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Autore: Mikaeru    06/04/2010    3 recensioni
Sul materasso c’era stato il primo bacio percepibile di suo fratello, le sue labbra salate e leggermente secche sulla fronte. Quell’ “Alphonse” che gli rimbombava nelle orecchie e faceva battere il cuore di dieci battiti in più al secondo.
Scritta per la challenge di Fiumi di Parole, gen!week.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Alphonse Elric, Edward Elric
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tra le lenzuola bianche e profumate era stato il suo primo risveglio – e la quasi sensazione di infrangere finalmente un lunghissimo incubo, ricordi lontani che sfumano come acquerello sotto un temporale invernale –, quando la consapevolezza di avere sangue e polmoni lo aveva così profondamente colpito allo stomaco e alla testa da farlo scoppiare a piangere ed impedire che smettesse per un’ora buona. La mano di Edward che non lo aveva lasciato per mezzo attimo, neppure quando anche la sua schiena era così scossa dai singhiozzi che credeva di non riuscire più a respirare.

Sul materasso c’era stato il primo bacio percepibile di suo fratello, le sue labbra salate e leggermente secche sulla fronte. Quell’ “Alphonse” che gli rimbombava nelle orecchie e faceva battere il cuore di dieci battiti in più al secondo. Quel “Ti voglio bene” non pronunciato ma solo recitato dalla bocca muta.

Lì sul letto lo faceva sempre sedere al suo fianco, si faceva raccontare le favole e lo rimirava nella sua bellezza statuaria, nei suoi occhi d’oro così identici ai suoi – e se li fissava, nello specchio, perché amandoli amava quelli del fratello –, nei capelli che erano così belli che attiravano ogni singolo raggio di luce e di sole, e lui era geloso perché voleva essere l’unico a poterli rimirare così profondamente. Si faceva carezzare i capelli e coccolare come un gatto, lo faceva sbuffare d’impazienza perché questo lo divertiva tantissimo. Si faceva fare compagnia di notte, stringere dopo gli incubi, lo rendeva il protagonista dei suoi sogni più belli.

Al cuscino aveva lasciato i primi, indecenti pensieri su quanto belle fossero quelle labbra che gli sfioravano le gote senza mai restarvi più di quegli attimi necessari a trasmettere il suo affetto fraterno. Lui aveva assorbito le prime lacrime di peccato e consapevolezza, il suo gemere scomposto, le preghiere supplicanti.

 

“Niisan, avevi promesso che oggi andavamo in gita!”

Labbro di fuori, mani sui fianchi, il piede che batteva per terra quasi volesse farci un buco, un cratere di placida rabbia.

“Al, parli come un bambino.”, gli rispose Edward con la voce che un po’ rimbalzava sulle coperte ed usciva piena di piume d’oca, più soffice, ugualmente sonnolenta, un po’ arrivava diretta alle orecchie del suo fratellino, già di per sé abbastanza irritato da quell’ostentazione di omertà.

“E tu sei un infame bugiardo!”

Al, capelli ancora lunghi e viso un po’ meno magro, si intrufolò sotto le coperte del suo pigro fratellone, fece sgusciare le dita sotto la sua maglia per tirargli la pelle e solleticarla fino allo spasmo.

“Smettila, smettila, idiota!”, gridò quello con le lacrime agli occhi. “Sono stanco, sono stanco da morire, dai, vacci con zia Pinako o con Winry!”

“Ma non è la stessa cosa!”

Rimase inconfessato, stretto tra i denti e la labbra – nessun luogo al mondo può essere considerato bello, se i miei occhi sono senza di te.

“Che bambino capriccioso…

Edward, senza alcuna voglia di alzarsi e mettere i piedi per terra per almeno le future sette ore, attirò il fratello a sé, lo fece salire accanto alla propria testa, gli carezzò i capelli liscissimi con movimenti calmi e continui. Bacio sulla fronte, bacio sui capelli, carezze lunghe sulla schiena tiepida e morbida sotto la maglietta leggera.

“Sì, lo so, ma tu mi avevi promesso una gita, e una gita avrò.”

Aveva nella voce un tono risoluto che mal si accostava con la tenera morbidezza del suo viso e delle sue labbra – e, in generale, alla modulazione dolce delle sue corde vocali.

“È domenica, Al…

“Appunto, poi non ci sarà tempo.”

“Dammi un altro paio d’orette…”, mormorò Edward, stanco, le energie che non albergavano più in lui ma erano cadute vittime dell’infame sfruttare di Mustang. Rinnovò il voto di ucciderlo entro due anni. Anzi, uno. Per soffocamento. O strangolamento. Uhm, avvelenamento era molto meglio. Sì, lo avrebbe avvelenato entro i prossimi sei mesi – un anno e mezzo era decisamente troppo da sopportare ancora.

Alphonse gonfiò le guance, ma capì di doversi adattare alle volontà di suo fratello maggiore. Sospirò, appoggiò la testa al suo petto. Ne udì il meraviglioso battere del cuore, il respirare calmo e profondo – come il mare, come la pioggia di primavera, un ritmo cadenzato e sempre uguale.

Ad ogni battito il suo amore si radicava come mille querce di una foresta secolare.

Niisan…

Quello mugolò in risposta, in un’esistenza al metà fra il sonno e la vita, ed Alphonse lo prese come un sì sonnacchioso ma ugualmente attento.

“Hai mai considerato l’idea di poter amare me?”, pronunciò nella sua mente, ma la lingua censurò i suoi pensieri, prima che così veri e così deprecabili uscissero e vivessero per sempre nell’aria e le nuvole e il vento fossero testimoni della sua ignominia.

“Ti piace Winry, vero?”

Domanda che la bocca trovò amara e il cuore trovò un omicidio.

“Ma quante cavolate spari…”, pronunciò Ed con voce impastata di sonno e pigrizia, con cipiglio infastidito. Lo strinse ancora di più a sé, le narici invase della freschezza del suo profumo dolcissimo.

Le guance di Alphonse si fecero color corallo, il cuore rimbalzava da una parete all’altra del suo corpo, senza mai  fermarsi in una posizione sola.

“Secondo quale logica dovrebbe piacermi Winry?”

“A lei tu piaci.”

“E per questo lei dovrebbe piacere a me?”

“Beh, forse…

“L’ho già detto, ma sei proprio un bambino. Ho un cervello gigantesco ma un cuore relativamente piccolo. Nel profondo non ho spazio per chissà quanta gente.”

Senza un fruscio, senza un respiro, senza un minimo rumore o qualcosa che negli occhi lo avvisasse, si preannunciasse – lo baciò sulle labbra con una tenerezza che tutto pareva tranne che appartenere, essere mescolata con la rudezza tipica di ogni gesto della persona di Edward.

Lo strinse ancor più forte, mormorandogli che di lì a poco sarebbero usciti, parola di alchimista di Stato, o cane dell’esercito, come preferisci.

Rimasero tutto il giorno tra le coperte tiepidi, baciati dal sole, in uno strano miscuglio di schiocchi e carezze così naturale da sembrare quasi folle.

 

Galeotto fu il letto testimone di un bocciolo ancora bianco e candido di un amore che di sporco nulla aveva e che in sé rinchiudeva ogni bellezza di questo mondo.

  
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