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Autore: Ray    26/06/2003    4 recensioni
Quando l’Agnello aprì il quinto sigillo, vidi sotto l’altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano resa. E gridarono a gran voce: ‘Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e verace, non farai giustizia vendicando il nostro sangue sugli abitanti della Terra?’
Genere: Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Note iniziali assortite

Dragon Ball e tutti i personaggi relativi sono proprietà di Akira Toriyama; i personaggi introdotti in The Sixth sono di mia proprietà.

Questa fanfiction è stata scritta per divertimento personale senza fini di lucro; chiunque voglia pubblicarla sul proprio sito è invitato a chiedermi il permesso prima (ilray@hotmail.com). Chi riceve la mia autorizzazione a pubblicarne anche solo una parte ha il permesso implicito di pubblicare anche le altre, a meno che io stesso non specifichi diversamente; in ogni caso, la fanfiction deve essere pubblicata integralmente, incluse queste note iniziali, e senza alcuna modifica (sarei comunque grato a chiunque mi segnalasse errori grammaticali e/o di battitura, in modo che io stesso possa provvedere alla correzione). Indipendentemente da qualsiasi circostanza, la fanfiction resta di mia proprietà e mi riservo il diritto di chiederne e concederne la pubblicazione a qualsiasi sito (o altro mezzo di comunicazione) io ritenga opportuno. Il permesso di pubblicare The Sixth è automaticamente negato a qualsiasi sito (o altro mezzo di comunicazione) che richieda ai propri autori l’esclusiva sulle fanfiction pubblicate. So benissimo che questa precisazione può dare l’idea che io sia uno che se la tira, ma capitemi: mi piace pensare che il frutto della mia opera sia gestito da me. Sono convinto che chiunque scriva fanfiction mi possa capire perfettamente.

Se il sito prevede una breve introduzione alla storia, questo passo dell’Apocalisse di Giovanni può andare bene per dare un’idea di quello che accadrà e creare una certa aspettativa:

"Quando l’Agnello aprì il quinto sigillo, vidi sotto l’altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano resa. E gridarono a gran voce: ‘Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e verace, non farai giustizia vendicando il nostro sangue sugli abitanti della Terra?’"

La storia si svolge otto anni dopo la fine di Dragon Ball Z e può essere considerata come una versione alternativa di Dragon Ball GT; potete quindi immaginarvi i personaggi così come compaiono nell’ultima serie animata (Goku è adulto e Vegeta non ha i baffi). Le età dei protagonisti sono basate su calcoli miei, che, essendo esatti, non coincidono necessariamente con la cronologia ufficiale. Quindi, facendo un breve riepilogo:

Goku e Chichi: 53 anni

Bulma e Vegeta: 58 anni (Bulma dovrebbe essere più giovane di un anno di Vegeta, ma, come notavo sopra, la cronologia ufficiale è errata in più punti)

Gohan e Videl: 34 anni

Trunks: 26 anni

Goten: 25 anni

Crilin: 54 anni

Pan: 12 anni

Questo per quanto riguarda le età note. Ho arbitrariamente deciso che Marron abbia 23 anni (non ho trovato informazioni in merito, ma mi sembra plausibile) e che Bra ne abbia 15. So benissimo che, secondo la cronologia ufficiale, la figlia di Vegeta avrebbe un anno meno di Pan, ma mi sembra un controsenso rispetto a quanto si vede nei cartoni animati; in questo caso, ho preferito affidarmi al buon senso, piuttosto che a Toriyama. In fin dei conti, l’idea che abbia 7 anni alla fine di Dragon Ball Z mi pare credibile.

Fine delle precisazioni, cominciamo lo spettacolo.

Ray’s

The Sixth

Part 01 – Awakening

 

Il professore guardò pensosamente il ragazzo seduto davanti a lui e sospirò. Si pulì gli occhiali con calma, mentre la luce del sole, che entrava dalle ampie vetrate della sala dell’università della Città dell’Ovest si rifletteva sul suo capo glabro. Alzò lo sguardo dalle lenti e puntò nuovamente gli occhi sul giovane. Era convinto che quel ragazzo sapesse benissimo come stavano le cose. E allora perché sorrideva? Il docente decise di mettere subito in chiaro la situazione: "Mi dispiace, signor Son Goten" disse mentre i suoi incisivi sporgenti sembravano voler schizzare fuori dalle labbra "Credo che dovremo vederci tra un paio di mesi". "Ancora?" domandò Goten mentre un’espressione di disappunto gli si dipingeva in viso. "Capisco che la cosa possa seccarla," replicò il professore sistemando le bacchette degli occhiali sulle sue orecchie vagamente a punta "ma lei deve essere consapevole che non posso farle passare questo esame con la sua preparazione attuale. Studi di più e si ripresenti qui al prossimo appello". Sospirando, Goten si alzò dalla sedia e fece per dirigersi verso l’uscita della sala. Poi, si arrestò all’improvviso e si girò verso il professore. "Sì?" chiese l’uomo "C’è qualcosa che vuole dirmi?". "Una cosa ci sarebbe" rispose Goten assumendo un’espressione pensosa "Lei ha mai fatto cinema?"

"Io?" domandò il professore sorpreso per una domanda simile "No, perché?"

"Niente. È che mi sembrava di averla vista in un film"

"Davvero?" il docente sapeva di non essere un bell’uomo e voleva crogiolarsi almeno un po’ nell’idea di venire paragonato a un attore "E quale?"

"Nosferatu"

Il professore balzò in piedi e batté le mani sulla scrivania: "Fuori di qui!" gridò con gli occhi che sembravano schizzargli fuori dalle orbite "E si auguri di trovarmi di buon umore al suo prossimo appello!".

Sogghignando, Goten riprese a trotterellare verso l’uscita.

Sorridendo a propria volta per la battuta, Goku si alzò dal banco sul quale si era accomodato e seguì il figlio: "Allora?" gli chiese "Andiamo in quella gelateria che abbiamo visto venendo qui?" "Certo!" replicò Goten; un attimo dopo, un fastidioso suono intermittente interruppe i due. "Pronto?" disse Goten rispondendo al cellulare "Oh, sei tu, Palace… Sì, sono in città. L’esame? Ehm… Lasciamo perdere. Senti, io sto andando in gelateria con mio padre, raggiungici lì, così…". Il giovane non riuscì a terminare la frase: sentì una specie di pinza afferrarlo per l’orecchio destro e tirarlo verso il basso. Spostando lo sguardo verso la fonte del dolore, incontrò il volto irato di sua madre. Non gli ci volle molto per vedere che anche Goku aveva subito lo stesso trattamento. Tenendo i due uomini per le orecchie, Chichi ringhiava minacciosamente. "Goku," chiese spostando lo sguardo sul suo intimorito consorte "hai idea di quanto tempo sia che tuo figlio è fuori corso? E poi, quando gli va male l’ennesimo esame, non ha altro di meglio da fare che prendere in giro il professore!". "Non mi sembra un grosso problema…" balbettò Goku cercando di calmare sua moglie "Tanto può rifare l’esame tra due mesi, no?" "Questa storia, va avanti da troppo tempo!" sbottò la donna, quasi sull’orlo di una crisi isterica; poi, rivolgendosi a suo figlio: "Se non hai voglia di studiare, trovati un lavoro! Non sai quanto possa essere appagante lavorare duramente tutto il giorno!"

