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Autore: Enrychan    08/04/2010    7 recensioni
Altaïr sorrise. «Sei fin troppo generoso», disse. «Ecco perché io sarei sempre stato un Assassino migliore di te. E perché tu sarai sempre una persona migliore di me.»
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altaïr Ibn-La Ahad , Malik Al-Sayf
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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MALIK

L'arto fantasma di Malik doleva.

Era ormai una sensazione rara. L'Assassino si stava abituando all'assenza del braccio sinistro, e ad usare solo il braccio destro per compiere tutte le azioni della sua vita quotidiana, che d'altronde non comprendevano più arrampicate verticali lungo i muri né assassinii in volo. Era quindi tutto molto più semplice: di una semplicità a tratti quasi esasperante. Senza dubbio, la custodia della Dimora di Gerusalemme e la posizione privilegiata di rafiq che Al Mualim gli aveva affidato era quanto di meglio un Hashshashin avesse potuto sperare dopo una perdita tanto disastrosa come quella di un intero arto.

Ma i primi tempi era stato un dramma. Dopo l'amputazione, per giorni Malik non era riuscito a toccare cibo né a dormire. Quando chiudeva gli occhi, due immagini non facevano che sovrapporsi nella sua mente ottenebrata dal dolore e dalla febbre: Kadar, il fratello perduto, e l'odiato responsabile della sua morte. In quelle interminabili ore, Malik era rimasto aggrappato ad un filo di vita sottile come quello di una ragnatela. In molti avevano pensato che sarebbe morto per le conseguenze della ferita riportata.

Ma non era morto. Non solo era sopravvissuto: si era anche ristabilito molto rapidamente, grazie alla forza testarda che aveva sentito nascere dall'ira e dall'astio per il suo ex superiore. Lo stesso Malik era rimasto non poco stupito quando il Maestro, in capo ad appena qualche settimana, gli aveva chiesto di partire da Masyaf per prendere il posto del precedente rafiq di Gerusalemme. «Meriti pienamente questa promozione», gli aveva detto. «Parti pure quando ti senti meglio.»

“Avrei preferito ricevere la testa di Altaïr su un vassoio”, aveva pensato Malik con rabbia. «Shokran jazilan, al Mualim», aveva risposto invece, inchinandosi. «Ne sono onorato».

Malik ebbe un lieve moto di collera ripensando a quel momento. Con uno scatto insolitamente violento, spinse sullo scaffale l'ultimo libro consultato; si sedette dinnanzi ad un foglio bianco, trasse a sé il dawaat pieno d'inchiostro e il qalam, poi sembrò ripensarci: si rialzò in piedi e compì qualche passo nervoso dall'interno della Dimora, come un animale in gabbia.

I giorni a Gerusalemme scorrevano fin troppo tranquilli. Tutto ciò che doveva fare era coordinare le azioni e le mosse degli Hashshashin che agivano nella sua città inviati dal Maestro Rashid; ma nulla di concreto in prima persona, se non informare puntualmente quest'ultimo degli obiettivi raggiunti. Malik non aveva mai avuto così tanto tempo libero per studiare e per disegnare mappe, due attività che aveva sempre amato. Ma assistere all'andirivieni dei giovani Assassini nella sua Dimora senza potersi muovere gli dava un senso di oppressione e di frustrazione. Ed ora, ad esso si aggiungeva anche quel persistente dolore al braccio fantasma, tornato ad aggredirlo come se il suo corpo si ribellasse alla mancanza dell'arto. Malik era ben consapevole della ragione di questo sgradito ritorno, poiché solo qualche ora prima essa si era presentata alla porta della sua Dimora insieme alla bianca figura dell'unico confratello che avesse mai davvero odiato, Altaïr.

«Salute e pace, Malik», aveva esordito quello, entrando con ancora addosso la polvere del viaggio. Sembrava indifferente e rilassato, come se l'ultima volta che si erano visti non fosse successo nulla.

«La tua presenza qui mi priva di entrambe», aveva risposto il rafiq di Gerusalemme, aspro. «Che cosa vuoi?»

«Al Mualim mi ha chiesto...»

«Ti ha chiesto di svolgere qualche compito minore nel tentativo di redimerti.»

Altair non aveva ribattuto, preferendo andare subito al sodo. «Dimmi cosa sai di un uomo chiamato Talal.»

«E' compito tuo trovare e assassinare quell'uomo, Altaïr, non mio». Malik era partito all'attacco. «Fra noi due sei tu il novizio. O forse eri così preso dalla tua boria, che hai dimenticato le basi della disciplina?»

Non aveva potuto ottenere la vita del rivale come compenso di quella del fratello ucciso, ma solo la perdita di tutti i gradi acquisiti da Altaïr all'interno dell'Ordine. Se umiliarlo era tutto ciò che poteva fare, esattamente questo avrebbe fatto.

«Faresti bene ad assistermi», aveva risposto Altaïr, senza dar segni di voler raccogliere la provocazione. «La sua morte gioverà a tutti.»

«Neghi forse che gioverà a te

«Questo non è affar tuo.»

«Le tue azioni sono affar mio!» aveva sibilato Malik, accennando alla propria spalla sinistra. Avrebbe condannato la propria anima al Jahannam tra tormenti eterni se questo avesse significato poter uccidere Altaïr con le sue mani, proprio lì e in quel momento.

L'altro aveva reagito scrollando le spalle. «Non aiutarmi, allora. Lo troverò da solo». Ma un lieve fremito nella voce aveva tradito il fuoco che covava sotto quelle braci in apparenza spente. Altaïr non era mai stato un uomo particolarmente paziente.

Dopo un secondo di gelido silenzio, Malik aveva recuperato il tono di superiorità che aveva lasciato cadere poco prima, nel suo scoppio d'ira. «Non ti farò girare a vuoto per la città come un cieco», aveva detto. «Meglio che tu sappia da dove partire.»

«Ti ascolto.»

«Mi vengono in mente tre posti. A sud, nei mercati al confine tra il distretto musulmano e quello ebreo; a nord, vicino alla moschea di questo distretto; e a est, vicino alla porta di Bab al-Huttah‎.»

«Questo è tutto?»

«E' quanto basta per iniziare. E più di quanto meriteresti». Malik gli aveva voltato le spalle. Per quanto lo riguardava, il colloquio era terminato.



ALTAÏR


Altaïr odiava Malik.

Questo era il suo pensiero mentre piantava la lama nascosta nel ventre dell'uomo da cui aveva appena finito di spremere informazioni sulla sua prossima vittima, Talal. Era stato facile: non aveva retto ai pugni più di una manciata di secondi, prima di iniziare a cantare come un usignolo. Le informazioni che possedeva erano poche, per la sicurezza personale di Talal, ma buone e utili. Aveva parlato di una qualche “opera” che Talal stava mettendo in atto, sequestrando persone da inviare poi ad Acri come schiave. L'indagine era quindi già a un ottimo punto, nessun intoppo particolare...

Eppure Altaïr non poteva scrollarsi di dosso una sensazione sgradevole. La terra di al-Quds sembrava bruciare sotto i suoi piedi. Altaïr non voleva rassegnarsi a credere che la causa del proprio disagio stesse nell'obbligatorio ma per fortuna solo temporaneo rapporto col rafiq della città. Tutto ciò che desiderava in quel momento era terminare rapidamente il compito affidatogli da Al Mualim e andarsene. Per come gli apparivano le cose ora, perfino Abbas e i suoi scherni grossolani avrebbero potuto rappresentare una compagnia più piacevole di quella di Malik. Odiava l'atteggiamento altezzoso del confratello, la sua lingua tagliente come un rasoio e odiava sopra ogni cosa quella sua dannata spalla senza braccio, che pareva essere lì per ricordargli costantemente il suo errore.

Come se fosse stato possibile dimenticarlo, dimenticare il giorno in cui l'intero suo orgoglio gli era stato strappato brutalmente e all'improvviso, spazzato via da una bufera come le chiome degli alberi sulla cima del Jabal al-Sikkin, negli inverni più freddi che aveva trascorso a Masyaf.

Eppure era sicuro di non avere agito nel modo sbagliato. Robert de Sablé si frapponeva tra lui e il suo obiettivo: andava eliminato, e questo era quanto.

“Discrezione, Altaïr!” aveva detto Malik.

Altaïr non aveva mai sentito nessun Hashshashin permettersi di ammonire un superiore. La libertà con cui Malik si rivolgeva a lui l'aveva mandato su tutte le furie. “Codardia, vuoi dire!” aveva risposto il fidā'ī, irritato. “Ti sono superiore sia in grado che in abilità. Trova di meglio da fare che discutere i miei ordini.”

Altaïr non era un mostro: gli dispiaceva sinceramente per la scomparsa del fratello minore di Malik. Ma Kadar era morto perché non era altro che un novizio. A sbagliare era stato piuttosto Al Mualim, che glielo aveva affidato in una missione così pericolosa come quella al tempio di Sulaymān. Altaïr aveva pregato il Maestro di concedergli un alleato più preparato ad affrontare le lame dei Templari, ma la sua richiesta era stata respinta. “Avrai anche Malik ai tuoi comandi”, aveva replicato Al Mualim. “E Kadar ha lo stesso talento del fratello maggiore. E' sveglio e abile, ha solo bisogno di essere guidato.”

Altaïr si morse il labbro inferiore e riprese il suo percorso tra i tetti del distretto musulmano, nella luce rossa del sole calante. Per quanto si sforzasse di ricacciare lontano quei ricordi e di concentrarsi su ciò che doveva fare, non gli riusciva di liberarsene completamente.

Virò a sud, verso al-haram al-qudsī ash-sharīf, che gli ebrei chiamavano “il monte del Tempio”. Poteva già intravedere, oltre le poderose mura di contenimento che circondavano la spianata, l'enorme cupola dorata del Masjid Qubbat As-Sakhrah scintillare nell'aria calda e densa del pomeriggio inoltrato, mentre più a destra si elevava quella meno appariscente della moschea di al-Aqsa. Evitò accuratamente il lato ovest delle mura, dove si trovavano gli ingressi più frequentati al Santuario: la strada che vi correva parallela solitamente pullulava di guardie. Del resto, Altaïr non aveva bisogno di una porta per entrare dove voleva. Puntò sul lato nord del muro, avvicinandosi quanto più possibile; poi spiccò un salto dal tetto della casa più prossima e si aggrappò ad una sporgenza sulla superficie verticale. Per un istante oscillò a una ventina di metri di altezza dal suolo, appeso con un solo braccio; poi un colpo di reni gli permise di ancorarsi anche con l'altra mano e prese a salire verso la sommità. Le antiche pietre erose dai secoli presentavano un'infinità di utili anfratti e cavità che gli permisero di arrampicarsi facilmente.

