetto incomprensibile e ci lasciò passare. Noi eravamo riusciti ad entrare, mentre migliaia di persone morivano nel tentativo di uscire.

Quello che i fuggitivi probabilmente non sapevano era che da nessun parte, né sotto l’ala protettiva della Cina –il mio paese natale-, né sotto quel dannatissimo trentottesimo parallelo avrebbero trovato libertà e fortuna. Ma il vero problema non era la Cina, né la Corea del Sud, né tantomeno la repubblica democratica: nel anno 2319 d.C. la piaga più grande che potesse affliggere il mondo eravamo noi, gli esseri umani.

L’intera costa occidentale degli Stati Uniti era stata completamente distrutta un secolo prima, a causa di un disastroso terremoto lungo la faglia di Sant’Andrea, e la regione dei grandi laghi ormai non aveva più ragione di chiamarsi in quel modo: un attacco nucleare e missilistico da parte della Russia aveva prima contaminato l’intera area, poi sterminato gli abitanti ed infine prosciugato interi bacini idrici; ora il deserto ricopriva il settanta percento della superficie dell’America del nord.

La foresta pluviale, una volta chiamata polmone del mondo, era stata completamente rasa al suolo nel 2020; in Africa imperversavano da decenni epidemie mortali e inarrestabili, logica eredità di una spietata guerra batteriologica, mentre le grandi città europee erano state polverizzate da devastanti bombardamenti e lotte intestine.

Nessuno, in nessun luogo, poteva dirsi al sicuro.

Prima che mio padre venisse mandato nei pressi di Pyongyang, io e lui vivevamo nel distretto di Huairou, nella periferia a nord-est di Pechino; andavo a scuola, uscivo con i miei amici, leggevo libri e guardavo film, vivevo una vita sostanzialmente normale.

Poi arrivò quella dannata lettera e fummo costretti ad un trasferimento forzato: dall’oggi al domani radunammo tutte le nostre cose e senza avere il tempo di renderci conto di ciò che stava accadendo partimmo.

Odiai la Repubblica Democratica fin dal primo istante.

Non appena misi piede nei quartieri dell’esercito, dove mio padre alloggiava in qualità di medico militare, sentii il grigiore di quel mondo lacerarmi la carne e penetrarmi le ossa. Attorno a me non vi erano che enormi palazzi in cemento armato, alcuni diroccati, alcuni vecchi, altri nuovi, ma tutti tristemente simili agli altri.

« I-insomma, non è poi così male qui » commentò mio padre, cercando di abbozzare un sorriso. « E poi… hai visto? La tua camera è più grande di quella che avevi a Huairou ».

Gli rivolsi un’occhiata scettica.

« Più grande e con meno mobili » osservai. Infatti all’interno di quelle quattro mura, che sarebbero diventate la mia stanza, vi era solo un letto in ferro battuto, un armadio a due ante ed una sedia. « Inoltre le macchie d’umidità le danno un non so che di vissuto ».

« Siamo solo stanchi » disse lui, massaggiandosi le tempie. « Abbiamo fatto un lungo viaggio, siamo spossati e demoralizzati. Vedrai che alla luce del giorno ti sembrerà tutto migliore ».

Sospirai. Lo speravo.

Il giorno seguente mi svegliai con i primi raggi del sole: nulla era cambiato.

Salutai mio padre con un bacio, poi mi sedetti di fronte a lui nella piccola cucina, cominciando a sorseggiare il mio tè.

« Avevi ragione » dissi, ostentando buon umore. « Ieri sera ero solo un po’ sconfortata. Non mi troverò male qui ».

Mio padre mi rivolse un’espressione carica di gratitudine.

« Ne sei certa? Posso sempre chiedere un trasferimento » tentò. Sapevo che non era vero: gli ordini venivano dall’alto, molto probabilmente non avevamo altra scelta.

Scossi la testa con vigore.

« Ma no, figurati! » cinguettai. « Non ti preoccupare ».