Trunks starnutì violentemente. Tirando su con il naso, si sistemò gli occhiali. Non gli sembrava di essere raffreddato. Ma il problema principale, adesso, era che aveva starnutito sulle pratiche che stava esaminando sulla sua scrivania. Già, le pratiche. Lavorare tutto il giorno non era per niente divertente, tanto più quando si era il presidente della Capsule Corporation, una multinazionale che richiedeva attenzione costante. Meno male che era venerdì: ancora un paio d’ore di ufficio, e poi via per il week end: aveva un bel programmino in mente. Sorridendo e chiudendo gli occhi, appoggiò il mento sulle mani puntellando i gomiti sulla scrivania… Sognare a occhi aperti, certe volte, era l’unico modo per sfuggire alla routine quotidiana di un lavoro noioso. Quasi non si accorse che la sua segretaria era appena entrata nell’ufficio. "Signor presidente…" disse abbassando il capo fino all’altezza di quello di lui "Si svegli, signor presidente… Si svegli… Si svegli!"

Stava dormendo da tanto tempo. Troppo. Aprì lentamente gli occhi e quello che vide fu un sudario di oscurità che lo avvolgeva. Non ricordava quanto tempo fosse passato da quando si era addormentato. Secoli, forse millenni; sapeva solo che era ormai il momento di svegliarsi e non solo per lui. Sapeva di avere un lavoro da fare, ma non sapeva perché. Sapeva di dover adempiere il proprio compito prima di dire che la sua vita fosse completa. Fece per alzare un braccio, ma non riuscì a stenderlo completamente: il sepolcro nel quale era rinchiuso glielo impediva. Ma non era una barriera che potesse durare. Spinse di lato il pesante coperchio di pietra del sarcofago e si mise a sedere. Buio. Ne aveva avuto il sentore già prima di svegliarsi, ma ora era una certezza: era successo qualcosa in quel posto. Non era come se lo ricordava. Nonostante i suoi occhi potessero vedere anche nell’oscurità, il fatto che quel luogo, normalmente illuminato a giorno, fosse avvolto nelle tenebre era strano. Ma tutto questo non aveva molta importanza: la missione andava compiuta comunque.

‘Quando l’Agnello sciolse il primo dei Sette Sigilli, vidi e udii il primo dei quattro esseri che gridava con voce tonante: "Vieni!", ed ecco mi apparve un cavallo bianco e colui che lo cavalcava aveva un arco, gli fu data una corona e poi egli uscì vittorioso per vincere ancora’

Dende alzò il capo istintivamente. Aveva percepito qualcosa di strano. Sapeva benissimo che guardarsi intorno sarebbe stato inutile, anche se provò il desiderio irrazionale di farlo: non c’era niente da vedere nella buia stanza del santuario di Dio nella quale sedeva in meditazione. E poi, quella strana sensazione veniva da fuori. "Mr. Popo?" chiamò il namekiano sapendo che non avrebbe dovuto aspettare molto. Silenzioso in maniera inquietante, come era suo solito, l’attendente di Dio fu pronto ad accorrere al fianco del suo diretto superiore: "Sì, signor Dende?". "Dov’è Piccolo?"

"È andato ad allenarsi qui vicino. Devo chiamarlo?"

"Sì, è proprio il caso. Anzi, forse dovremmo chiedere anche a Goku e gli altri di venire qui"

Se il volto di Mr. Popo avesse potuto tradire una qualche emozione, probabilmente sarebbe stato sorpreso: "La situazione è così grave?"

"Non lo so ancora" sospirò Dende "Ma preferirei non correre rischi. Avrai avvertito anche tu l’aura che è appena comparsa, no? Il problema è che non riesco a capire a chi appartenga"

"Non si preoccupi: anche Piccolo se ne sarà accorto"

Il rombo delle acque della cascata, che si infrangevano nel lago sottostante dopo un salto nel vuoto di più di trenta metri, non impedì a Piccolo di accorgersi che non era solo. Anche se non avesse avuto la capacità di percepire le aure altrui, ci sarebbe arrivato comunque: veniva a meditare davanti a quella cascata da più di tempo di quanto gli importasse di ricordare e ormai aveva una simbiosi quasi completa con l’ambiente circostante. Conosceva lo stato di salute delle popolazioni di pesci che vivevano nel lago; sapeva quanto impiegava una goccia d’acqua che cadeva dalla cascata a toccare le acque sottostanti; sapeva esattamente dove i grandi dinosauri dal becco d’anatra andavano a deporre le uova e sapeva quanti giovani nascevano ogni anno; sapeva quanti di quei giovani non sarebbero arrivati all’età adulta, stroncati dalle malattie, da un incidente o dalle fauci di un tirannosauride. E sapeva che adesso c’era qualcosa di strano dietro la cascata. Senza abbandonare la sua abituale posizione di meditazione, estese la propria aura dietro di sé, come a scandagliare le acque che scendevano dietro la sua schiena. La risposta non si fece aspettare. Un paio di mani si protese dalla cascata, passando attraverso l’acqua quasi fosse stata inesistente. Piccolo sapeva esattamente che quelle mani erano ormai a pochi centimetri dal suo volto, ma rimase immobile: aveva la netta sensazione che, se davvero il proprietario delle mani avesse voluto ucciderlo, lui non avrebbe potuto farci niente. Una goccia di sudore gli scivolò lungo la fronte Quasi furtivamente, senza girare la testa, spostò lo sguardo quanto più indietro poté, sopra la sua spalla sinistra. Ora vedeva una delle mani: calzava un guanto metallico bianco; le dita, sproporzionatamente lunghe, erano dotate di minacciosi artigli. Piccolo sentì il proprio battito cardiaco aumentare all’impazzata. Odiava l’idea di perdere il controllo: gli dava l’impressione di essere un incapace. Si costrinse a restare immobile mentre le dita gli premevano contro la pelle del viso, passandoci sopra senza ferirla, nonostante fossero affilate come rasoi. Poi accadde. La mani si ritrassero improvvisamente e il corso d’acqua della cascata sembrò interrompersi quando una figura umana infranse la barriera liquida e uscì finalmente all’aperto. Quando il nuovo arrivato fu uscito dalla cascata, Piccolo era già balzato diversi metri più avanti, giratosi verso il suo misterioso assalitore. Il namekiano squadrò l’uomo con un misto di curiosità e stupore. Perché quello che lo aveva minacciato così apertamente era senz’altro un uomo. Un uomo la cui armatura bianca proteggeva il torace, le spalle, gli avambracci e le gambe dalle ginocchia in giù. La corazza sul petto sembrava essere composta di tre strati, i più profondi dei quali sporgevano man mano che l’armatura andava verso il centro del petto; le protezioni sulle spalle erano costituite ciascuna da una piccola placca metallica, da sotto la quale ne spuntava una più lunga. Un corto mantello bianco, dal bordo frastagliato e nero, pendeva da quelle protezioni. Un panno anch’esso bianco, anch’esso dal bordo nero, scendeva invece dalla cintura metallica, coprendo dei pantaloni anch’essi immacolati. Il viso dell’uomo, la cui età non si sarebbe potuta dire, era coperto, nella parte sinistra, da una placca metallica che sembrava mimare le fattezze del proprietario e che pareva quasi essere inchiodata alla faccia. Una chioma di arruffati capelli neri, interrotti nel centro da una striscia inspiegabilmente bianca, scendeva fino alla nuca; due lunghi ciuffi immacolati si protendevano sopra la faccia, fin quasi a toccare il mento. E poi c’erano i guanti. Quei guanti metallici dagli artigli lunghissimi, che mimavano le dita umane in un’assurda e grottesca parodia.