Sulla cima il vento soffiava forte e fischiava nelle sue orecchie. Prima di entrare nel camminamento, Altaïr si fermò un attimo e spiò da sotto: come prevedeva, proprio accanto al punto in cui era giunto, una guardia andava e veniva con passo indolente, fischiettando a tratti un motivetto. Altaïr attese per qualche secondo, finché il soldato non sospese la ronda guardando verso l'interno della spianata, dalla parte opposta rispetto a lui. A quel punto scavalcò rapidamente e gli piantò la lama nascosta nella schiena, chiudendogli la bocca con la mano destra. L'uomo si irrigidì per un istante, ma non riuscì nemmeno a emettere un gemito prima di accasciarsi a terra. Altaïr scavalcò il parapetto e cominciò la discesa. Dopo qualche metro incontrò un poderoso contrafforte di sostegno e lo sfruttò per lasciarsi scivolare fino a terra.

Un gruppo di persone l'aveva notato durante la seconda parte dell'operazione, e alcuni si erano fermati a guardarlo a bocca spalancata o commentando la cosa con il vicino. Era perfino probabile che qualcuno l'avesse riconosciuto come Hashshashin, ma nessuno pensò a dare l'allarme: Altaïr non avrebbe saputo dire se per timore di ritorsioni da parte sua o per pura e semplice stupidità. In ogni caso si affrettò ad allontanarsi e a mescolarsi con la folla di fedeli e pellegrini. C'erano anche diversi monaci cristiani vestiti di bianco, quindi nessuno fece più caso a lui. Era ormai vicino alla porta di Bab al-Huttah, che si apriva nelle mura con il suo grande arco a ogiva sovrastato da un enorme cornicione di pietra: a quel punto, non gli restava che confidare nell'indicazione fornita da Malik. Si sedette sulla prima panca che trovò e rimase in ascolto.

Accanto alla porta avevano trovato posto numerosi mercanti e venditori che offrivano la propria merce ai passanti, e il nome di Talal rimbalzava spesso nelle loro conversazioni. In gran parte si trattava di informazioni di cui Altaïr era già a conoscenza, sebbene contribuissero a dipingere un'immagine decisamente negativa dell'uomo che costituiva il suo bersaglio. Non dovette aspettare molto prima di individuare elementi più interessanti in un dialogo tra quello che sembrava essere un mercenario, e un mercante dalla pelle scura. Altaïr colse solo la seconda parte del loro scambio di battute. Da quel che poté intendere, comunque, il mercante stava pregando il mercenario di far parte della sua scorta per difendere la sua carovana dagli uomini di Talal.

«Ti prego, devi aiutarmi», diceva. «Ti pagherò quanto vuoi, qualunque cifra.»

Ma il suo interlocutore non sembrava affatto convinto. «Non è così facile, amico.»

«Ma sì, conosco tutti i suoi trucchi. È un codardo, scappa al primo segno di problemi. Inoltre io so quali sono i posti in cui in genere si nasconde.»

«Non capisci...»

«Capisco, invece. Tu hai paura. Ti fai chiamare guerriero, ma basta uno schiavista per farti tremare come una foglia.»

«Taci! Gira alla larga e io mi sforzerò di dimenticare questa conversazione.»

Il mercenario voltò i tacchi e si allontanò. Il mercante gli imprecò dietro, poi prese esattamente la strada opposta alla sua. Altaïr si alzò e lo seguì in silenzio.



MALIK


«Malik.»

La voce di Altaïr non colse di sorpresa il rafiq, poiché aveva udito il confratello entrare dal tetto che copriva l'ala est della Dimora. Nonostante il fidā'ī si muovesse sempre in modo estremamente silenzioso, bastava poco per rompere il silenzio notturno di una sede di Hashshashin in cui non era rimasto nessuno a parte Malik. In ogni modo, il capo degli Assassini di Gerusalemme non alzò lo sguardo dal libro che stava sfogliando al lume di una lucerna nemmeno quando Altaïr entrò col suo solito passo deciso.

«Sei qui per sprecare ancora un po' del mio tempo?», gli chiese senza guardarlo.

«Ho raccolto abbastanza informazioni sul conto di Talal», rispose Altaïr. «Sono pronto per portare a termine la mia missione.»

Malik raddrizzò la schiena e gli gettò un'occhiata piena di astio. «Questa è una cosa che spetta a me decidere», sibilò. In realtà non faticava a credere che Altaïr avesse svolto il suo dovere in modo impeccabile, e che non vi fosse nulla da recriminare. Inoltre, lo stesso Malik non vedeva l'ora che il confratello finisse di fare ciò che doveva, e se ne andasse dalla sua Dimora e dalla sua città. Il rafiq estrasse un enorme tomo da un ripiano al di sotto del bancone a cui era appoggiato fino ad un attimo prima, e ve lo lasciò cadere con una certa violenza.

«Molto bene, ecco quello che so», rispose Altaïr con aria irritata. «Traffica in esseri umani. Rapisce abitanti di Gerusalemme e li vende come schiavi. La sua base è un magazzino situato nel barbacane a nord. Sta preparando la spedizione di una nuova carovana: colpirò mentre esamina la mercanzia. Evitando i suoi uomini, uccidere Talal sarà una bazzecola.»

Malik fece schioccare la lingua, sprezzante. «Arrogante come sempre.»

«Abbiamo concluso?» chiese l'Assassino con aria vagamente ironica. «Sei soddisfatto di ciò che ho appreso, rafiq

Malik serrò i denti e si impose la calma. «No. Ma dovrà bastare», rispose. Aprì il libro e ne scorse rapidamente le vecchie pagine, che emisero un leggero fruscio. Verso la metà si fermò: tra un foglio e l'altro posta una penna d'uccello, candida. La prese le la porse al confratello, che la mise nel cinturone.

«Riposati, preparati, piangi in un angolo, fa' quel che fai di solito prima di una missione», aggiunse Malik. «Ma vedi di farlo in silenzio.»

Altaïr non rispose ed uscì dalla stanza a grandi passi rabbiosi. Malik sapeva di stare provocando il fidā'ī più di quanto chiunque altro avesse mai fatto, e non era sicuro che Altaïr avrebbe conservato il proprio autocontrollo ancora a lungo. Era perfettamente consapevole anche del fatto che, se Altaïr avesse deciso di risolvere la questione tra di loro nel modo più rapido, Malik-senza-un-braccio non avrebbe avuto la benché minima speranza di avere la meglio. Ma il suo odio, il suo desiderio di vendetta frustrato, il suo dolore per la perdita di Kadar lo tormentavano senza posa e gridavano tutti insieme la loro urgenza di sfogarsi sul più diretto responsabile del disastro irrimediabile avvenuto nella sua vita.

Eppure, pensò Malik mordendosi il labbro inferiore, c'era stato un tempo, neppure troppo lontano, in cui Altaïr era stato l'idolo, il modello a cui aspirare. Il ricordo gli attraversò la mente con la fulmineità di una presa di coscienza improvvisa, come se non provenisse dalle pieghe della sua stessa memoria, ma dal passato di qualcun altro. Di un'altra persona, totalmente diversa, che aveva vissuto quando le scelte erano più facili e il mondo era più grande.

Con la coda dell'occhio spiò la sagoma oscura del confratello, sdraiato tra i cuscini nelle fresche ombre del cortile, e gli tornò alla mente quando di notte lo intravedeva, seduto sulla cima delle mura di Masyaf, come un'aquila che vigilasse sull'intera valle dell'Oronte. Che cosa ci fosse da vedere lassù, solo, nel buio e al freddo, Malik non avrebbe mai potuto dire; ma in qualche modo, in quei momenti sentiva quasi tangibile la differenza tra loro. Il confratello aveva solo qualche anno più di lui, eppure gli sembrava che non avrebbe mai potuto mai arrivare alla sua altezza, e meno che mai superarlo. Sarebbe stato sempre il gatto che guardava dal basso l'aquila lontana.



ALTAÏR


Altaïr si svegliò alle luci dell'alba. Per scacciare la sonnolenza mise la testa sotto l'acqua fredda della fontana a lato del cortile, poi rialzò il cappuccio sopra il capo e uscì dalla Dimora. Sapeva che la carovana di Talal sarebbe partita con la luce del primo sole, per sfruttare le ore più fresche della giornata: doveva muoversi rapidamente per non perdere l'occasione.

Il fidā'ī coprì in velocità la distanza che separava la Dimora degli Assassini e il barbacane dove Talal aveva la sua base. Era una grande struttura addossata alle mura del lato nord della città, in modo da sostenerle e rinforzarle in un punto dov'esse potevano essere più facilmente attaccate. Dall'esterno l'edificio appariva costituito da due blocchi, uno arretrato, più alto e spesso, aderente alle mura, e un'altro, più basso e tozzo, che si sporgeva in avanti sulla strada e che si apriva in un grande arco.

Quando l'Hashshashin giunse sul posto, il portone del barbacane era spalancato e nei pressi non c'era un'anima viva. Tutto questo non costituiva un buon segno. Altaïr contava sul fatto di trovare Talal già sulla strada, a controllare il numero degli schiavi della spedizione da inviare ad 'Akkā; e certo si sarebbe aspettato un discreto numero di mercenari nei dintorni. Il fatto che non fosse presente nemmeno una guardia alla porta lo mise in allerta.

Che qualche alleato della sua prossima vittima avesse notato i suoi movimenti e l'avesse avvertita, era una circostanza che Altaïr non poteva certo escludere. La notizia che un Hashshashin stava agendo in città si era già diffusa; ed una volta considerate le mosse di Altaïr negli ultimi giorni, era plausibile che Talal avesse mangiato la foglia.

Altaïr odiava l'idea che la sua presenza fosse già annunciata. L'ultima volta che aveva rinunciato deliberatamente alla sicurezza dell'anonimato, uno dei suoi sottoposti era morto e l'altro ci aveva rimesso un braccio. Il fidā'ī imprecò mentalmente.

L'Assassino saltò sul tetto del barbacane e cercò un'entrata alternativa a quella principale, ma non ne trovò: le poche finestre erano chiuse e inchiodate dall'interno. L'edificio era sigillato in modo pressochè ermetico. Altaïr allora scese e varcò l'arco, consapevole di stare finendo dritto in una trappola.