« Ora che me lo hai detto mi sento più sollevato. Temevo che potessi trovarti male… da quando è morta tua madre sai quanto mi dispiace doverti trascinare nei miei viaggi di lavoro ».

« Papà, cosa ho appena detto? ».

« Che non mi devo preoccupare, ma… ».

« Appunto! » esclamai contenta. « Starò benissimo, te lo prometto. Oggi andrò a fare un giro e vedrai che entro sera questo posto mi farà impazzire ».

Sì, letteralmente.

« Ora non stai un po’ esagerando? È pur sempre un quartiere dell’esercito, non un parco divertimenti ».

Scoppiai in una fragorosa risata.

« Si vede che mi sottovaluti, allora » risposi.

« Lo spero proprio, Xiaoyu » mormorò lui, alzandosi.

« Te ne vai già? » gli chiesi. « Speravo di disfare le valige insieme a te… ».

Mio padre scosse la testa.

« Devo visitare il campo sud, pare che il medico che mi ha preceduto sia stato un vero incompetente. Avrò suture da rifare e problemi vari… è meglio che mi metta all’opera fin da subito se voglio ottenere al più presto una promozione ».

« Capisco » risposi comprensiva, continuando a mordicchiare una fetta biscottata.

« Ma prima ho una sorpresa per te ».

A queste parole alzai gli occhi dalla mia colazione, piacevolmente stupita.

« Cosa? » domandai incuriosita. « Ma soprattutto, come mai?! ».

Lui rise.

« Devo per forza avere un motivo? » chiese, dirigendosi in camera. « Però potremmo considerarlo come un modo per scusarmi di averti portata qui ».

Tornò pochi attimi dopo, stringendo un mano un pacchettino avvolto in carta di giornale.

« Non guardare la confezione » mi avvertì. « Certe volte l’apparenza è fuorviante ».

Afferrai l’oggetto che mi stava porgendo senza smettere di sorridere e lo aprii con impazienza: gli strati di carta rovinata rivelarono una confezione di velluto blu, che a sua volta rivelò un piccolo ferma capelli.

« Era di tua madre… credevo di averlo perduto » mi rivelò. « L’ho ritrovato in un cassetto mentre facevo la valigia. Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere averlo ».

« Io… » non seppi cosa rispondere, quindi mi limitai ad annuire con gli occhi lucidi e la bocca spalancata. Lentamente presi il fermaglio tra le mani e me lo misi in testa.

Il verde della giada risaltava tra i miei capelli neri esattamente come faceva tra quelli di mia madre. Forse era un po’ troppo elegante per me e i fiori incisi troppo raffinati, ma sentivo già di amarlo.

« Grazie » dissi infine, recuperando l’uso della voce. « Ne avrò cura, te lo prometto ».

« Non ne dubito, Xiaoyu ».

Rimanemmo in silenzio per qualche istante, poi lui si schiarì la voce.

« Ehm, credo di dover andare ora » disse, cercando di riacquistare contegno. « Ci vediamo stasera, ok? ».

« Certo! ».

« Un’ultima cosa… stai attenta. Se vuoi esplorare i dintorni, cerca di rimanere sempre nel quartiere militare » mi avvertì. « Il resto della città non è altrettanto sicuro. Non farmi preoccupare, ok? ».

« No problem » concordai. « Fidati di me! ».

Già allora sapevo che non avrei mantenuto la parola.

 

 

Malgrado ciò che avevo sostenuto di fronte a mio padre, il ghetto dove vivevamo era una delle cose più desolanti che avessi mai visto. Più percorrevo le vie, più mi sentivo a disagio: avevo la tremenda sensazione di essere la cosa più colorata nel raggio di miglia e miglia.

In una città fatta di cemento e popolata da divise verde scuro, il mio abito rosa shocking attirava

l’attenzione in modo disarmante.