Piccolo si sentì fastidiosamente disorientato a quella vista. Non sapeva perché, ma gli sembrava che quell’uomo, che ora levitava davanti alla cascata, solo pochi metri di fronte a lui, avesse un’aria completamente aliena. Eppure, a parte quegli strani capelli bianchi, non c’era niente di strano in lui. "Chi sei?" chiese il namekiano accigliandosi anche più del solito. Il nuovo arrivato alzò il capo verso il suo interlocutore: "Dovrei essere io a chiederlo" rispose con un sogghigno "L’ultima volta che sono stato qui, non c’era gente con la pelle verde, quattro dita per mano e le orecchie a punta". Era già stato lì? Ma quando? Quello era il posto i cui Piccolo si allenava da più di trent’anni, come era possibile che qualcuno fosse stato lì senza che lui se ne fosse accorto? Il namekiano finse di non essere sorpreso per la domanda: "Forse dovresti chiedermelo tu," ammise "però te l’ho chiesto prima io. Allora, chi sei?". "Mi chiamo Mesembria" fu la risposta, mentre i suoi occhi neri e inquietanti si posavano sul guerriero dalla pelle verde "E tu?". "Piccolo" rispose questi senza scomporsi. L’uomo che aveva detto di chiamarsi Mesembria si guardò intorno. "Già," considerò riportando lo sguardo sul suo interlocutore "questo posto è davvero cambiato. Tu cosa sei esattamente?"

"Continui a farmi domande che dovrei porti io…"

"E tu continui a darmi risposte che non mi soddisfano. Ma non sono qui per soddisfare la mia curiosità, in fin dei conti. Allora, combattiamo?"

Piccolo restò un po’ spiazzato per quella proposta tanto esplicita. Certo, si era aspettato che quel tale lo avrebbe attaccato, ma non che gli avrebbe chiesto di combattere senza apparente motivo. Eppure, benché la sua sensazione di impotenza non fosse diminuita, decise che sarebbe stato un buon modo per valutare le capacità di quell’individuo: "D’accordo, sono pronto". Senza aspettare una sola frazione di secondo, Mesembria volò verso il nemico con una velocità straordinaria; in un attimo, Piccolo si trovò sommerso in una scintillante tempesta di artigli che gli turbinavano intorno apparentemente a caso. Eppure, sottovalutare uno solo di quei colpi si sarebbe potuto rivelare fatale. Finché, l’ennesimo colpo di Mesembria colpì il vuoto. Davanti a lui non c’era più nessuno. Ma non era una sorpresa: con una rapida rotazione, il guerriero si voltò, appena in tempo per ribattere un Makanko Sappo che altrimenti gli avrebbe trapassato il corpo. Mentre il colpo di Piccolo andava a infrangersi contro una montagna, tagliandola letteralmente in due, Mesembria alzò lo sguardo verso il suo avversario. Si era spostato con una rapidità incredibile, quasi in un movimento istantaneo. Mesembria sorrise. Poi diede le spalle a Piccolo e cominciò a volare verso oriente, apparentemente intenzionato a lasciare il luogo dello scontro. "Aspetta!" esclamò il namekiano "Il nostro combattimento non è ancora finito!". "Invece sì" replicò Mesembria senza voltarsi "Durante il nostro scontro io ho lanciato contro di te ottantasette colpi d’artiglio, ma tu ne hai visto solo ottantacinque. Gli altri due ti hanno preso". "È vero ammise piccolo mentre il taglio sul suo bicipite destro e quello sulla sua coscia destra cominciavano a bruciare "ma non ti illudere che basti questo per uccidermi". L’uomo uscito dalla cascata sogghignò: "Ma io non ho mai detto di volerti uccidere. Anzi, uccidere è contrario ai miei principi. Va bene così, non ti preoccupare"

Un’esplosione assordante di energia dorata squarciò l’oscurità della notte; le distese rocciose furono polverizzate quasi all’istante dalla deflagrazione scintillante. Mentre un gruppo di uomini e donne dai capelli neri scrutava con apprensione i filamenti quasi solidi di energia spirituale e le scariche elettriche che saturavano l’aria, nell’ormai morente esplosione dorata si stagliò la figura di un individuo dai capelli brillanti. Il viso del Super Saiyan, che avanzava lento e inesorabile verso i suoi simili più deboli, era a malapena visibile, ma un particolare di quel volto era chiaro a tutti gli astanti: il sadico ghigno di trionfo che contorceva quelle labbra parlava della soddisfazione di chi aveva appena massacrato centinaia, forse migliaia di suoi simili, ebbro per la forza mostruosa che l’improvvisa trasformazione gli aveva donato. Alzando il capo, il Super Saiyan guardò minaccioso le persone che stavano ormai aspettando solo la propria fine, consapevoli di essere ormai a un passo dall’abisso. Quando il superguerriero lanciò il suo urlo di battaglia, un’altra esplosione dorata devastò la superficie del pianeta.

"Ma è davvero andata così?" chiese Bra sporgendosi verso il sedile sinistro della macchina, dove suo padre stava guidando verso casa. "Questo è quello che mi ha raccontato mio padre" rispose Vegeta "Ma nemmeno lui era nato quando comparve il primo Super Saiyan". Bra non sembrava completamente soddisfatta dalla spiegazione: "E dopo cosa accadde?". "La civiltà Saiyan su quel pianeta fu completamente distrutta dal Super Saiyan. Fu allora che i nostri antenati migrarono nella spazio alla ricerca di una nuova casa. Arrivarono su di un mondo chiamato Plant, sterminarono la popolazione locale e chiamarono quel pianeta Vegeta, in onore di mio padre, che aveva guidato gli attacchi contro gli autoctoni"

"Ma dove si trovava il pianeta originariamente abitato dai Saiyan? Esiste ancora?"

"Non lo so. Quel mondo era diventato inabitabile a causa del Super Saiyan e probabilmente fu completamente distrutto"

Questo era uno dei rari momenti in cui Vegeta parlava senza infilare un’imprecazione ogni tre parole: nonostante avesse raccontato questa storia a sua figlia già diverse volte, lei continuava a chiedergli nuovi particolari in merito. E a Vegeta piaceva sempre poter narrare qualcosa sulla sua razza; soprattutto, lo confortava l’idea che ci fosse almeno un Saiyan che avesse un qualche interesse per i propri antenati. Gli piaceva ripetere quel racconto a Bra, anche se si sarebbe fatto passare un furgone su un piede piuttosto che ammetterlo. All’idea che il pianeta dei Saiyan potesse ancora esistere, la ragazza si lasciò trascinare dall’entusiasmo: "Non credi che potremmo chiedere alla mamma di costruire un’astronave e andare a cercare questo pianeta? Potrebbero esserci dei Saiyan superstiti, no? E poi, non trovi che sarebbe divertente? E poi, io potrei saltare qualche giorno di scuola! E poi, forse ci sarebbe qualcuno che potrebbe riconoscerti come re, e di conseguenza io sarei una principessa… Non ti piace l’idea?". Ecco, questo era qualcosa di sua figlia che Vegeta detestava: quando cominciava a parlare a vanvera, fermarla era praticamente impossibile. Quando usciva per farsi un giro in macchina, aveva sempre il timore che Bra si accomodasse su uno dei sedili e decidesse di accompagnarlo, costringendolo puntualmente a interminabili sessioni di shopping per i centri commerciali della città. Più volte Vegeta aveva cercato di convincere sua moglie a confiscare le carte di credito di Bra, armi che, in mano all’adolescente più ricca del mondo, avevano un potenziale letale. E invece, Bulma si era sempre rifiutata, sostenendo che le uscite per lo shopping erano un momento di aggregazione tra padre e figlia di cui c’era bisogno, considerato che il principe dei Saiyan passava buona parte della giornata ad allenarsi nella gravity room.