Come aveva previsto, non appena mise piede all'interno una enorme porta di legno massiccio venne lasciata cadere dall'alto come una saracinesca, a sbarrare l'entrata. Il buio era quasi totale, e passò qualche secondo prima che gli occhi di Altaïr riuscissero a individuare le sagome degli oggetti attorno a lui. Non che ci fosse molto da vedere: per quel che si intuiva, era un ambiente squallido con nude pareti di pietra e mucchi di assi di legno e di botti accatastate le une sulle altre. In compenso, le sue orecchie colsero immediatamente flebili lamenti provenienti dal piano interrato: le celle dove Talal rinchiudeva i suoi prigionieri dovevano trovarsi sotto i suoi piedi. La stanza era infatti impregnata di un intenso odore di esseri umani.

«Ed ora, schiavista?», chiese Altaïr, avanzando con cautela nell'oscurità. Sapeva di trovarsi sotto lo sguardo di Talal e dei suoi uomini.

«Non chiamarmi così, Assassino», gli rispose una voce, che Altaïr riconobbe provenire da una stanza vicina. «Li sto solo aiutando.»

«Certo. Fai loro la cortesia di imprigionarli e ridurli peggio delle bestie.»

«Imprigionarli?», continuò la voce. «Li tengo al sicuro. Li preparo per il viaggio che li aspetta.»

«Verso il più prossimo mercato degli schiavi.»

Talal rise. «Non sai nulla, Assassino. Non sprecherò il mio fiato in spiegazioni. È da folli anche solo pensare che tu possa vedere e capire

«Ho visto e capito abbastanza», tagliò corto aspramente Altaïr. «Mostrati, bastardo.»

Il rumore di una carrucola che veniva azionata e di uno sfregamento metallico lo avvertirono che qualcuno aveva sollevato un cancello alla sua sinistra. Il fidā'ī procedette, percorrendo un breve corridoio, senza voltarsi indietro quando anche il cancello si richiuse con fragore alle sue spalle.

L'odore di sangue, sudore e urina si fece più greve, quasi insopportabile, e i lamenti provenienti da sotto terra più chiari e vicini. La luce aumentò di poco, ma abbastanza perchè Altaïr si rendesse conto con disgusto di camminare su una grata sospesa sopra le celle degli schiavi; al di sotto poteva intravederli nell'oscurità, mentre si muovevano e allungavano le magre braccia verso l'alto, verso di lui, chiedendo aiuto. Altaïr impose a se stesso di non guardare e di concentrarsi unicamente sul suo obiettivo.

Al termine del corridoio uscì in un ambiente grande e dal soffitto piuttosto alto: doveva essere giunto nella parte del barbacane addossata alle mura. Dagli spiragli delle finestre, sbarrate da scuri inchiodati, entravano qui e là sottili raggi del sole ormai alto. Lungo il perimetro della grande stanza, ad un'altezza di tre o quattro metri dal suolo, correvano delle assi: solo quelle più vicine ai muri erano integre, mentre quelle verso il centro erano spaccate: probabilmente i resti di quello che una volta era il piano superiore. Gli uomini di Talal lo attendevano là, nelle ombre.

«Quindi vorresti conoscere l'uomo che ti ha chiamato qui», disse la voce che Altaïr già conosceva. Con un'occhiata il fidā'ī individuò la posizione di Talal e quella di una scala che conduceva di sopra, appoggiata alla parete opposta.

«Non mi hai chiamato», rispose Altaïr. «Sono stato io a venire a cercarti.»

«Davvero? E chi ti ha aperto le porte? Chi ti ha permesso di passare? Se avessi voluto, saresti già morto anche dieci volte da quando hai messo piede qui dentro.»

«Continua ad esserne convinto, schiavista», disse Altaïr estraendo la spada. «E nel frattempo scendi. Ti concedo di morire conservando un ultimo briciolo di dignità.»

Talal scoppiò in una nuova risata e fece un cenno ad uno dei suoi uomini. Quest'ultimo spaccò con un colpo di ascia le assi che chiudevano una piccola finestra sul soffitto. Un cono di luce quasi abbacinante scese come una cascata nella stanza oscura. Nello stesso momento, gli altri mercenari saltarono giù e circondarono Altaïr. L'Hashshashin sembrò ignorarli, totalmente concentrato sul suo obiettivo: un uomo di statura media, con i capelli neri e grigi assediati dalla calvizie incipiente, le sopracciglia grosse e un paio di folti baffi scuri. Indossava una corta tunica verde e un paio di ampi calzoni grigi di tipo orientale, stretti alle caviglie.

«Tu credi di conoscermi, Assassino», stava dicendo Talal, guardandolo dall'alto. «Ma anche io conosco te. Sei il braccio destro dello sciacallo di Masyaf. Le tue qualità sono ben note. Alleati con me, con noi. Finalmente potrai aprire gli occhi e vedere oltre le bugie.»

«Quello che io vedo ora è un uomo morto che cammina.»

«Molto bene. Non mi lasci scelta», disse Talal, scrollando le spalle. «Uccidetelo.»



MALIK


Malik seppe della morte di Talal molto prima che Altaïr facesse nuovamente il suo ingresso nella Dimora. Il suono alto e forte delle campane suonate a martello sembrava quasi scandire il nome del fidā'ī. Non occorreva un indovino per immaginare come aveva agito: platealmente e senza precauzioni, in spregio ai più elementari insegnamenti della disciplina. Come quel giorno, nel tempio di Sulaymān.

Non trascorse molto tempo, che Malik lo udì rientrare dal soffitto a grata del cortile: la divisa bianca dell'Ordine era sporca e macchiata di sangue. Varcò la soglia della stanza sfoggiando la solita aria incurante.

«Altaïr! È una vera gioia rivederti qui», esclamò sprezzante Malik. «Sentiamo, com'è andata la missione?»

«Talal è morto», rispose Altaïr, ed esibì la piuma bianca intinta del sangue della sua ultima vittima.

«Oh, lo so, lo so...», fece Malik. «In effetti l'intera città lo sa! Comprenderai mai il significato della parola discrezione? Non hai dunque imparato davvero nulla, novizio

Altaïr contrasse le mascelle. «Un bravo Assassino si assicura che il suo lavoro sia notato da molti.»

«No! Un bravo Assassino mantiene il controllo del suo ambiente.»

«Possiamo discutere di dettagli quanto ti pare. Resta il fatto che ho portato a termine il lavoro affidatomi da Al Mualim.»

«Allora vai, tornatene dal vecchio», disse Malik con un sorriso ironico. «Vedremo se starà dalla mia o dalla tua parte.»

Altaïr fece una breve pausa. «Tu e io siamo dalla stessa parte, fratello», disse.

Malik sentì il sangue salirgli alla testa. «Non osare chiamarmi fratello, Figlio di nessuno!», gridò. «Avevo un solo fratello, e sei stato tu ad ammazzarlo!»

Ma nel momento stesso in cui pronunciava queste parole, per un qualche motivo sconosciuto, un piccolo angolo della coscienza del rafiq gli rimorse dolorosamente. Altaïr non reagì. Restò in silenzio per alcuni interminabili secondi, durante i quali i due si fissarono con astio. Lontano, l'allarme continuava a suonare ritmicamente, ora a rintocchi lenti e cadenzati.

«Torno a Masyaf», disse infine il fidā'ī, e si voltò per uscire.

Malik cercò di reprimere quell'insensato, sottile senso di colpa che ora provava, ma non vi riuscì. «Sei coperto di sangue», disse a bassa voce. Anche senza guardare il confratello, il rafiq potè avvertire chiaramente su di sé la sua occhiata sorpresa.

«Per la maggior parte non è mio», rispose Altaïr.

«Lo so, idiota», sbottò Malik. «Vuoi attirare l'attenzione di chiunque ti veda, sulla strada del ritorno? Le campane stanno suonando e l'intera guardia cittadina sarà in allerta. Di là c'è una divisa pulita. Dovrebbe andarti bene, dal momento che abbiamo misure simili. Prendila e vattene.»

Altaïr sembrò esitare per un attimo, poi tornò sui suoi passi ed entrò nella stanza sul retro. Malik si sedette e cercò di concentrarsi sulla lettera da scrivere ad Al Mualim, ma non riuscì a tracciare che un paio di righe. Di là udiva il rumore metallico delle armi che il confratello deponeva per cambiarsi.

Che cosa gli era preso? Perché aveva deciso di fargli questo favore? Malik non riusciva a spiegarselo. Se l'avesse lasciato andare in quello stato, le possibilità che Altaïr venisse notato e coinvolto in un combattimento mortale sarebbero aumentate e con esse la probabilità di liberarsi definitivamente di lui. Eppure qualcosa in Malik aveva letteralmente urlato “no, questo non è giusto”. Il rafiq di Gerusalemme fece girare pensosamente la punta del qalam nella boccetta dell'inchiostro, e stava ancora fissando il liquido nero quando Altaïr ricomparve nella stanza, con addosso la sua divisa. Malik non alzò lo sguardo su di lui, né il confratello aggiunse una parola. Altaïr si diresse verso la porta che dava sul cortile; ma prima di varcarla si fermò, come soppesando una difficile decisione.

«Grazie», mormorò infine, e uscì.



ALTAÏR


Non l'avrebbe rivisto che in capo a un anno. Più di dodici mesi in cui Altaïr si sarebbe pressochè dimenticato dell'esistenza di Malik, preso com'era dagli impegni che Al Mualim gli aveva affidato. La lista dei nomi di coloro che dovevano morire per riscattare il suo onore era ancora lunga e dopo al-Quds prevedeva visite anche a Dimašq e ad ʿAkkā. Eppure, mano a mano che procedeva, che gli obiettivi venivano raggiunti e i suoi gradi recuperati, i dubbi gli si annidavano nella mente sempre più pressanti e insistenti. Negli ultimi mesi si ritrovò a pensare di nuovo a Malik perchè forse, se avesse posseduto un po' della saggezza del confratello, avrebbe potuto giudicare meglio la propria situazione.

Al Mualim, che pensava di conoscere meglio di chiunque altro, si era rivelato essere un mistero insondabile. E poi c'erano quelle criptiche affermazioni che ogni sua vittima gli aveva rivolto poco prima di morire. Frasi che prese una alla volta non avrebbero minimamente scalfito la sicurezza e la fiducia del fidā'ī nei confronti del suo superiore; e che invece, tutte insieme, erano riuscite a minarla al punto da condurre maestro e discepolo sull'orlo del punto di rottura più definitivo.

«Avete detto che avrei trovato le risposte quando non avrei più avuto bisogno di chiederle», gli aveva detto Altaïr. «Quindi ora non chiedo: esigo che mi diciate cosa lega quegli uomini.»

Al Mualim aveva già estratto la spada. Altaïr sapeva che, se avesse voluto, avrebbe potuto ucciderlo anche per molto meno di un affronto così grave. Ma aveva deciso che il gioco a cui stavano giocando valeva bene qualche rischio.