Con mio grande disappunto mi accorsi che la maggior parte dei negozi era chiusa, forse per fallimento. Grosse travi di legno erano state inchiodate in modo da sbarrare per sempre le saracinesche delle botteghe, mentre sotto una mano di vernice ormai scrostata erano ancora visibili le insegne.

Sbuffai: in un posto del genere perfino farsi degli amici mi sembrava impossibile.

Vagai senza meta fino all’ora di pranzo, attraversando strade e vicoli sempre uguali, ritrovando ovunque la stessa monotona desolazione.

Quando la mia pancia cominciò a brontolare entrai in un parco, una delle pochissime macchie di natura che avevo incrociato, e mi sedetti su una panchina pronta a consumare il mio pasto.

Estrassi dalla tracolla una scatoletta colorata e, una volta impugnate le bacchette, mi apprestai a mangiare la mia frittata di pollo. Non feci in tempo a masticare il primo boccone che venni distratta da un fruscio sospetto alle mie spalle.

Mi voltai di scatto e non vidi nulla, solo un cespuglio rinsecchito che nella calura di luglio non faceva che implorare un po’ d’acqua.

Indispettita tornai a concentrarmi sul mio pasto, quando ecco che il fruscio si fece più forte; questa volta mi bloccai per un istante, ma subito dopo tornai a mangiare, dando la colpa a qualche animale.

Purtroppo non fui abbastanza accorta, perché all’improvviso una mano mi sfilò il fermaglio dai capelli facendoli ricadere sulle spalle; mi girai di rapidamente e intravidi una figura che scappava tra gli arbusti.

« Ehi! » sbraitai.

Scattai in piedi, lanciando a terra il mio pranzo.

« Quello era il fermacapelli di mia madre! » scandii, cominciando a correre nella sua direzione.

Era un tipo basso, quasi quanto me, e molto agile. Si voltò per una frazione di secondo e quando mi vide alle sue calcagna, decise di correre ancora più rapidamente.

Non mi feci scrupoli e come lui scavalcai senza problemi le recinzioni del parco.

« Fermati » gridai, mentre lo inseguivo lungo intricati vicoletti. « Dove diavolo stai andando?! ».

Come ovvio non mi rispose, ma continuò a correre senza dare segni di cedimento.

Il paesaggio grigio del quartiere militare aveva lasciato il posto ad una serie di minuscole vie che, al contrario del ghetto, brulicavano di vita. Stranamente nessuno fece caso a noi, né alle mie grida infuriate, continuando a fare esattamente ciò che faceva prima.

Zigzagammo tra gruppetti di persone dall’aria decisamente poco raccomandabile, rischiammo di travolgere barboni e mendicanti, rovesciai inavvertitamente un barroccio pieno di verdura e per poco il ladro non venne travolto da un carro.

Continuai a rincorrerlo finché non sentii le forze venirmi meno.

« Fermati, figlio d’un cane! » biascicai.

Mi dolevano le gambe ed avevo il fiatone: non sarei riuscita a continuare in quel modo ancora per molto. Per mia fortuna anche il ladro cominciava a dare i primi segni di affaticamento: nella speranza di seminarmi, svoltò di colpo, entrando in un locale fumoso e affollato.

Non appena irrompemmo nel bar, lui per primo ed io al suo seguito, ogni rumore cessò; gli uomini al suo interno si bloccarono, fissandoci con ostilità.

« È lui » mormorò qualcuno.

« Già, ne sono certo » disse qualcun altro.

Io non mossi un muscolo, ma mi accorsi che il fuggitivo –nient’altro che un ragazzino rapido come una scimmia- aveva cominciato a tremare convulsamente.

« Spero per te che Hwoarang non ti trovi qui! » commentò un uomo, seduto ad un tavolo in penombra, prima di scoppiare in una fragorosa risata, seguito a sua volta da altri tizi.

« Ti farà a pezzi! ».

« Solo a pezzi? Siete ottimisti ».