L’auto si fermò davanti all’enorme edificio a cupola che era la Capsule Corporation; Bra fu la prima a scendere, scaricando velocemente una mezza dozzina di pacchi che quasi traboccavano dal bagagliaio. Un attimo dopo, Vegeta premette un piccolo tasto sul fianco della macchina: in un’esplosione di fumi rosati, l’auto sparì per lasciare il posto a una piccola capsula.

"Mamma!" esclamò Bra, le braccia ingombre di scatole assortite, facendo per spalancare la porta con un piede "Siamo a casa!". "Era ora!" replicò Bulma aiutando la figlia ad aprire. "Ciao!" disse Goku salutando la ragazza con un cenno della mano. "Oh, sei qui anche tu, Kakaroth?" chiese Bra poggiando i pacchi sul divano, proprio vicino a dove era seduta Chichi. ‘Kakaroth’ sospirò: erano anni che cercava di convincere Bra a chiamarlo Goku, ma non c’era stato verso di farle cambiare abitudini. Da piccola aveva sentito suo padre chiamarlo Kakaroth e da allora lo aveva etichettato con quel nome. Pratica che Vegeta non aveva cercato di scoraggiare in alcun modo. Il principe dei Saiyan entrò proprio in quel momento: "Cosa ci fai qui?" domandò acido appena vide Goku, praticamente senza prestare la minima attenzione a Chichi. Prima che l’altro Saiyan potesse rispondere, Bulma si frappose fra lui e il marito: "Erano qui per assistere a un esame di Goten e sono passati a trovarci. Naturalmente, li ho invitati a restare per cena". Vegeta sbuffò, poi spostò sua moglie di lato e si rivolse a Goku: "Se proprio hai voglia di restare qui, almeno renditi utile. Andiamo nella gravity room". "Molto volentieri" rispose l’ospite sorridendo. Aveva rinunciato ad accompagnare Goten alla gelateria proprio nella speranza che Vegeta gli offrisse un combattimento. Senza contare che, in un inspiegabile quanto insolito impeto di tatto, aveva pensato che la sua presenza potesse essere importuna tra suo figlio e la sua ragazza.

Quando i due uomini arrivarono alla gravity room e iniziarono gli esercizi di riscaldamento, entrambi sapevano cosa aspettarsi. Sin da quando si erano conosciuti per la prima volta, circa trent’anni prima, Goku e Vegeta erano stati rivali. Si erano battuti in un paio di occasioni e avevano sempre cercato di superarsi a vicenda. Ciascuno di loro sapeva di poter trovare nell’altro un degno avversario. "Regolo la camera a 300 G" dichiarò Vegeta senza aspettarsi una risposta: quando combattevano lì dentro, quella era la gravità abituale. I due Saiyan si misero uno di fronte all’altro e si squadrarono in attesa dello scontro.

‘Quando l’Agnello aprì il Secondo Sigillo, udii il secondo essere vivente che gridava: "Vieni!". Allora uscì un altro cavallo, rosso fuoco. Al colui che lo cavalcava fu dato il potere di togliere la pace dalla Terra, affinché si sgozzassero a vicenda e gli fu consegnata una grande spada’

Ordine: Ornitischia; sottordine: Ceratopsia; famiglia: Ceratopsidae; genere: Triceratops; specie: horridus. Specie comune nella parte centro meridionale del continente, mentre le due specie T. prorsus e T. ingens, più piccole e più rare, erano rispettivamente tipiche della zona più occidentale e di quella più orientale. Un maschio adulto di triceratopo poteva raggiungere i nove metri di lunghezza e avere un aspetto abbastanza temibile da mettere in fuga qualsiasi predatore. Le migrazioni stagionali coprivano uno schema fisso che portava le mandrie di questi dinosauri cornuti a spostarsi dalle pianure centrali, solitamente occupate nei mesi caldi, alla punta meridionale, poco più a sud del luogo dove, molti anni prima, Gohan si era allenato sotto la guida di Piccolo. Un triceratopo maschio che raggiungesse l’età adulta veniva immediatamente espulso dal branco dall’esemplare dominante: si sarebbe dovuto guadagnare il proprio harem di femmine combattendo contro i propri simili con le corna affilate. Data l’aggressività naturale di questi animali, pochi esseri umani osavano avvicinarsi alle mandrie di triceratopi; e anche quelli ne restavano bene alla larga, conoscendo l’abitudine di questi dinosauri di caricare qualsiasi cosa entrasse nel loro territorio. Grossi, ben armati e resistenti: c’erano davvero poche cose di cui i triceratopi avessero paura, anche perché, non essendo molto intelligenti, non avevano schemi comportamentali che permettessero loro di reagire diversamente dal caricare qualsiasi cosa li intimorisse. Però, c’era qualcosa che era in grado di spaventarli: il vulcano attivo che sovrastava la vallata eruttava lapilli e lava, vomitava una maledizione rovente in grado di mettere in pericolo persino i grossi dinosauri cornuti. Quando il vulcano quasi esplose in una festa mortale di scintille scarlatte, tutti i triceratopi si diedero alla fuga. Per loro, quella era la nemesi per antonomasia. Era ciò da cui non si potevano difendere. Il vulcano era come un dio iracondo che scagliasse la sua furia casuale e terribile contro creature incolpevoli. Il cervello di un triceratopo non era in grado di comprendere un concetto complesso come un condizionale; se avesse potuto, però, avrebbe pensato che nessun essere vivente sarebbe potuto sopravvivere a un’eruzione vulcanica.

Era già noto da diverso tempo il potenziale distruttivo di un’eruzione: la sua forza poteva scagliare le pietre che il vulcano sputava nella stratosfera; una bomba nucleare non poteva eguagliare la potenza di questo fenomeno naturale. Eppure, nel bel mezzo della colonna di lava incandescente che ora si levava dal vulcano, c’era una figura umana. Sembrava levitare proprio sulla bocca del cratere, sembrava esporsi all’eruzione come se fosse stata una doccia rinfrescante. Quando la lava, esaurito il suo sfogo momentaneo, si arrese alla gravità, rivelò una figura umana sospesa in aria, impassibile e immobile. L’uomo, un gigantesco individuo dalla muscolatura quasi sproporzionata, indossava un’armatura rosso scarlatto. Su ciascuna spalla, campeggiavano due protezioni bombate che ripiegavano verso il petto, le più interne delle quali giravano appena sotto il collo taurino, andando a posarsi sulle due piastre pettorali che difendevano il torace. Gli avambracci e le mani erano protetti da un paio di guanti metallici che coprivano però solo l’ultima falange di ciascun dito; dalle ginocchia in già, i gambali rossi dalle ginocchiere rotonde non facevano che accentuare la massa muscolare delle cosce scoperte. Dalla cintura metallica pendeva un corto panno arancione dal bordo frastagliato, mentre quella che sembrava essere una pesante collana di grossi pezzi di granito sferici uniti da uno spesso cavo di ferro cingeva il collo. I capelli, arruffati e con la riga in mezzo, erano tenuti in alto da una fascia anch’essa arancione, che spiccava immediatamente sopra le sopracciglia cespugliose. Il naso piccolo e il doppio mento non facevano che aggiungere ulteriore solennità a un volto già abbastanza truce di per sé. Un volto sul quale spiccavano quegli strani capelli neri con una striscia bianca in mezzo. L’uomo che aveva sopraffatto il vulcano si guardò intorno nel tentativo di capire dove si trovasse. Il posto era nuovo. O comunque era cambiato parecchio rispetto a quando l’aveva visto l’ultima volta. Ma tutto questo era secondario: ora doveva raggiungere il luogo concordato.