Come aveva previsto – e sperato – il Maestro aveva fermato la mano e aveva acconsentito a dargli qualche spiegazione; ma invece di diminuire, le domande erano aumentate esponenzialmente. Se gli uomini nella lista erano Templari, che cosa volevano? A che cosa miravano? E cos'era il “tesoro” che Al Mualim l'aveva mandato a recuperare nel tempio di Sulaymān? Più ci rifletteva, più Altaïr aveva l'impressione di non essere che una pedina in una partita molto più grande di lui, di cui cominciava appena a intuire le regole.

L'Hashshashin rimise piede a Gerusalemme verso la metà di un settembre ancora caldo e afoso. La città era in balìa di una calura impregnata di polvere e degli odori più diversi, da quello intenso e pungente delle spezie provenienti dall'Iran, dal Pakistan e dall'India, a quello greve di marcescenza e di escrementi negli angoli e nei vicoli dove correvano i topi. I recenti fatti di guerra che vedevano contrapposti Salāh ad-Dīn e Riccardo d'Inghilterra avevano fatto triplicare il numero di soldati impegnati in città, e Altaïr dovette usare più prudenza del solito per evitare di scatenare un putiferio non appena entrato nel cerchio delle mura. Questa volta avrebbe fatto tutto il possibile per conservare l'anonimato fino al momento di colpire.

Finalmente giunse alla Dimora degli Assassini. Come al solito si calò dal tetto del cortile, e prima di affrontare Malik si fermò alla fontana a bere un sorso d'acqua. Quando entrò nella stanza, ritrovò il rafiq seduto al bancone, come l'aveva lasciato l'ultima volta che era stato lì, più di un anno prima. Se non fosse stato per la barba nera, più folta e un po' più lunga, e per un aspetto meno sofferto del magro viso, si sarebbe quasi detto che il tempo non fosse mai passato.

Stavolta Malik non era solo, nella Dimora: stava infatti conversando con un giovane seduto su di uno sgabello, a un paio di metri da lui. Quest'ultimo indossava la tunica grigia e corta dei novizi; i suoi capelli castano scuro erano arruffati, ma il viso era rasato di fresco. Parve riconoscere immediatamente Altaïr e si affrettò ad alzarsi in piedi in segno di rispetto.

«Salute e pace, fratelli», disse Altaïr fermandosi sulla soglia.

Malik sembrò accorgersi del suo arrivo solo in quel momento e si volse verso di lui. Il sorriso sulle sue labbra si spense all'istante.

«Altaïr. Mi aspettavo una tua visita, ma non pensavo così presto», disse freddamente. Poi con un cenno della mano destra aggiunse: «Il ragazzo si chiama Yusuf. È un novizio mandato qui per mettere in pratica i fondamentali delle indagini sugli obiettivi da abbattere.»

Altaïr annuì. «Ci conosciamo già. Non ci siamo allenati un paio di volte con la spada, a Masyaf?»

Yusuf si inchinò profondamente e balbettò: «Sono onorato che vi ricordiate di me, maestro.»

L'Assassino non potè reprimere un mezzo sorriso. All'interno dell'Ordine non erano molti quelli che lo chiamavano ancora “maestro”. Quando spostò lo sguardo su Malik, si accorse che lo stava fissando con un'espressione strana, che non riuscì a decifrare. L'avrebbe quasi definita incuriosita, se non si fosse trattato di Malik-so-tutto-io.

«Allora», disse il rafiq. «Quali nuove dal vasto mondo?»

«Non buone», rispose Altaïr. «In giugno Riccardo ha stretto d'assedioʿAkkā. All'inizio di luglio la città è caduta e in agosto i crociati hanno massacrato più di tremila prigionieri di fronte alle mura, così che anche Salāh ad-Dīn e il suo esercito potessero godersi lo spettacolo dall'accampamento.»

«Ne sono al corrente», disse Malik.

«Salāh ad-Dīn riprenderà la città», disse Yusuf. «Akkā è il nostro porto principale. Non può restare in mani cristiane.»

«Non ne sarei così sicuro», riprese Altaïr. «Ora che si è dotato di una base così importante, Riccardo punta su Gerusalemme.»

«Quindi adesso l'obiettivo primo di Salāh ad-Dīn sarà sbarrargli la strada», disse Malik. «Nonostante le divergenze che ha avuto con l'Ordine anni fa, in questo caso ha tutto il mio sostegno morale.»

«A quanto pare, ha già tentato di fermarlo, pochi giorni fa. Riccardo stava marciando su Giaffa, quando è stato attaccato dall'esercito di Salāh ad-Dīn ad Arsuf, poco più a nord. Purtroppo la reazione dei Templari e degli Ospitalieri è stata abbastanza rapida ed energica da respingerlo. Se non vado errato, è la prima vera disfatta subita da Salāh ad-Dīn. In molti non ci volevano credere. Pensavano che fosse una specie di divinità.»

«Avrebbero dovuto vederlo quando si svegliò quella mattina con il pugnale del Maestro Rashid sul petto», esclamò Yusuf. Era una storia vecchia di più di quindici anni, eppure faceva ancora presa sulle menti dei ragazzi.

«La situazione non è delle migliori», commentò Malik. «Ma noi dobbiamo continuare a fare il nostro dovere. Sei qui per Robert de Sablé.»

«Sei bene informato.»

«E' il mio lavoro. Riposati, se ne hai bisogno. Domattina cercherai le informazioni di cui necessiti per portare a termine il tuo compito.»

Detto questo, il rafiq sembrò rivolgere la sua attenzione ad una mappa che aveva aperta davanti. Altaïr pensò che Malik quel giorno dovesse sentirsi particolarmente magnanimo per rivolgersi a lui con tanta cortesia. Ma poi associò il mutato comportamento del confratello alla presenza di Yusuf. Probabilmente non desiderava che il novizio assistesse ad uno scontro tra due superiori.

Salutò Yusuf con un cenno del capo, e andò a distendersi all'ombra.



MALIK


Quella notte il rafiq di Gerusalemme non riuscì quasi a chiudere occhio. Avvertiva una sottile tensione, anche se non riusciva a identificarne l'origine. Restò alzato fino a notte fonda a scrivere e a leggere al lume di una lampada a olio, nella stanza sul retro della Dimora, perchè nell'altra si era sistemato Yusuf a dormire. Gli unici suoni che interrompevano il silenzio notturno erano il lieve russare del novizio e il monotono canto dei grilli sui rami dei mandorli carichi di semi.

Altaïr era rimasto sdraiato sui cuscini ai piedi della fontana per qualche ora; poi Malik aveva udito dei lievi rumori provenienti dal cortile. Erano durati appena qualche secondo e lo avevano avvertito che il confratello era uscito dalla Dimora. Evidentemente, Malik non era l'unico insonne, nella base degli Assassini di al-Quds.

L'Hashshashin interruppe per un momento la lettura della Sīrah e ripensò al confratello. Dopo il breve dialogo che avevano avuto ore prima, non si erano più rivolti la parola; ma a Malik erano bastati pochi minuti per accorgersi che durante quei mesi qualcosa era cambiato nell'atteggiamento di Altaïr, e forse molto più profondamente di quanto lui stesso non si rendesse conto. Non era solo una questione di parole dette, ma soprattutto di una serie di gesti e di comportamenti che non gli aveva mai conosciuto prima. Il tono di voce smorzato, il sorriso che aveva rivolto a Yusuf, il fatto che si fosse fermato sulla soglia finché Malik non si era accorto della sua presenza. Forse qualcun altro non avrebbe nemmeno notato quei segnali, ma per Malik il confratello era quasi irriconoscibile. Si sarebbe detto che la lezione impartitagli da Al Mualim avesse sortito il suo effetto; eppure a Malik era sembrato di cogliere anche qualcos'altro, anche se non a livello razionale. Non era che una vaga sensazione, però il rafiq conosceva abbastanza bene Altaïr per essere discretamente certo che fosse corretta. Forse era il pensiero di dover affrontare ancora Robert de Sablé dopo la mezza disfatta al tempio di Sulaymān?

L'ex Assassino si impose di archiviare questi pensieri almeno fino all'indomani mattina, e riprese a leggere finchè non si sentì troppo stanco per continuare. Allora si gettò sul letto, ma trascorse ancora qualche ora prima che riuscisse a prendere sonno; e quando la luce del mattino iniziò a inondare la piccola stanza, gli sembrò di avere dormito appena una manciata di minuti.

Nonostante la stanchezza si impose di alzarsi, si rinfrescò il volto ed uscì dalla camera per rimettersi al lavoro, portando con sé un contenitore in terracotta con uva e datteri. Si accorse solo in quel momento che Altaïr lo stava attendendo. Era seduto sullo sgabello usato il giorno prima da Yusuf, il quale ancora dormiva profondamente in un angolo della stanza, con la pesante incoscienza del sonno degli adolescenti.

«Saba'a alkair», lo salutò Altaïr con aria rilassata.

«Saba'a alkair», lo ricambiò Malik appoggiando la terrina con la frutta sul bancone. «Non mi ero accorto che fossi tornato.»

«Sono rientrato una mezz'ora fa. Credo dormissi.»

«Più o meno». Il rafiq riprese il suo solito posto dietro al bancone. «Notte movimentata?»

«Affatto. Avevo solo bisogno di un po' d'aria», rispose Altaïr, poi precisò: «Non ci sono stati problemi.»

«Non ho detto nulla.»

«Ma avresti potuto.»

Il tono vagamente ironico assunto dal fidā'ī non piacque a Malik, ma preferì lasciar correre. «Dunque il tuo prossimo obiettivo è Robert de Sablé», disse. «Ti conviene muoverti e cominciare a raccogliere informazioni su di lui.»

«Con il tuo aiuto lo farò», disse Altaïr. «Da dove mi consigli di iniziare?»

«Che c'è?», fece Malik cogliendo l'occasione per ricambiare l'ironia. «Il grande Altaïr mi sta chiedendo assistenza invece di pretenderla? Mi stupisci.»

Altaïr ebbe un moto di impazienza. «Parla, dunque.»

«D'accordo. Ecco quello che posso dirti: gli uomini di de Sablé si sono letteralmente accampati nel quartiere cristiano, nei pressi del Kanīsat al-Qiyāma. Approfittano della tensione tra i musulmani e i pellegrini cristiani bisognosi di “protezione”. Credo che da quelle parti troverai le informazioni di cui hai bisogno.»

Altaïr annuì. «Grazie del consiglio, dā'ī», disse.