Ancora non capivo cosa stesse accadendo. Mi guardai attorno confusa, ma nessuno sembrava dare peso alla mia presenza: l’attenzione di tutti era concentrata sullo schifoso ladro di fronte a me.

« Chi è che non dovrei trovare qui? ».

Una voce alle mie spalle fece zittire tutti nuovamente. Doveva trattarsi di quel HwoaHwo… oh, insomma, di quel tizio che voleva farlo a pezzi (con tutta la mia approvazione, tra l’altro).

Mi superò con poche falcate, essendo decisamente più alto di me, ignorandomi come tutti gli altri.

« Ah, sei tu » sibilò in direzione del ladro, poi fece scrocchiare le dita e si avvicinò a lui. « Dimmi, con che coraggio ti fai rivedere da queste parti, eh? ».

Il ragazzino non rispose, immobilizzato dalla paura.

« Dopo aver spifferato ai militari di quella partita di alcolici illegali in arrivo da Seul, una persona con un minimo di cervello avrebbe avuto l’accortezza di sparire » ringhiò direttamente al suo orecchio.

Per un attimo ebbi paura per lui. HwoHwoa… ehm, il ragazzo che aveva appena messo piede nel locale lo superava di una testa a dir poco e aveva l’aria di chi, solo volendo, avrebbe potuto staccare la testa di un uomo senza difficoltà.

« S-scusa Hwoarang » biascicò il ladruncolo con voce strozzata.

Gli occhi di Hwoarang lampeggiavano dalla rabbia.

« Scusa? » ringhiò nuovamente. « Hai una vaga idea di quanti soldi mi hai fatto perdere o sei troppo stupido anche per quello? Sai che li rivoglio tutti in contanti, vero? ».

Evidentemente in preda al panico, il ragazzino scosse febbrilmente la testa, poi arretrò di qualche passo, sbattendo contro di me.

In un istante accadde il finimondo.

Il ladruncolo si accorse di essere, per così dire, “accerchiato”. Ora aveva due scelte: affrontare me o affrontare Hwoarang.

Come era logico pensare, si girò verso di me e facendo appello a tutte le sue forze mi colse di sorpresa scaraventandomi a terra con un calcio in pieno stomaco. Caddi a rovinosamente, cozzando contro la parete, mentre lui si dava nuovamente alla fuga.

Hwoarang tentò di seguirlo, proprio come avevo fatto io, ma alcuni uomini dietro di lui lo fermarono.

« Non ne vale la pena » commentò uno, bloccandolo. « Vedrai che tornerà prima o poi. Inoltre puoi sempre prendere la ragazza come ostaggio… sono entrati insieme, è probabile che siano complici ».

Per un momento riconobbi la genialità dell’azione, poi mi ricordai che la ragazza in questione era la sottoscritta.

« Ehi, fermi » mormorai, ancora intontita per la caduta. « Cosa credete di fare? ».

Hwoarang mi afferrò con un braccio, sollevandomi come se non pesassi che pochi grammi.

« Ti prendiamo in ostaggio, ovvio » chiosò, squadrandomi con aria truce.

« Ma… mi ha appena dato un calcio! » strillai. « Come puoi pensare che sia sua complice? Sei idiota per caso? ».

« Modera le parole ragazzina, non sai con chi stai parlando » mi redarguì lo stesso uomo che poco fa aveva fermato Hwoarang. « Tutti i prodotti del mercato nero di Pyongyang passano attraverso le sue mani, dovresti portargli rispetto ».

« Rispetto o meno, io non sono complice di quel sudicio ladro » cercai di spiegare.

« E allora perché l’hai seguito fin qui? ».

Cominciai a spazientirmi.

« La parola sudicio ladro non vi dice nulla? » chiesi. « Lo stavo inseguendo, che diamine! ».

Hwoarang sbarrò gli occhi, per poi rivolgersi a me con tono canzonatorio.

« Vuoi farmi credere che quel ratto di fogna scappava da te? » mi chiese, trovando la cosa terribilmente divertente.