Il silenzio era calato nella palestra. Nessuno osava muoversi. Nessuno alzò un dito, nessuno osò fiatare: il Campione Mondiale di Arti Marziali, il grande Mr. Satan, era appena salito sulla pedana dei combattimenti. Per una palestra della Città dell’Ovest era un onore avere per ospite il grande Mr. Satan, che normalmente non si muoveva da Satan City. L’uomo che aveva sconfitto Cell era l’idolo delle folle. Colui che aveva salvato il mondo dal mostro che aveva minacciato di distruggerlo. C’era addirittura chi sussurrava che fosse stato lui, molti anni prima dell’arrivo di Cell, a battere il Grande Mago Piccolo. Era solo una voce non confermata, alla domande in merito alla quale, Satan aveva sempre risposto con un "no comment"; chi lo conosceva bene, però, era pronto a giurare che sapesse quale fosse la verità in proposito. In questo momento, Mr. Satan stava alzando le braccia al pubblico, gli allievi della palestra seduti tutt’intorno a lui, che lo sommergevano con la solita dose di applausi. "Grazie!" esclamò Satan sfoggiando il suo solito sorriso a trentaquattro denti, mentre il suo mantello, mosso da un ventilatore posto in posizione strategica, svolazzava alle sue spalle per creare l’effetto scenico "Vi ringrazio per il vostro affetto! Se vi allenerete con costanza, un giorno, diventerete forti quanto me! Ma non illudetevi: il campione sono io e dovrete fare parecchia fatica per…" non fece in tempo a concludere la frase: un energumeno grande e grosso, con indosso il tipico gi da arti marziali, era salito sulla pedana. Il tizio puntò contro il campione un indice accusatore: "Io non credo che tu sia così forte! Sono convinto di poterti battere, anche se tutti dicono che tu sia invincibile!". Quasi per enfatizzare le proprie parole, l’uomo picchiò un pugno sulla pedana, sfondando diverse delle piastrelle che la ricoprivano. Mr. Satan scoppiò a ridere. Parecchi anni prima, vedendolo in una situazione simile quando si era trovato a dover combattere con il piccolo Trunks, Gohan si era chiesto se quella risata fosse semplicemente riso isterico o se dipendesse dal fatto che Satan non comprendeva quello a cui si trovava di fronte. La verità era tutt’altra. In genere, quando Mr. Satan rideva così sguaiatamente di fronte a un avversario, significava che stava pensando a come evitare il combattimento. Significava che se la stava quasi facendo addosso per la paura, che sapeva di non potercela fare. Ma che sapeva anche di essere il Campione Mondiale e non aveva la minima voglia di perdere il titolo. Stavolta fu Mr. Satan a puntare un dito verso l’uomo: "Perché mai dovrei abbassarmi a combattere contro uno come te? La tua forza è talmente inferiore alla mia, che posso anche affidare un compito simile al più debole dei miei allievi! Aspetta un attimo, eh?". Satan frugò freneticamente tra le tasche del suo costume, fino a estrarne un telefonino cellulare. Con le dita che scivolavano sui tasti per il sudore freddo, compose velocemente un numero. All’altro capo del telefono, qualcuno rispose: "Pronto?". "Gohan?" chiese Satan "Senti, avrei bisogno che mi facessi un favore. Potresti venire un attimo qui? Adesso ti do l’indirizzo…" "No, scusa," lo interruppe il suo genero "in questo momento sono in riunione. È importante, davvero. Ti richiamo io appena finisco, d’accordo?". Satan sentì il sudore scendergli lungo la fronte: "Ve bene," disse poi "proverò a chiamare tuo padre" "Non credo sia a casa" rispose Gohan "Che io sappia, oggi mio fratello aveva un esame e i miei genitori volevano andare a vederlo. Però, a quest’ora dovrebbe avere finito: forse trovi Goten sul cellulare e mio padre potrebbe essere con lui". Mr. Satan riattaccò. Ora cominciava a preoccuparsi veramente. Lanciò un’occhiata al suo avversario, che aveva incominciato a spazientirsi e stava piegando un paio di sbarre di ferro pieno (contemporaneamente) per passare il tempo: "Un momento solo!" disse, quasi a scusarsi. Si portò di nuovo il cellulare alle dita e compose un altro numero: "Goten?" disse appena sentì qualcuno rispondere, senza nemmeno aspettare che l’altro dicesse qualcosa. "Sei tu, Satan?" domandò il giovane, quasi spaventato per il tono trafelato del campione. "Tuo padre è con te?"

"No, ci siamo lasciati una mezz’oretta fa, perché?"

"Oh, non fa niente. Senti, dovresti farmi un favore"
"No, guarda, adesso non posso proprio…"
"Ma come sarebbe a dire? Io sono in pericolo di vita!"

"Anch’io: se dovessi lasciarla nel bel mezzo dell’appuntamento, Palace non mi perdonerebbe mai! Ora scusa, eh?". Goten riattaccò. La situazione si stava facendo davvero tragica. Satan stava cominciando a pensare che non sarebbe sopravvissuto per un’altra mezz’ora. Pensò a un’ultima risorsa. Non voleva comporre quel numero. Chiamare quel tizio significava sfidare la morte. Avrebbe messo la propria vita ancor più in pericolo, se si fosse rivolto a quel tale. Ma la disperazione lo spinse a premere sui tasti fatali. "Pronto?" chiese Bulma all’altro capo del telefono. "Sono Satan" disse il campione "Vegeta è in casa?". Non riusciva a credere a quello che stava facendo: chiedere aiuto a Vegeta era come buttarsi in una fossa piena di coccodrilli da tremila metri, senza paracadute, legati e imbavagliati e con il corpo cosparso di sangue di capra.

"Sì, ma si sta allenando. Quando si chiude nella gravity room, non vuole essere disturbato per nessun motivo"

"Ma è un’emergenza!"

"Lo diventerebbe davvero se Vegeta venisse interrotto durante gli allenamenti!"