Malik rimase per un momento spiazzato. Era la prima volta che l'Assassino gli dimostrava abbastanza rispetto da chiamarlo “dā'ī”.

«Altaïr», lo chiamò, prima che il confratello uscisse. «Da quando sei arrivato non hai toccato cibo... almeno, che io sappia. Se hai fame, c'è della frutta.»

Altaïr lo guardò con un misto di sorpresa e perplessità. «Credevo fosse la tua colazione.»

«Infatti. Ma ce n'è abbastanza per due.»

I lineamenti del confratello si distesero e per un attimo sembrò quasi che sorridesse. «Shokran, Malik», disse, e prese un grappolo di uva rossa.

«Ala elrahib wa elsaa», rispose il rafiq. Dentro di sé si chiedeva perché avesse deciso di compiere un tale passo verso Altaïr. Si era forse dimenticato di Kadar e della fine che aveva fatto a causa della cieca arroganza del fidā'ī di rango superiore, colui che per primo avrebbe dovuto garantirgli la sicurezza? No, non aveva dimenticato. Come avrebbe potuto? Eppure eccolo lì, a dividere un pasto con il diretto responsabile della perdita di suo fratello e del suo braccio sinistro. Doveva essere impazzito.

«La sventura segue i passi di Robert de Sablé», stava dicendo Altaïr, che nel frattempo si era nuovamente seduto. «Se egli è qui è perché intende fare del male. Anche se rispondesse delle proprie azioni a Riccardo, dovremmo eliminarlo ugualmente; a maggior ragione ora che so che in realtà è un cane sciolto, e come tale tanto più imprevedibile e pericoloso.»

«Non lasciare che la vendetta offuschi il tuo sguardo», disse Malik. «Sappiamo entrambi che non è un bene.»

Altaïr fece una pausa, lo sguardo perso in pensieri che il rafiq non poteva indovinare. Mangiò alcuni acini, poi rispose: «Non cerco vendetta, ma conoscenza.»

Malik si lasciò sfuggire un'espressione ammirata. «Sei molto cambiato.»

«Sono successe parecchie cose. Non tutte positive.»

«L'avevo intuito. Quello che hai detto poco fa ha confermato un sospetto che avevo da che sei arrivato. Sai qualcosa che io non so. Qualcosa di importante. Perché dici che Robert de Sablé è un “cane sciolto”?»

«Ciò che tutti credono è che de Sablé sia un Crociato agli ordini di Riccardo. Il che è in effetti quello che de Sablé vuole far credere. Ma gli uomini che ho eliminato in questi mesi lavoravano insieme in segreto, ed erano tutti ai suoi ordini. De Sablé ha dei piani su questa terra: questo lo so per certo. Ma quali siano, questo ancora mi sfugge.»

Malik guardò Altaïr con un'espressione incredula. «Crociati e saraceni che collaborano?»

«No. Le vittime della lista erano ben altro: Templari. Accomunati da una certa astrusa idea di poter fermare la guerra.»

«E' una storia ben strana quella che mi stai raccontando.»

«Decisamente. E non posso dire di non avere faticato nel rimettere insieme questi pochi pezzi». Il fidā'ī abbassò lo sguardo. «Al Mualim non mi ha certo agevolato in questo.»

«Capisco», disse Malik. «Anzi, non capisco affatto. Ma l'impressione che ho è che ora potresti essere vicino alle risposte che ti mancano.»

«Proprio così, Malik», confermò l'Assassino. «Ecco perchè voglio muovermi prima possibile e portare a termine il compito assegnatomi da Al Mualim. Per lui, e per me». Detto questo, Altaïr si alzò e si avviò alla porta.

Malik lo guardò uscire. «Discrezione, Altaïr», disse a bassa voce. «Ricorda la discrezione... fratello». Ma Altaïr era già scomparso, ed era improbabile che avesse udito le sue ultime parole.



ALTAÏR


Altaïr tracciò un rapido percorso dal quartiere musulmano a quello cristiano, restando praticamente sempre sui tetti e procedendo pressoché in linea retta. Dall'ultima volta che era stato ad al-Quds, le guardie saracene erano state moltiplicate e dovette farne fuori diverse perché non dessero l'allarme, ma si premurò di farlo in modo estremamente silenzioso. Arrivato in vista delle due cupole della Basilica del Santo Sepolcro decise di scendere a terra e si mescolò alla folla di cristiani in visita dell'antica chiesa. Nei dintorni la calca faceva impressione: sembrava che il mondo intero si fosse riversato nelle strette vie del quartiere cristiano. Il vociare era quasi assordante. Ovunque si vedevano folti gruppi di uomini coperti da logori mantelli imbiancati dalla polvere della strada: gravati dal peso di sacchi contenenti le loro poche cose, camminavano appoggiandosi a lunghi bordoni. Vi erano molti monaci nelle loro tuniche bianche e soldati in armatura che giravano con la mano sull'elsa della spada, pronti ad attaccare briga con chiunque li urtasse. E poi donne, bambini urlanti e, come se l'ingombro non fosse già eccessivo, ai lati delle strade veri e propri eserciti di venditori di frutta secca, verdura, ex voto e ricordi della basilica, che gridavano a squarciagola in tutte le lingue, per attirare clienti. Era il tipo di ambiente che faceva comodo ad un Assassino per girare indisturbato e compiere le proprie indagini.

Come l'aveva avvertito Malik, in mezzo alla folla di pellegrini cristiani si aggiravano gli uomini di de Sablé, riconoscibili per la lunga tunica bianca e la croce rossa cucita sul petto. Altaïr cercò di evitarli e fece il giro del Kanīsat al-Qiyāma. Sui gradini che conducevano ad un'entrata laterale della basilica si era sistemato un oratore per tenere il suo discorso; ed era costretto a sbraitare, perché fosse possibile udire le sue parole sopra il baccano della strada. Inizialmente Altaïr non fece troppo caso a lui, poi gli sentì declamare il nome di Robert de Sablé e si fece più attento.

«Dobbiamo avere l'animo di chiamare amici coloro che un tempo reputavamo nemici», stava gridando l'oratore. «I Crociati giungono a Gerusalemme recando un'occasione: la fine delle ostilità! La fine della guerra! Non dobbiamo respingerli. Tendiamo loro la mano! Essi ce ne offrono la possibilità: lo stesso Robert de Sablé parteciperà al funerale di Majd Addin!»

Altaïr attese che l'oratore avesse finito e, quando egli scese e si riunì al fiume di gente, lo seguì tenendosi a una certa distanza. Si allontanarono dalla Basilica. L'uomo entrò in una stradina laterale angusta, dove passavavano poche persone: il momento che il fidā'ī stava aspettando. Gli si avvicinò alle spalle e gli sferrò un colpo alla nuca, che lo fece stramazzare a terra prima ancora di potersi rendere conto di essere stato aggredito. Senza dargli il tempo di riprendersi, Altaïr lo prese per i capelli e gli fece sbattere violentemente la fronte contro il muro più vicino. Allora la sua vittima iniziò a gridare e a dimenarsi, ma un altro colpo della faccia sul muro lo convinse a reagire nel modo giusto. «Abbiate pietà, abbiate pietà nobile signore», farfugliò con la bocca piena del sangue che gli colava dal naso e dai denti rotti. «Che cosa volete da me? Ho pochi denari, prendeteli pure. Ma per Allah misericordioso, lasciatemi andare!»

«Non bestemmiare, traditore», disse Altaïr mettendogli la lama sotto il mento. «So che lavori al servizio dei Templari. Parli di pace, ma le tue parole sono vuote.»

«No! Dico il vero.»

«Sei anche un bugiardo. Come il tuo maestro. Dov'è? Che cosa complotta?»

«Egli cerca la pace, lo giuro. E le sue azioni ne sono la prova. Un cristiano al funerale di un musulmano...»

«Niente giri di parole inutili con me, amico dei Templari. Non sono uno dei bifolchi che ti diverti a ingannare.»

«Il mio maestro cerca la pace per questa terra... sotto il nostro stendardo!»

«Detto in altre parole, vuole renderci tutti schiavi.»

«E' per un nobile intento.»

Il fidā'ī ghignò. «Allora rallegrati, traditore. Perché anche questo è per un nobile intento», disse, e fece scorrere in avanti la lama nascosta, aprendogli la gola.

Lasciò l'uomo agonizzante nella polvere della strada e salì rapidamente sull'edificio più vicino. Da lassù poteva seguire con lo sguardo la strada di Yāfā, l'arteria che divideva nettamente il quartiere armeno da quello cristiano e che portava fuori dalla città attraverso Bab el-Khalil. Accanto ad essa si innalzavano alte le torri della Burj Daud, la fortezza che sorvegliava la parte ovest delle mura e il percorso che dal porto di Giaffa conduceva sino nel cuore della Città Santa. Se davvero Robert de Sablé risiedeva da qualche parte ad al-Quds, Altaïr non riusciva a immaginare posto migliore di quello: la cittadella che gli stessi Crociati avevano contribuito ad innalzare, novant'anni prima. L'Assassino decise di andare a vedere di persona e riprese la sua corsa sui tetti, costeggiando la strada principale.

Ad un tratto, più o meno a metà tragitto, sentì urlare “Assassino! Assassino!” e si bloccò, pensando di essere stato individuato. Ma si accorse subito che non c'era nessuno nei paraggi e che le voci erano troppo lontane per riferirsi a lui. Adesso gridavano “Prendetelo! Uccidetelo!”, e si sentivano i primi rumori di battaglia. Altaïr si voltò indietro e restò immobile per qualche secondo. Da dove si trovava poteva solo vedere molta gente che fuggiva e altra che invece accorreva per assistere allo scontro, che pareva avere luogo nei pressi della Basilica del Santo Sepolcro.

Era possibile che in città fosse presente un altro confratello di cui Malik non gli aveva accennato? In ogni caso il fidā'ī non poteva certo preoccuparsi anche di lui, oltre che di se stesso; e d'altro canto, non aveva alcun tipo di responsabilità nei suoi confronti. L'unica cosa su cui doveva concentrarsi era l'assassinio di Robert de Sablé.

Ma in quel momento qualcosa che non era la sua ragione decise per lui. Scoprì non senza una certa irritata sorpresa che stava tornando rapidamente sui propri passi.

Perché se tu avessi potuto tornare indietro, quel giorno...

Mentre correva, Altaïr pensava che ciò che stava facendo era probabilmente inutile. Nel tempo che avrebbe impiegato per coprire di nuovo la distanza che lo separava dalla Basilica, il confratello si sarebbe già volatilizzato. C'era così tanta la gente, lì attorno, che per un Assassino con una discreta esperienza scomparire nel nulla avrebbe dovuto essere un gioco da ragazzi.