« Precisamente » sibilai, divincolandomi dalla sua presa e togliendo la polvere dal mio abito. « Io e lui abbiamo un conto in sospeso ».

« Ti ha rubato le caramelle o tirato i capelli per caso? » mi prese in giro. « Oppure, non so, ti ha sottratto l’altalena all’ultimo momento? ».

Io non risposi, limitando a socchiudere gli occhi.

« Capo, non è che una ragazzina, non ne vale la pena! » lo avvisarono, ma lui fece cenno di tacere.

Hwoarang mi squadrò nuovamente da capo a piedi.

« Non ti credo » sentenziò infine.

« Cosa?! » esclamai, contraendo il volto in una smorfia e stringendo i pugni. « Ma… dannazione, non senti il mio accento? Non sono nemmeno del posto! »

« Accento cinese… ancora più sospetto. Grazie per avermelo fatto notare: è un punto in più a tuo sfavore ».

Ma come diavolo ragionava questo?

Io e quel sorcio disgustoso abbiamo un conto in sospeso » sbraitai. « Non possiamo in nessun modo essere complici, lo vuoi capire? Lo odio e basta! ».

« Sì? Per caso ti deve trentamila won o, in alternativa, tre container ricolmi di alcolici destinati al commercio illegale? ».

« Ha rubato il fermaglio di mia madre » risposi, cercando di mantenere la calma.

« Beh, sai che perdita » sbuffò lui. « Sei sempre meno credibile, lo sai? Seung, Pak, portatela al piano superiore. Appena si calma potremo interrogarla con calma ».

« No, no, fermi! » gridai, dimenandomi furiosamente e cercando di sfuggire alla stretta dei due energumeni. « Sei fuori strada, io non c’entro nulla! ».

Cercai di urlare ancora, ma pochi attimi dopo persi completamente i sensi.

 

 

Ripresi conoscenza quando qualcuno molto, molto irritante mi rovesciò un bicchiere d’acqua gelida in faccia. Riaprii gli occhi gridando.

« Sveglia bella addormentata, non sei qui per fare il tuo sonnellino di bellezza ».

« Idiota » ringhiai cercando di afferrare i suoi stupidi capelli rossi, per accorgendomi subito dopo di avere mani e piedi legati.

La stanza era buia ed angusta, ed io mi ritrovavo sdraiata su scomodi sacchi di iuta ricolmi di caffè.

« Che ore sono? » domandai immediatamente, pensando a mio padre; gli avevo promesso che non mi sarei messa nei guai, e invece…

Hwoarang sollevò le sopracciglia, cercando di capire se lo stessi prendendo in giro o meno.

« Le quattro del pomeriggio » mi informò. « Hai dormito per ben tre ore ».

« Dormito? Dormito? » chiesi, scandendo bene le parole e celando il panico. « Sono svenuta! ».

« Sì, come vuoi tu mocciosa » rispose lui, sollevando le spalle con noncuranza.

« E non chiamarmi mocciosa! ».

« Solo se la smetti di strillare, per una buona volta » esclamò Hwoarang, dando un calcio ad un sacco di caffè. « La tua vocetta stridula mi perfora i timpani. Tu non parli: emetti ultrasuoni ».

« Almeno non do fiato alla bocca solo per dire cazzate » ribattei irritata.

« C’è gente a cui ho spezzato le braccia per molto meno » mi avvertì guardandomi in tralice.

Arricciai il naso indispettita, ma non parlai. Forse non era solo un montato, c’era anche la remota probabilità che facesse sul serio.

« Allora » incalzò « Ti decidi a confessare? Sai o no dove si nasconde quello schifoso ladro? ».

« Ovviamente no, io non c’entro nulla con tutta questa storia, quante volte devo dirtelo?! ».

« Allora dimostrami di avere un alibi convincente, no? »

« Slegami almeno le caviglie, sto cominciando a perdere sensibilità dei piedi » gli chiesi, mantenendo questa volta un tono di voce normale.