Niente da fare. Satan pensò costernato che nessuno si rendeva conto della gravità della situazione. Deglutì vistosamente, mentre il suo avversario si avvicinava a grandi passi: "Allora?" domandò l’uomo guardando il campione dall’alto in basso "Non sono ancora arrivati i tuoi allievi? Puoi anche chiamarli tutti, tanto li massacrerò dal primo all’ultimo! Però farebbero meglio a sbrigarsi, o potrebbe venirmi voglia di passare direttamente a te!". Proprio mentre l’energumeno stava per alzare una mano minacciosa su un annichilito Satan, una voce lo interruppe improvvisamente: "Facciamola finita con questa farsa!". Irritato per l’imprevisto, l’uomo si girò verso il punto da cui era arrivata la voce. Con le braccia conserte e uno sguardo truce puntato sui due uomini, una ragazzina stava sulla pedana, con un’impazienza che risultava evidente da come la punta del suo piede tamburellava per terra. "No, Pan!" gridò Satan "Stanne fuori! Questo tipo è pericoloso!". L’avversario del campione squadrò Pan divertito: "Non ci posso credere! Il Campione Mondiale che si nasconde dietro una ragazzina!". "Io non sono una bambina!" esclamò Pan. "Non vorrai che io mi batta contro di lei, vero, Satan?" chiese l’uomo ignorando la giovane "Guarda che io sono un professionista, non ho tempo da perdere con una bambina che ha voglia di giocare a fare l’esperta di arti marziali!". Pan stava ribollendo: "Ho detto che non sono una bambina! Nonno, fatti da parte! Questo qui lo sistemo io in dieci secondi!" "Nonno?" stavolta si sentiva chiaramente che nella voce dell’energumeno c’era un’ironia nemmeno troppo celata "E quindi questa sarebbe tua nipote? Certo che questa bambina è proprio spavalda come te! Sei proprio caduto in basso se ti fai proteggere dalla tua nipotina! Andiamo, è solo una bambina!". Era troppo. In una frazione di secondo, con un movimento che nessuno riuscì a vedere, Pan scattò in avanti; lo sfidante se la trovò sotto il naso praticamente senza accorgersene; un attimo dopo, vide tutta la palestra che gli turbinava attorno come se fosse stata una lavatrice in piena centrifuga. Un attimo dopo, tutto si fermò. Un attimo dopo, il proprietario della palestra pensò che sarebbe stato parecchio difficile estrarre quel tizio dal muro.

"Ti se fatta male, Pan?" chiese Mr. Satan mentre si avvicinava a sua nipote, che, più che ferita, sembrava seccata e annoiata a morte. "Come potevo farmi male?" sbottò la ragazza visibilmente irritata per quella domanda "Comunque, io non ho intenzione di restare qui un minuto di più. Questo posto è troppo noioso e io ho altro da fare!". Tra lo stupore generale degli astanti, Pan si alzò in volo e fluttuò fuori dalla finestra. Mr. Satan seguì con lo sguardo sua nipote mentre se ne andava come se niente fosse. Poi, si girò verso gli allievi della palestra: "Avete visto?" disse "Sono stato io ad allenare mia nipote! Se quel tizio non è riuscito nemmeno a battere lei, cosa avrebbe potuto fare contro di me?". Prorompendo in una risata sguaiata, pensò che, una volta tornato a casa, la prima cosa che avrebbe fatto sarebbe stata dare a Mr. Bu un cellulare personale.

Atterrando sul marciapiede, Pan pensò che seguire suo nonno in quella visita alla palestra fosse stato un errore. I tizi che la frequentavano non erano certo molto forti, ma non era solo questo il punto… Il fatto era che, da qualche tempo, Pan stava cominciando a perdere interesse per le arti marziali. Sentiva le sue compagne di classe che parlavano solo di ragazzi e lei aveva l’impressione di essersi persa qualcosa avendo passato tutta la propria vita con la famiglia, ad allenarsi con suo nonno Goku. Aveva deciso che si sarebbe trovata un ragazzo prima delle sue amiche, ma come fare? Dopo aver ponderato a lungo, era giunta a una conclusione: avrebbe dovuto chiedere consiglio a qualcuno che avesse più esperienza di lei. Ma chi? Non certo sua madre: anche se le era molto affezionata, sapeva che chiederle come muoversi in una situazione del genere avrebbe messo in imbarazzo entrambe. E non poteva chiedere nemmeno a sua nonna, che, essendo mostruosamente tradizionalista, non la avrebbe mai capita. Poi, durante una visita alla Kame House insieme a suo nonno, aveva incontrato la persona che aveva deciso di prendere come modello: Marron. Già, chi meglio di lei? La figlia di Crilin sembrava proprio una persona dotata dell’esperienza di cui Pan aveva bisogno.

‘Quando l’Agnello aprì il Terzo Sigillo, udii il terzo essere vivente che gridava: "Vieni!". Ed ecco, mi apparve un cavallo nero e colui che lo cavalcava aveva una bilancia’

L’uomo trascinò faticosamente il forziere sulla spiaggia. Aveva passato le settimane precedenti in un ingrato lavoro di ricerca, aveva speso tutti i risparmi faticosamente guadagnati per affittare il sottomarino, ma ora, finalmente, aveva raggiunto il proprio scopo. Si era immerso nei mari sud orientali alla ricerca del favoloso tesoro nascosto in tempi lontani dai pirati e l’aveva trovato. Il baule che ora stava trascinando con tanta fatica conteneva gioielli antichi di valore incalcolabile: vendendoli, avrebbe finalmente messo fine alla propria povertà. Ovviamente, per evitare di attirare l’attenzione, aveva preferito non ormeggiare in un porto; si era fermato vicino a una spiaggia deserta, aveva messo il sommergibile in una capsula e si era accertato che nessuno si rendesse conto di quello che stava facendo. Si fermò per un attimo e rimirò il forziere. Lo aprì lentamente, quasi temesse che potesse sparirgli da sotto gli occhi da un momento all’altro. E invece, quando il baule fu spalancato, i gioielli erano ancora lì. Finalmente, avrebbe finito di fare la fame. La fame… Improvvisamente, un boato distolse l’attenzione dell’uomo dal tesoro; si girò freneticamente verso il mare, appena in tempo per vedere un gorgo che si stava formando tra i flutti. L’acqua salmastra sembrava venire trascinata verso il centro del mulinello con violenza inaudita, come se una bocca famelica fosse stata intenta a bere tutto l’oceano. Poi, veloce come un proiettile, la sagoma di un uomo emerse dalle acque. Levitando proprio sopra il centro del gorgo, il nuovo arrivato lanciò un’occhiata al cacciatore di tesori. Lo strano individuo uscito dal mulinello era piuttosto basso, anche perché teneva la testa vistosamente piegata verso terra. La sua armatura blu cupo gli copriva il petto, gli avambracci e le gambe, ma i suoi lunghi capelli neri e lisci, con una inquietante striscia bianca in mezzo, scendevano pigramente sul suo viso e sul suo corpo, coprendone buona parte. Le protezioni per le spalle, coperta da un panno nero avvolto attorno al collo a mo’ di sciarpa, erano composte ciascuna di due piastre che si allungavano verso l’esterno; i guanti metallici, che coprivano gli avambracci e l’ultima falange di ciascun dito, erano quasi completamente celati sotto le pieghe di un lungo mantello nero che ondeggiava fino a coprire buona parte della figura anche frontalmente. Un panno bianco scendeva dalla cintura metallica fin sotto le ginocchia, ma non copriva comunque le protezioni per le gambe: sia le ginocchiere che le piastre poste a difesa delle cosce erano rivolte verso l’alto e sotto di esse si potevano vedere i pantaloni neri che il nuovo arrivato indossava. L’uomo uscito dal gorgo levitò lentamente, fino ad atterrare di fronte al cacciatore di tesori. Attraverso i suoi lunghi capelli, il suo viso pallido e cadaverico sembrava minaccioso come nessun altro. L’uomo dai capelli neri e bianchi squadrò l’altro e sorrise: "Ci siamo già visti, vero?" domandò. "No" replicò l’avventuriero difendendo istintivamente il forziere con il proprio corpo. "Ma sì" insisté l’altro "Altrimenti, perché saresti interessato più a proteggere quel tesoro che alla tua vita? Non ti ricordi di me? Io sono il vecchio Anaton…"

"Non ti ho mai sentito nominare" l’uomo sembrava essere a un passo dalla crisi isterica, mentre Anaton gli si avvicinava sempre più "E adesso vattene!"