Aggirò il Kanīsat al-Qiyāma restando sui tetti e guardò in basso: nella piazza antistante la chiesa era accalcata una gran folla, mentre poco più avanti essa lasciava un vuoto. In quel punto, di fronte al muro di un alto edificio, un intero gruppo di soldati Crociati incalzava un giovane Hashshashin vestito di grigio: Yusuf.

“Merda”, pensò Altaïr. “Che ci fa qui quel novizio?”

Yusuf si destreggiava bene con la spada, ma i suoi nemici erano molti e ben addestrati. Ne aveva uccisi alcuni che giacevano ai suoi piedi, ma a sua volta era stato ferito alla spalla e sanguinava. Da quella distanza era difficile valutare se e quanto fosse grave, ma dai suoi movimenti si vedeva chiaramente che era affaticato e in difficoltà. Ad un certo punto, essendo completamente circondato, Yusuf si volse e iniziò a scalare la parete più rapido che poteva, ma non vi riuscì: i Crociati lo tirarono giù e dovette difendersi da colpi anche più potenti e fitti di prima. Rischiava di soccombere entro breve tempo.

Altaïr passò da un tetto all'altro fino a trovarsi sull'edificio alle spalle di Yusuf e saltò giù, atterrando letteralmente su due Templari, uccidendone uno con la lama nascosta e stordendo l'altro. Si rialzò, estrasse la spada e si frappose tra Yusuf e i suoi aggressori. Questi ultimi rimasero per un momento spiazzati dall'apparizione di un secondo Hashshashin.

«Ebn el metnakah!» li insultò Altaïr. «Adesso danzate con me, Templari.»

Uno dei soldati lo attaccò da un lato, ma l'Assassino parò e contrattaccò fulmineo, colpendolo sul fianco scoperto. Il sangue zampillò copioso dalla profonda ferita e l'uomo stramazzò a terra agonizzando. Altaïr si slanciò in avanti contro un altro avversario, menando una serie di rapidi colpi che lo disorientarono e non appena vide uno spiraglio nella sua guardia lo trafisse da parte a parte. Subito dovette difendersi dal fendente di un altro Templare: si ritrasse da un lato, lasciando che venisse travolto dal suo stesso impeto, e gli sferrò una ginocchiata al basso ventre. L'uomo si ridusse in ginocchio gridando di dolore e ricevette in pieno il colpo di spada del fidā'ī, che gli recise i tendini della spalla e penetrò quasi fino al petto. Altaïr gli diede un calcio per liberare la lama dalla sua carne, appena in tempo per piegarsi ed evitare la spada di un altro Templare: l'Assassino fece un mezzo giro su se stesso e gli colpì il retro delle ginocchia. Il soldato cadde a terra e venne immediatamente trapassato.

La gente urlava, chi di terrore, chi per incitare i soldati: “A morte gli Assassini! A morte gli Assassini!”. I Templari sembrarono esitare per qualche secondo. Quella dell'Hashshashin pareva davvero una danza: una danza di morte; ed era soltanto lui a condurla.

Altaïr approfittò di quell'attimo di tregua. «Yusuf! Vattene di qui!», gridò.

Il ragazzo restò in sospeso, incerto sul da farsi. «Ma, maestro...», balbettò.

Il fidā'ī si voltò verso di lui, inferocito. «Mi sei di intralcio, novizio! Vattene subito, è un ordine

Yusuf retrocedette di qualche passo, tenendosi la spalla ferita. Poi si volse e tentò di nuovo di scalare la parete. Il comandante del manipolo di Templari gridò qualcosa in francese e i suoi uomini si avventarono su Altaïr. L' Hashshashin si tenne sulla difensiva, riparandosi dai colpi e limitandosi a contrattaccare non appena intravedeva un varco nella difesa di uno dei suoi avversari. Con la coda dell'occhio vide che, nonostante la spalla ferita e i sassi che gli venivano lanciati addosso, Yusuf era riuscito a salire sul tetto. Adesso il fidā'ī poteva pansare unicamente alla propria incolumità. Alcuni soldati si allontanarono per inseguire l'Assassino fuggitivo, ma non molti: erano tutti concentrati su quello di rango superiore, ancora sul campo di battaglia. Un Templare cercò di colpirlo con un fendente, ma Altaïr lo intercettò. Con un deciso movimento della spada gli spinse indietro il braccio e glielo troncò di netto, facendo schizzare il sangue come da una fontana. Non riuscì nemmeno a rimettersi in posizione di guardia, che un soldato lo attaccò alle spalle. Solo i suoi riflessi pronti lo salvarono dall'essere trapassato da parte a parte; ma scattando da un lato finì quasi addosso alla gente che assisteva allo scontro, e alcuni uomini lo spintonarono gridando “Muori, Assassino!”. Altaïr cadde a terra ed ebbe appena il tempo di scansarsi prima che un nuovo fendente lo centrasse. Ne parò un altro con la spada, ma non poté evitare un terzo colpo, laterale, che gli vibrò il comandante dei Templari. La lama di quest'ultimo calò sul fianco destro di Altaïr, lasciato scoperto, e solo lo spesso cinturone lo protesse, evitando che la ferita fosse mortale. Ciò nonostante, il taglio affilato dell'arma incise il cuoio e raggiunse la carne, lacerandola profondamente. Altaïr gridò di dolore e abbassò la guardia: il soldato più vicino lo afferrò per il bavero e lo scaraventò contro il muro. L'Hashshashin crollò a terra stordito. I Templari risero. Gli spettatori acclamarono.

Uno dei Crociati si fece avanti e afferrò Altaïr per il cappuccio con l'intenzione di tagliargli la gola, ma l'Assassino compì un fulmineo movimento del braccio sinistro: fu il collo del soldato ad essere aperto da parte a parte dalla sua lama nascosta.

Altaïr sapeva che la ferita al fianco era grave. Quanto tempo aveva prima di morire dissanguato? Non aveva modo di calcolarlo. Sperava che il cinturone fosse abbastanza stretto da arginare almeno in parte la fuoriuscita del sangue. Si costrinse a ignorare le fitte e a rialzarsi in piedi immediatamente. Parò un altro colpo, affibbiò un manrovescio al suo aggressore e lo trafisse, ma nello stesso istante venne attaccato da altri due Templari. Uno di essi vibrò un colpo talmente violento che, nel tentativo di deviarlo, la spada volò via dalla mano di Altaïr. Non aveva tempo di recuperarla: schivò un altro attacco e piantò la lama nascosta nella testa dell'avversario, da tempia a tempia. Quando lo spinse via per liberare l'arma, materia grigia mista a sangue sgorgò dalla ferita. Altaïr sfoderò la sciabola dal fodero sulla schiena e compì una mossa fulminea in avanti, verso il secondo Templare, che gli permise di scansare un nuovo fendente e di spingergli l'arma dritto nel petto. Ma dovette bloccarsi per riprendere fiato. I movimenti ampi e improvvisi gli avevano provocato una nuova perdita di sangue dal fianco, e molto consistente. Ormai l'intera tunica bianca era tinta di rosso sul lato destro. La vista gli si appannò. Qualcuno lo colpì allo stomaco, poi al volto. Stramazzò nuovamente a terra e gemette di dolore, incapace di rialzarsi. Riuscì solo a girarsi lentamente, restando disteso sulla schiena.

“Allora è questo che ha provato Kadar”, pensò con una strana calma, quasi con una curiosità scientifica: come se stesse osservando la fine non di se stesso, ma di un'altra persona. Arrivò a considerare la stranezza del fatto che i Templari non l'avessero ancora finito; ma forse volevano semplicemente giocare un po' al gatto col topo, adesso che la preda era sfiancata.

Aprì gli occhi e si vide sovrastato dall'imponente figura del comandante Templare. «Adieu, monsieur l'Assassin» disse quest'ultimo, e alzò la spada su Altaïr con entrambe le mani, la punta verso il basso: verso il cuore dell'Assassino.

Senza un vero motivo, Altaïr pensò a Malik.

Non hai dunque imparato davvero nulla, novizio?”, gli aveva chiesto, con quel suo tono sprezzante che bruciava come sale su viva carne.

Fu l'orgoglio a venirgli in soccorso: Altaïr Ibn-La'Ahad non era il “topo” né la preda di nessuno, e non sarebbe morto sulla strada come un cane, per il divertimento del popolino.

Con un potente colpo di reni l'Hashshashin si inarcò, appoggiandosi sulle mani, e ruotò all'indietro colpendo il Templare con un calcio al volto che gli fece volare via l'elmo. Rimessosi in piedi, Altaïr affrontò il suo nemico con una serie di rapide sciabolate consecutive. L'apparente ripresa delle forze da parte dell'Assassino doveva avere impressionato il Templare, perchè faticava a contrattaccare. Adirato, ad un tratto gridò: «Mouris, morceau de merde!», e tentò di penetrare la difesa di Altaïr menando un colpo più potente. Altaïr l'accolse con la lama corta, ma non cercò di opporre la propria forza alla sua: al contrario, con uno scatto rapido verso destra ne scaricò la violenza da un lato e con lo stesso fluido movimento gli assestò un colpo col gomito sinistro nello stomaco. Il Crociato si piegò in avanti rantolando: Altaïr gli sferrò in rapida successione un pugno al volto con la mano che stringeva l'elsa della sciabola, ed un calcio al petto che lo mandò a ruzzolare per terra. L'Assassino raccolse da terra la spada che aveva perduto poco prima e si avvicinò a grandi passi al Templare, che nel frattempo si era faticosamente rialzato sulle ginocchia, ancora frastornato dalle percosse ricevute.

«Vai dal tuo Dio, cristiano!», gridò Altaïr, e vibrò un fendente impegnando in esso tutta la forza che gli rimaneva. La testa, spiccata di netto dal collo, volò nella polvere e rotolò fino ai piedi degli ultimi Templari rimasti. Il fidā'ī sapeva che, se questi lo avessero attaccato, non avrebbe più potuto difendersi con efficacia. Aveva perso troppo sangue, e l'ultimo sforzo aveva peggiorato di molto la situazione. Una nebbia fitta gli era calata davanti agli occhi e gli tremavano le mani. L'unico suo vantaggio risiedeva nella rinnovata paura che ora i suoi nemici avevano di lui: la sentiva quasi palpabile nell'aria. Poteva essere un'arma potente; e in ogni caso, era anche la sua ultima.

Perfino i pochi spettatori che erano rimasti si erano zittiti; alcuni vomitavano.