« Che piaga che sei » sbottò lui, cominciando ad allentare le corde. « Se sarai credibile, ti lascerò andare. Se e solo se. Non mi fido completamente di te ».

Sbuffai, allungando le gambe per sgranchirle.

« Già, perché tra i due sono io la criminale incallita ».

« Criminale incallito ma di parola » precisò Hwoarang, gonfiando il petto.

« Sì » commentai scettica. « Se ti piace crederlo… ».

« Smettila di cambiare argomento, dannazione. Questa è una tecnica tipica dei furfanti! ».

Scandalizzata spalancai la bocca senza emettere un suono.

« Beh? Parla! ».

« Sei un po’ duro d’orecchi » borbottai. « Te l’ho già detto: ha rubato il fermaglio di mia madre ».

« Questa è una vecchia scusa… » sminuì. « Nient’altro da dichiarare? ».

« Sì: dei un deficiente! ».

« Ti conviene smetterla con gli insulti se non vuoi tornare legata come un salame ».

Sospirai sconsolata, ma poi cominciai a parlare.

« Mi chiamo Xiaoyu, mi sono trasferita da Huairou solo ieri, mia madre è morta, mentre mio padre è un medico che lavora per l’esercito ».

« Ecco, sapevo che c’era qualcosa sotto » commentò amareggiato. « Sei una spia dell’esercito ».

« Cosa? No! Lasciami finire di raccontare almeno » lo supplicai, tirando calci al vuoto. « Questa mattina mio padre mi ha dato quel fermaglio, aveva l’aria di essere molto prezioso per lui. Purtroppo mentre esploravo il nuovo quartiere quel… quel figlio d’un cane me l’ha rubato. Non ho potuto fare altro che rincorrerlo attraverso la città ed ora eccomi qui. Legata. In ostaggio. Accusata di essere complice di quell’essere inqualificabile » conclusi acida.

« Vuoi farmi credere che sei riuscita a rincorrere Jae-hi dal ghetto militare fin qui? » domandò incredulo. « Sono.. sbalordito ».

« Te l’ho detto, ha rubato il fermaglio di mia madre » dissi a voce bassa, mentre mi si inumidivano gli occhi. « Io farei qualsiasi cosa per riaverlo indietro. È l’unica cosa che mi è rimasta di lei ».

« Ah, dannazione! Te recupero io quello stupido fermacapelli, basta che ora non ti metti a piangere » sbottò, palesemente a disagio.

Pensai di cogliere la palla al balzo.

« Davvero? ».

« Cosa?! ».

« Recupererai il fermaglio? ».

« Io… insomma, dicevo così per dire ».

Non parlai, lasciando che due enormi lacrime mi luccicassero ai lati degli occhi.

« Ok, ok, basta che la smetti! Non sopporto le donne che piangono, men che meno le bambine ».

« Quindi ora mi credi? » chiesi trionfante.

Hwoarang sorrise spavaldo.

« Ho ancora qualche ragionevole dubbio su di te » disse. « Ad esempio: perché qualcuno che non vorrebbe farsi notare –o passare dei guai- se ne andrebbe in giro con un vestito rosa? ».

« Forse perché a differenza di voialtri questo qualcuno ha una vaga idea della moda » risposi calma. « Ora non è che mi slegheresti anche le mani? Così prima ti strozzo e poi torno a casa ».

Il mio sequestratore cominciò inaspettatamente a ridere.

« Tu non mi farai un bel niente » mi prese in giro, slegandomi. « Ora vedi di sparire! Quando riuscirò a prendere Jae-hi, sarò io a farmi vivo ».

« Non se ne parla nemmeno! » esplosi. « Voglio partecipare alle ricerche, voglio mettere le mie mani su quel rifiuto della società e strappargli la pelle dal volto in maniera lenta e dolorosa ».

« Per quanto la tua idea mi alletti… no, non se parla nemmeno » sbottò. « Questo non è posto per una bambina ».