"Eppure, io sono convinto che tu mi conosca già. Anche se forse mi hai sempre chiamato con un altro nome. Forse mi chiamavi Fame"

"Non ti avvicinare!" frugando freneticamente tra le sue tasche, l’uomo estrasse una pistola e la puntò sul suo inquietante interlocutore.

"Ma cosa fai? Non puoi sconfiggere la Fame con dei proiettili… Non ti rendi conto che il tuo corpo sta già cedendo? Sei già troppo debole per sparare"

Il cacciatore di tesori deglutì. Era vero, si stava sentendo sempre più debole. Provò a premere il grilletto, ma ormai gli sembrava come una pietra inamovibile. E sentiva lo stomaco che lo tormentava. Era sempre stato povero, aveva passato la vita a combattere i morsi della fame. Ma non erano mai stati così acuti. Mentre il sudore gli colava copioso lungo la fronte, fece per scagliare rabbiosamente a terra la pistola, ma non aveva abbastanza forza nemmeno per quell’azione. Anaton fece un altro passo avanti. Stavolta, l’uomo crollò a terra premendosi lo stomaco. Un attimo dopo, senza nemmeno accorgersene, era morto.

C’erano momenti della sua vita in cui Marron si pentiva di essere così chiacchierona. Era una ragazza espansiva (tutto il contrario di sua madre, si sarebbe detto), si divertiva a stare con gli altri e a parlare di qualsiasi cosa le passasse per la mente, soprattutto di ciò che le piaceva o che le procurava un qualche tipo di felicità. Per esempio, quando uno dei suoi esami all’università andava bene, non poteva fare a meno di spendere un’enormità in telefonate per avvisare tutti i suoi amici. E poi, le piaceva parlare del suo ragazzo. Lei e Trunks si frequentavano già da qualche anno e Marron non perdeva occasione per decantare le qualità del giovane presidente della Capsule Corporation, mettendolo puntualmente in imbarazzo di fronte a chiunque la stesse ascoltando. Descritto da Marron, infatti, Trunks era il tipico principe azzurro bello, ricco e intelligente (tra l’altro, prestando fede a quanto diceva Vegeta, lui era effettivamente un principe); nemmeno lei, però, poteva negare quanto fosse imbranato nei rapporti sociali. Se non fosse stato per lei, la loro relazione sarebbe probabilmente rimasta un’ipotesi per l’eternità. Tuttavia, quando parlava di Trunks, Marron faceva sempre in modo di esaltarne i pregi e minimizzarne i difetti e c’erano dei momenti in cui questo le riusciva fin troppo bene. Forse era proprio per questo motivo che ora era costretta a fare da baby sitter a una ragazzina di dodici anni. Dopo averla sentita parlare della sua storia con Trunks, Pan si era fatta l’idea che Marron fosse abilissima nel trovarsi dei buoni partiti; una specie di cacciatrice di uomini. Così, quando l’aveva incontrata per caso quel giorno, insieme ai suoi genitori, per le strade della Città dell’Ovest, Pan le si era subito accodata. Cosa questa che sembrava divertire molto Crilin ma che piaceva decisamente meno alla giovane. "Senti un po’," le chiese Pan per l’ennesima volta "ma come si fa a trovare il ragazzo giusto?". Marron sospirò: "Non è che lo si possa cercare e trovarlo… Succede, punto e basta. Credo sia questione di fortuna"

"E tu pensi che Trunks sia il ragazzo giusto?"

"Certo che lo è! Non solo è molto carino, ma è anche il presidente della società più potente del mondo. E poi è molto intelligente. Ed è anche un Super Saiyan, quindi potrebbe proteggermi contro qualsiasi pericolo. È perfetto!"

Pan rimuginò tra sé e sé poco convinta. Trunks le era sempre sembrato perfetto, sì. Un perfetto imbecille. Come era possibile che a Marron piacesse un uomo che arrossiva quando una ragazza lo guardava e che non era capace di spiccicare due parole di fila davanti a un’esponente dell’altro sesso? A quelle considerazioni, la stima di Pan verso la figlia di Crlin subì il primo scossone. Il secondo arrivò quando Marron, guardandola palesemente dall’alto in basso, le disse: "Senti, a proposito di Trunks… Lui ormai dovrebbe quasi aver finito di lavorare ed eravamo d’accordo che io sarei andata a prenderlo fuori dall’ufficio, così dopo saremmo potuti partire direttamente. Sai, avevamo in programma di passare il week end fuori e vorremmo restare da soli… Non ti offendere, eh?". Pan non si offese, ma poco ci mancò: a quanto pareva, anche Marron la considerava una bambina. "E va bene!" sbottò. In fin dei conti, non era poi così sicura che Marron fosse un buon modello da seguire. Molto meglio fare da sé.

‘Quando l’Agnello aprì il Quarto Sigillo, udii la voce del quarto essere vivente che diceva: "Vieni!". Ed ecco mi apparve un cavallo verdastro. Colui che lo cavalcava si chiamava Morte e dietro gli veniva l’Inferno’

L’uomo camminò tra i resti del laboratorio guardandosi attorno incuriosito. Era sorpreso da come quel posto fosse cambiato mentre lui era stato addormentato. Resti di enormi computer e cilindri di vetro giacevano tutt’intorno; benché l’uomo non fosse in grado di comprendere l’utilizzo di tutte quelle apparecchiature, capiva che erano servite a creare delle forme di vita artificiali e che non venivano utilizzate ormai da decenni. I progetti laceri e divorati dal tempo che ancora giacevano tra la polvere e le macerie spiegavano come integrare componenti meccaniche con tessuto vivente. Spiegavano come progettare l’organismo più potente dell’universo e quali cellule ci volessero per conferirgli un corpo perfetto e invincibile. Chiunque fosse stato a preparare quei progetti, sicuramente aveva voluto tenerli segreti: altrimenti, perché nascondere il proprio laboratorio tra le granitiche montagne del nord? Perché costruire un centro di ricerche così attrezzato dove nessuno avrebbe potuto trovarlo? Ma, tutto sommato, all’uomo queste cose non interessavano; con un gesto quasi istintivo, si avvolse nel proprio lungo mantello lacero e verdastro. Il suo volto quasi scheletrico sembrava ora buffo, con i capelli neri, che avevano una striscia bianca in mezzo, sparati verso l’alto. Il mantello, che si ripiegava abbondantemente attorno al collo e al torace, quasi copriva le piastre pettorali dell’armatura color verde cupo e celava i rossi guanti metallici Anche le protezioni delle spalle erano rosse: la destra era costituita da due piccole piastre metalliche sovrapposte, mentre la sinistra era una singola copertura con un paio di borchie. Un panno dello stesso colore verdastro del mantello pendeva dalla cintura e una fascia anch’essa lacera passava sopra la spalla sinistra e sotto l’ascella destra. Camminando, l’individuo colpiva il terreno con una lunga falce dalla lama seghettata, la cui asta sembrava fatta di ossa allungate fissate una dietro l’altra. Il nome dello strano tipo era Arton, o almeno così gli pareva di ricordare. E ricordava anche di avere una missione da compiere. Doveva uscire da quel posto. Però, mentre lasciava quel bizzarro laboratorio, mentre guardava i grossi feretri meccanici che avevano evidentemente contenuto dei corpi umani (uno dei quali decisamente grosso) e che riportavano numeri da 16 a 20, non poté fare a meno di notare l’ironia della sorte. Lui era stato sepolto proprio nel posto dove, moltissimo tempo dopo, qualcuno aveva costruito quel centro di ricerche. Era una bizzarra trama del destino, ma non c’era tempo per preoccuparsene.