Altaïr si sforzò di retrocedere mantenendo la posizione di guardia, poi all'improvviso si voltò e corse via più veloce che poteva, rinfoderando la spada. Stavolta attorno a lui si formò all'istante il vuoto: nessuno tentò di spintonarlo o sbarrargli la strada. Sentì le grida dei Templari alle sue spalle, come se si fossero svegliati da un sogno. In una situazione normale, non avrebbero costituito certo un problema; ma nelle condizioni in cui versava in quel momento, non era sicuro di riuscire a scomparire prima che lo riprendessero. Vide su un lato una parete facilmente scalabile, con delle casse di legno alla base e diverse finestre che si aprivano al primo piano: decise di tentare, nonostante ormai gli fosse difficile anche solo muoversi e il suo corpo fosse diventato pesante come piombo. Saltò sulle casse, si arrampicò più rapidamente che poteva e salì sul tetto. Da lì proseguì la sua fuga. Le voci dietro di lui erano già piuttosto lontane, anche se non si trovava ancora fuori portata. C'era inoltre un'alta probabilità che avesse lasciato abbastanza tracce di sangue sul proprio tragitto perché i suoi nemici potessero raggiungerlo. D'altro canto, anche volendo continuare, non si sentiva più in grado di controllare il proprio corpo. Avrebbe rischiato di schiantarsi a terra durante un salto ancor prima che lo uccidessero le lame dei Templari; e tutto sommato, se doveva scegliere, preferiva morire trafitto da una spada piuttosto che mordendo la polvere di al-Quds.

Sul tetto dell'edificio su cui si trovava c'era una piccola terrazza coperta da una tettoia di legno. Si trascinò all'interno e crollò in ginocchio, distrutto dalla fatica e dalla perdita di sangue. Si costrinse a mantenersi abbastanza lucido da strappare un lembo della divisa e premerla sul fianco per arginare l'emorragia. Non provò nemmeno a sciogliere il cinturone, temendo di aumentare la fuoriuscita del sangue. Per qualche minuto combatté tenacemente contro l'insopprimibile desiderio di dormire che si era impossessato di lui, ma si sentiva mortalmente stanco. L'intero suo corpo era ricoperto da un velo di sudore gelato, e nonostante il sole di Terra Santa battesse violento dallo zenit, Altaïr era scosso da brividi di freddo. Anche se si sforzava di restare cosciente, davanti ai suoi occhi scorrevano visioni sempre più bizzarre e sconclusionate. Cavalli ed elefanti su lunghissime zampe d'insetto, che portavano sulla schiena torri alte fino al cielo...

“Che morte penosa”, fu uno dei suoi ultimi pensieri coerenti. Rimpianse di non essersi fatto massacrare dai Templari.

Ad un tratto, nelle nebbie bianche e azzurre in cui era scivolato, udì una voce lontanissima: “Maestro! Maestro!”

Altaïr aprì gli occhi a fatica, ma non servì a molto: vedeva solo fantasmi fluttuanti. Uno di essi era più concreto e vicino degli altri e continuava a chiamarlo “maestro” in modo così insistente che quasi lo infastidiva. Diceva anche qualcos'altro, ma Altaïr lo sentiva come attraverso l'acqua e non comprendeva le sue parole.

«Kadar», mormorò il fidā'ī. Era di nuovo nel tempio di Sulaymān, e andava incontro a Robert de Sablé. Avrebbe voluto dire a se stesso “Fermati!”, ma già il ricordo era trascolorato in un altro: una nave che scivolava sulle onde viola, verso le terre della sera. A poppa una figura di donna si stagliava sul cielo d'oro e di sangue, e i suoi capelli neri erano sciolti nel vento.

«Mi dispiace, ho fallito», disse Altaïr con un fil di voce. Poi discese in profondi abissi di ombre.



MALIK


Yusuf irruppe nella Dimora con un'irruenza e un fracasso che mal si adattavano ad un Hashshashin. Dal cortile giunse la sua voce affannata: «Maestro! Maestro Malik!»

Il rafiq alzò la testa dai documenti che stava studiando. «Yusuf», disse in tono aspro. «Si può sapere che cosa ti prende?»

Ma il suo atteggiamento mutò radicalmente non appena se lo vide comparire davanti. Il novizio si appoggiò allo stipite della porta, il fiato reso pesante dalla corsa. La tunica grigia era strappata. La sua spalla sanguinava; era pallido, sudato e impolverato.

Malik si alzò e gli si avvicinò. «Ragazzo, sei ferito», disse allungando la mano per condurlo all'interno, ma Yusuf si ritrasse.

«Non è niente», ansimò. «Non è di me che dovete preoccuparvi, maestro.»

Ora Malik era davvero allarmato. «Cos'è successo? Parla!»

«Un incidente... con i Templari. Il maestro Altaïr mi ha permesso di fuggire, ma è stato ferito. È grave, perde molto sangue. È freddo come il ghiaccio, ma quando l'ho lasciato respirava ancora. Non sapevo cosa fare.»

Malik rimase per un momento immobile e silenzioso, mentre pensieri contrastanti gli attraversavano la mente. Non era questo il momento che aspettava da ormai quasi due anni? Altaïr sarebbe morto per le ferite riportate dopo uno scontro con i Templari; e per di più, di una morte lenta, per dissanguamento. Il responsabile della scomparsa di suo fratello avrebbe subìto la sua stessa sorte e pagato con gli interessi per quel che aveva fatto. Kadar sarebbe stato finalmente vendicato. Non era perfetto?

Ma ancora una volta, come più di dodici mesi prima, qualcosa dentro di lui gli rispose che no, non solo non era perfetto, ma non era neanche giusto. Che se poteva fare qualcosa, era suo dovere farlo. Anche per Altaïr.

«Dove si trova?», chiese a Yusuf.

«Sul tetto di una casa al confine tra il distretto cristiano e quello musulmano. Ho cercato di fermare l'emorragia premendo sulla ferita, ma non è possibile, dev'essere suturato o cauterizzato.»

«Non può essere lasciato da solo», disse Malik, prendendo una mappa della città dalla libreria e aprendola sul bancone. «Indicami il punto esatto in cui si trova e poi torna da lui più veloce che puoi.»

Yusuf eseguì, e prima che uscisse Malik gli consegnò dei panni puliti. «Premili forte sulla ferita», gli raccomandò. «Non toglierli per sostituirli quando sono zuppi. Sovrapponili.»

Yusuf annuì e scomparve. Malik si cambiò rapidamente, indossando abiti comuni, prese con sé ago, filo, bende di lino, una bottiglia d'alcol e una borraccia d'acqua. Uscì. Aggirò l'edificio della Dimora degli Assassini ed entrò nella stalla sulla parte posteriore: c'erano tre cavalli che riposavano, agitando le code per respingere gli insetti che ronzavano loro attorno. Malik scelse quello più vecchio e dall'aspetto più dimesso: lo condusse all'esterno, e non senza una certa difficoltà dovuta alla mancanza del braccio sinistro, vi attaccò un carretto che serviva per trasportare gli alimenti per gli animali ospitati.

Ciò che stava per fare comportava un rischio notevole, perchè di giorno era vietato il transito ai mezzi di trasporto per le vie della città. Se avesse incontrato dei soldati della guardia cittadina avrebbero potuto trattenerlo; e l'idea di finire in cella nel tentativo di salvare Altaïr certo non lo entusiasmava. Ma non vi erano altre soluzioni per riportare il confratello nella Dimora: Yusuf non avrebbe potuto trasportarlo, e Malik tanto meno. Il rafiq riempì il carro di fieno, poi vi salì e spronò il cavallino ad un passo lento. Fortunatamente, il punto indicatogli da Yusuf sulla mappa era abbastanza vicino e defilato rispetto alle vie più frequentate. Malik sperava soprattutto di non trovare l'Hashshashin già morto, una volta arrivato sul posto.

Il rafiq scelse le strade più sconosciute e laterali, e restò in tensione per tutto il tempo del viaggio, in attesa che una guardia lo vedesse e lo bloccasse. Ma con suo grande sollievo, filò tutto liscio. Lungo il cammino incontrò solo civili.

Giunse infine sul luogo indicatogli da Yusuf. Lasciò il carretto su un lato della strada e salì sulla prima scala che trovò, faticando nel mantenersi in equilibrio e contemporaneamente nel reggere il sacco con gli utensili, tutto con una mano sola. Una volta sul tetto, intravide del movimento dentro una terrazza in legno sopra l'edificio vicino: come sperava, all'interno trovò Yusuf e Altaïr. Il confratello era riverso in un lago di sangue che gli fuoriusciva dal fianco, e che Yusuf si sforzava di arginare premendo sulla ferita. Aveva tolto il cinturone ad Altaïr e strappato la divisa per mettere in luce il taglio. Il volto scavato del fidā'ī era bianco e livido come quello di un morto: in quel momento, Malik fu sicuro di essere arrivato troppo tardi.

Yusuf si voltò verso di lui, come attendendo ordini: il suo viso era pallido quasi quanto quello del suo superiore. “Povero ragazzo”, pensò Malik. “E' ferito anche lui, ma sembra proprio non pensarci. Deve sentirsi responsabile.”

«Continua a premere», gli disse, inginocchiandosi accanto a lui. Tastò con due dita al di sotto dell'angolo della mandibola di Altaïr: il battito, benché molto debole, c'era ancora. «Dobbiamo ricucirlo», aggiunse estraendo l'ago, il filo e la bottiglia dell'alcol dal sacco che aveva portato con sé. «L'ho già fatto altre volte... con ferite meno gravi. Quando avevo due mani.»

Yusuf si voltò di nuovo a fissarlo con un'espressione smarrita.

«Questa volta sarai tu la mia mano sinistra», disse Malik. «Dovrai solo seguire le mie istruzioni». Strappò via il tappo della bottiglia con i denti. «Adesso io terrò premuta la ferita. Tu inserisci il filo nella cruna e fai un nodo. Fallo doppio, che non ceda».

Yusuf obbedì.

«Ora dobbiamo allontanare i panni per poter ricucire. Uscirà altro sangue, non spaventarti. Tieni i lembi della ferita vicini, solo con le mani. Bene, così». Il taglio era profondo e continuava a sanguinare, ma per fortuna i margini erano netti. Se ci fossero state delle lacerazioni laterali, il rafiq non avrebbe avrebbe avuto nulla per regolarizzarle prima di suturare.

Malik bagnò sia la ferita sia l'ago con l'acqua e con l'alcol, poi iniziò a ricucire. Inserì l'ago nella carne e lo fece uscire dal margine opposto, tirando il filo finché il nodo non lo bloccò. Poi ripeté l'operazione; dopo ogni punto faceva passare il capo lungo del filo nell'ansa del punto precedente. Yusuf l'aiutava tenendo fermi i lembi della ferita mentre il suo superiore li bucava. Malik proseguì in questo modo fino a suturarne l'intera lunghezza.