Ignorai quel fastidioso commento per la millesima volta, quindi mi rialzai e mi ravvivai i capelli, cercando di darmi un tono.

« E chi mi assicura che manterrai la parola? ».

« Dubiti di me? » chiese, esibendosi in un sorriso smagliante.

Alzai le spalle.

« Tu dubiti di me, io dubito di te » chiosai. « Mi pare logico ».

Hwoarang si massaggiò le tempie, evidentemente esasperato dalla situazione.

« Mi stai facendo venire un tremendo mal di testa, sai? » disse.

« Peggio per te, non avresti dovuto farmi trascinare fin qui » mi ritrovai a rispondere. « Inoltre come faccio a sapere che agirai tempestivamente? Probabilmente ora il mio fermaglio sarà già stato venduto per un decimo del suo valore e in viaggio per chissà quale continente… ».

« E così si elimina il problema alla radice! » esclamò lui, giubilante. « Nessun fermacapelli, nessun problema. Ora vuoi, per favore, sparire? ».

« No! Non siamo certi che l’abbia realmente venduto » obbiettai, piazzandomi tra lui e la porta, con il mento alzato e le mani ai fianchi.

« Cosa ti aspetti che faccia, ragazzina? Che sguinzagli tutti i miei sottoposti per l’intera Pyongyang oggi stesso? » domandò lui, avvicinandosi fino a sovrastarmi.

Deglutii rumorosamente, chiaramente messa a disagio dalla situazione.

« Ti deve pur sempre ventimila won » mormorai, facendomi coraggio.

« Trentamila » puntualizzò lui, serrando la mascella con forza.

« Ecco, ancora peggio » tentai di convincerlo. « Senti il mio piano: prima prendiamo Jae-hi, poi io lo torturo finché non mi ridà il fermaglio, successivamente tu lo torturi finché non ti ridà i soldi, infine ce la filiamo ed io sparisco per sempre ».

Hwoarang tacque, appoggiandosi con entrambe le mani alla porta dietro di me.

« Mi piace » commentò dopo un attimo di riflessione. « Soprattutto la parte dove tu sparisci per sempre » concluse sorridendo malignamente.

Nonostante la posizione, trassi finalmente un sospiro di sollievo; era fatta.

« Ehm. Bene » dissi. « Quindi… insomma…come ci teniamo in contatto? ».

« Presentati domani alla metropolitana di Sadong » ripose senza un attimo di esitazione. « Alle otto e trenta, non un minuto prima, non uno dopo. Intesi? ».

Annui rapidamente nel timore che si rimangiasse la parola data.

« Beh, cosa aspetti? Vattene! » mi intimò.

« Lo farei, se solo tu non mi tenessi, ehm, inchiodata alla porta » tentennai, arrossendo.

« Ah, giusto ».

Non appena Hwoarang si spostò, io aprii la porta e corsi fuori da quel posto tremendo il più velocemente possibile; non mi guardai indietro nemmeno per vedere la sua espressione. Oltrepassai nuovamente la fumosa sala del bar e percorsi quasi alla cieca il complicato intreccio di strade e vicoli, raggiungendo finalmente il quartiere militare stanca ed ansante.

Mi trovavo a Pyongyang da meno di ventiquattrore e nel frattempo ero riuscita, nell’ordine, a mentire a mio padre, perdere un oggetto preziosissimo appartenente a mia madre, entrare nel covo di un’organizzazione criminale operante nel mercato nero, farmi sequestrare per una manciata di ore, perdere i sensi, riprendere conoscenza ed allearmi con uno degli individui meno raccomandabili dell’intera nazione.

Quello era senz’altro un record per chiunque.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

___________

Xiaorang in due capitoli (questo è solo il primo, cominciate pure a disperarvi!), ufficiosamente dedicata a Valy, ovvero colei che crea, supporta ed alimenta le mie follie letterarie <3

Ci vediamo al prossimo aggiornamento.

 

Clà

 

   
 
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