In tutta la Città dell’Ovest, Bulma era probabilmente l’unica persona che potesse permettersi di mantenere una famiglia di Saiyan; due, però, erano troppe anche per lei. Mentre guardava suo marito e sua figlia che si abbuffavano senza ritegno, non poteva che essere contenta che Trunks fosse fuori casa per il week end. Anche perché Goku e Goten compensavano ampiamente la sua presenza. Lei e Chichi si scambiarono un’occhiata piena di comprensione reciproca: entrambe sapevano cosa significava dare da mangiare a degli esponenti della razza più vorace dello spazio. La cena che la ex presidentessa della Capsule Corporation aveva offerto ai suoi amici si stava velocemente trasformando in un caotico banchetto in cui solo il più affamato poteva permettersi di sottrarre del cibo dalle fauci dei Saiyan. Però, tutto sommato, a Bulma tutto questo non dispiaceva affatto, anzi. All’età di cinquantotto anni, poteva dire di essere soddisfatta della propria vita. Aveva vissuto più avventure di quante fosse possibile immaginare e ne era sempre uscita intera; anche quando era morta, uccisa da Majin Bu, era stata resuscitata; aveva sposato un uomo che, pur essendo un singolare esempio di mente contorta e di orgoglio autolesionista, aveva dimostrato di essere pronto a dare la vita per lei; aveva due figli dei quali era molto felice; aveva degli amici che le erano cari quasi quanto la sua famiglia. Si riteneva fortunata. Quando poteva assistere a delle scene come quella che si stava verificando in quel preciso momento sotto i suoi occhi, l’unica sua paura era che tutto questo potesse finire.

‘Fu dato loro il potere sulla quarta parte della Terra, per sterminare con la spada, con la fame, con la peste e con le fiere della Terra. Quando l’Agnello aprì il Quinto Sigillo, vidi sotto l’altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano resa. E gridarono a gran voce: "Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e verace, non farai giustizia vendicando il nostro sangue sugli abitanti della Terra?"’

Il vento sferzava impietoso sull’altipiano di Yunzabit. Tra tutti posti della Terra, quello era uno dei più impervi; la cima dell’altipiano era una vetta gelida e inospitale, dove gli uomini non osavano avvicinarsi. Nessuno sapeva che, moltissimi anni prima, proprio in quel posto era arrivato un alieno che sarebbe poi diventato Dio. Nessuno sapeva che, ancora prima di allora, proprio quel posto era stato il centro di una civiltà della quale non restava nemmeno il ricordo. Nessuno sapeva che, quel giorno, proprio quel posto era il luogo di riunione di cinque uomini dai capelli neri e bianchi. Uno di essi aveva una falce. Uno di essi aveva degli artigli metallici. Uno di essi era enorme, indossava un’armatura rossa. Uno di essi, piccolo e gracile, aveva il volto quasi completamente celato dai capelli. Questi quattro, inginocchiati davanti al quinto, che volgeva loro le spalle, non osavano alzare lo sguardo. Il quinto si girò. I suoi capelli, anch’essi neri con una striscia bianca in mezzo, superavano di poco la nuca. La sua armatura, sul petto, sugli avambracci e sulle gambe dalle ginocchia in giù, era viola cupo. Da ciascuna delle coperture sulle spalle spuntavano tre aculei rivolti verso l’esterno, una davanti, una sopra e un dietro. I guanti metallici coprivano solo l’ultima falange di ciascun dito. Sotto le ginocchiere triangolari, rivolte verso il basso, da ciascun gambale spuntavano due piccoli aculei rivolti verso l’alto. I bicipiti dell’uomo erano avvolti da due larghe maniche nere fluttuanti, mentre un lungo panno bianco scendeva dalla cintura metallica, al centro della quale, due piccole spine si curvavano verso l’alto. L’uomo aveva in viso un trucco pesante, completamente nero: due larghi segni a V sulla fronte; due piccoli segni a forma di V rovesciata sul naso; Tre linee che si appuntivano salendo dal mento al labbro inferiore; sotto ciascun occhio, un segno simile a una lacrima, che scendeva descrivendo la linea dell’ovale per poi piegarsi verso l’alto nella parte finale. Ma ciò che più impressionava gli altri quattro convenuti erano gli occhi. Completamente neri, con solo una piccola linea verticale rossa in ciascuno di essi a denotare una traccia di vita.

Il primo a parlare fu l’uomo con gli artigli: "Tu sei Adam, vero?" domandò al misterioso individuo con l’armatura viola. "Sì" fu la risposta "E voi dovete essere i quattro che mi erano stati promessi". Lo sguardo di Adam si puntò sull’uomo con la falce: "Arton!" lo chiamò. Arton si alzò e fissò Adam in viso. Poi, spostò gli occhi su quello che aveva parlato: "Mesembria!" disse. Mesembria si alzò a propria volta. Adam girò lo sguardo verso quello che indossava l’armatura rossa: "Disi!" esclamò. Disi si sollevò sulle gambe. Infine, il guerriero in viola posò la vista sull’ultimo, quello magro e basso: "Anaton!". Anaton si mise in piedi. Adam incrociò le braccia: "Credo che si possa cominciare" disse spaziando con lo sguardo tra tutti i suoi collaboratori "La prima cosa da fare è occuparsi di questo pianeta". Mesembria fece un passo avanti: "Questo non è un problema" annunciò senza perdere la consueta espressione impassibile "Ho già provveduto a informarmi e tra poco avremo il mezzo per sistemare questa faccenda in maniera che ci sia utile".

‘Allora venne data a ciascuno di loro una vesta candida e fu detto loro di pazientare ancora per un po’, finché non fosse stato completo il numero dei loro compagni di servizio e dei loro fratelli che dovevano essere uccisi come loro. Quando l’Agnello aprì il Sesto Sigillo, vidi che vi fu un violento terremoto. Il sole divenne nero come un sacco di crine, la luna si fece simile a sangue, le stelle del cielo si abbatterono sulla Terra, come quando un fico, percosso dalla bufera, lascia cadere i fichi acerbi. Il cielo si arrotolò come un volume che si arrotolasse e tutte le montagne e le isole furono smosse dal proprio posto. Allora i re della Terra e i grandi, i capitani, i ricchi e i potenti e infine ogni uomo, schiavo o libero, si nascosero tutti nelle caverne e fra le rupi dei monti. E dicevano ai monti e alle rupi: "Cadete sopra di noi e nascondeteci alla faccia di Colui che siede sul Trono e dall’ira dell’Agnello, perché è venuto il gran giorno della loro ira e chi vi può resistere?"’

  
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