«Bravo, ragazzo», disse. «Adesso puoi lasciare, la ferita è chiusa. Fai un altro nodo qui, e poi aiutami a fasciare.»

«Sopravviverà?», chiese il novizio quando ebbero finito. Era la prima parola che Malik gli sentiva pronunciare, da che era arrivato.

«Non posso rispondere alla tua domanda. Abbiamo fermato l'emorragia. Ma ha perso davvero molto sangue. E avendo lavorato in queste condizioni, il rischio di infezione è alto.»

«La colpa è mia», mormorò Yusuf con aria affranta.

«Sciocchezze. Altaïr ha deciso di aiutarti. Nessuno l'ha costretto a farlo.»

Il novizio rimase in silenzio per un momento. «Kadar era vostro fratello, non è vero?», chiese poi.

Malik si chiese perché ora il ragazzo tirasse fuori quell'argomento. «Sì», rispose. «Era mio fratello minore.»

«Mi ha chiamato così», disse Yusuf. «Il maestro Altaïr. Mi ha chiamato Kadar. E ha detto “Mi dispiace, ho fallito”.»

Il rafiq di Gerusalemme rimase in sospeso per un momento, poi abbassò lo sguardo e scosse la testa. «Che stupido», disse infine. «Che stupido.»

Prese la borraccia con l'acqua e ne fece scorrere un po' sulle labbra di Altaïr, alzandogli la testa perchè riuscisse a deglutirne almeno qualche goccia. Poi la passò al novizio. «Avrai sete», disse. «Bevi, poi vediamo di sistemare la tua spalla. Aspetteremo la sera prima di muoverci di nuovo.»



ALTAÏR


La prima volta che tornò in sé, non fu che per un intervallo di lucidità brevissimo. Non sapeva quanto fosse passato dal momento in cui aveva perso i sensi: potevano essere ore o anni, indifferentemente. Nel limbo in cui era sprofondato fino a quel momento, il tempo non aveva alcun significato.

Non aveva nemmeno la forza di muovere un dito. Per una semplice associazione di idee, ricordò le sere che seguivano ai massacranti allenamenti a cui era stato sottoposto da ragazzino, a Masyaf. La sensazione che provava ora era simile a quella spossatezza infinita. Però moltiplicata per mille.

Il luogo dove si trovava era avvolto nella penombra. Era disteso su di un materasso, non morbidissimo ma relativamente comodo, che odorava di fieno. Queste furono le uniche informazioni che il suo cervello riuscì a registrare. “Sono vivo”, pensò. A meno che il Jannat non prevedesse materassi riempiti di fieno; ma a lui piaceva pensare che là i letti fossero un po' meno spartani. Dopo quest'ultima considerazione, scivolò di nuovo nell'incoscienza.

Il secondo risveglio avvenne in modo più traumatico. Furono il dolore e la febbre a strapparlo al coma. Una serie di fitte lancinanti, provenienti dalla ferita al fianco, attraversavano il suo corpo come ondate che gli toglievano il respiro. Gemette e si inarcò, ansimando e rabbrividendo violentemente.

Sentì su di sé delle mani che gli impedirono ulteriori movimenti, poi la voce di Malik: «Stai fermo, Altaïr. Ti salteranno i punti se ti agiti in questo modo.»

Aprì gli occhi, ma vide solo bagliori indistinti e vaghe sagome scure. Il dolore lo accecava.

«E' cosciente?», chiese la voce ansiosa di Yusuf.

«Non del tutto, credo», rispose Malik. «Se ci sei, Altaïr, vedi di aiutarci: bevi.»

Il fidā'ī sentì che un liquido fresco gli bagnava le labbra, e lo ingurgitò più per istinto che per spirito di collaborazione. Il sapore era amarissimo, anche se in parte coperto da aromi, e gli sembrò che gli mandasse a fuoco tutto l'esofago; ma l'effetto fu quasi immediato. Gli spasmi si calmarono fino a cessare del tutto, e fu come se ogni fibra del suo corpo si rilassasse nel modo più totale e completo. Sprofondò nelle tenebre.

Si svegliò quando i caldi raggi del sole batterono sulle sue palpebre chiuse. La ferita al fianco pulsava. Impiegò qualche secondo per mettere a fuoco il soffitto sopra di lui e qualche altro secondo per riuscire a girare la testa verso destra, da dove proveniva la luce solare. Solo in quel momento capì con esattezza dove si trovava: nella stanza di Malik, sul retro della Dimora degli Assassini. Tutto ciò che lo circondava parlava di lui: pochissimi mobili modesti, quasi poveri; scaffali zeppi di libri; mappe arrotolate ovunque, anche ammonticchiate per terra, in un angolo. La finestra aperta lasciava entrare i rumori attutiti delle prime attività mattutine. Accanto ad essa, disposto in modo che il sole gli illuminasse le pagine del libro che stava leggendo, era seduto Malik. Forse con la coda dell'occhio notò il lieve movimento compiuto da Altaïr, perchè interruppe la lettura e alzò lo sguardo. «Vedo che va meglio», disse a bassa voce. «Dovresti essere fuori pericolo.»

«Quanto tempo?», chiese Altaïr.

«Non preoccuparti. Sono passati appena due giorni. Ho mandato Yusuf a dormire, non ha chiuso occhio finora.»

Malik si alzò, mettendo da parte il libro, e prese una tazza dalla scrivania.

Altaïr seguì i suoi movimenti con lo sguardo. «Ah, sì. Mi occorre un altro po' di quella roba».

«Non ci sperare», disse Malik con un sorriso ironico. «E' solo latte con miele.»

Lo aiutò ad alzare in parte il busto per bere e gli avvicinò il recipiente alla bocca. L'espressione dell'Hashshashin si contrasse nel disgusto. «Molto miele», esclamò. «Quasi preferisco il sapore di quell'altro schifo. Cos'era?»

«Una ricetta di Abū ‘Alī al-Husayn. Ora taci e bevi». Quando ebbe finito, Malik gli toccò la fronte. «La febbre si è abbassata, ma potrebbe essere solo un intervallo di apiressia. Rimettiti a dormire.»

«Tra le numerose abilità di Malik al-Sayr ci sono anche medicina e chirurgia», disse Altaïr con un tono in apparenza serio, ma chiaramente sarcastico.

«Però resto un Assassino», rispose Malik. «E se non tieni a freno quella lingua e non ti rimetti a dormire, finirò volentieri il lavoro cominciato dai Templari.»

Altaïr chiuse gli occhi, ma non si addormentò che diversi minuti dopo. Si svegliò in capo a qualche ora, accaldato da sole pomeridiano. Cercò debolmente di spingere via la coperta. Qualcuno lo aiutò a farlo. «Avete caldo, maestro?», chiese Yusuf, e gli rinfrescò la fronte con un panno umido.

«Yusuf», disse Altaïr. «Come va la spalla?»

«Non è grave.»

«Che diavolo ci facevi al Kanīsat al-Qiyāma?»

Yusuf abbassò lo sguardo con grande imbarazzo. «Seguivo voi, maestro.»

Altaïr lo guardò sconcertato.

«Per imparare», spiegò il novizio. «Ma ad un certo punto vi ho perso...»

Il fidā'ī emise un sospiro innervosito. Non sapeva se si sentiva più in collera con Yusuf perché l'aveva pedinato, o con se stesso per non essersene accorto.

«Mi dispiace, maestro», aggiunse Yusuf. In quel momento entrò Malik con dei libri sotto il braccio.

«Malik», disse Altaïr. «Sei stato tu a mettermi alle costole questo novizio?»

«Assolutamente no.»

«Ho fatto tutto da solo», si affrettò a chiarire Yusuf. «Il maestro Malik non c'entra.»

«Un'idea geniale, Yusuf», si congratulò acido l'Hashshashin.

«Verrà punito, ma non certo ora e qui. Sarà Al Mualim a decidere al riguardo», intervenne Malik appoggiando i libri sulla scrivania. «Yusuf, puoi andare. Resto qui io per un po'.»

«Quand'è il funerale di Majd Addin?», domandò Altaïr non appena il ragazzo fu uscito.

«Tra una settimana. Perché me lo chiedi?»

«Presenzierà Robert de Sablé. Tra una settimana devo essere in piedi.»

Malik gli lanciò un'occhiata infuriata. «Non ho fatto tutta questa fatica per salvarti la pelle, perché tu corra a suicidarti dopo appena sette giorni, Altaïr.»

«E' il tempo di cui dispongo.»

Malik contrasse le mascelle. «Sei pazzo. Non ce la farai mai. Scriverò a Al Mualim e gli chiederò di inviare...»

L'Hashshashin gli piantò addosso due occhi penetranti e febbrili. «La sua vita è mia», sibilò, ripetendo di proposito le stesse parole che aveva detto nel tempio di Sulaymān. «Mia soltanto.»

Malik fece schioccare la lingua, irritato, ma cedette. «Immagino che ognuno sia libero di scegliersi come preferisce morire.»

«Prometti che non scriverai ad Al Mualim per chiedergli di inviare qualcun altro al posto mio.»

«Ebbene, te lo prometto.»

Altaïr finalmente si tranquillizzò. «Shokran jazilan, dā'ī», mormorò. «Anche per avermi salvato la vita.»

«Sforzo inutile, a quanto sembra», disse Malik sedendosi e aprendo uno dei libri che si era portato appresso.

Altaïr chiuse gli occhi, come riaddormentandosi; ma li riaprì dopo pochi secondi. «Malik, c'è qualcosa che devo dirti.»

«Parla, dunque.»

«Sono stato stupido.»

«Su questo punto non oserei mai contraddirti.»

«Fino ad ora non ti ho mai chiesto scusa», continuò il fidā'ī. «Troppo orgoglioso. Hai perso un braccio, a causa mia. Hai perso Kadar. Avevi tutto il diritto di essere in collera.»

Scese un silenzio pesante. Malik fissava le pagine del libro aperto sulle sue ginocchia, come riflettendo sulla risposta da dare. «Non accetto le tue scuse», disse infine.

Altaïr si aspettava qualcosa del genere. Troppo grande era stato il torto che gli aveva fatto, per sperare che il confratello lo perdonasse. «Comprendo.»

«No, non comprendi affatto», disse Malik. «Non accetto le tue scuse perchè non sei più l'uomo che venne con me nel tempio di Sulaymān. Perciò non me le devi. Kadar era un Hashshashin, ed è morto come tale.»

Altaïr gli rivolse uno sguardo incredulo, ma non riuscì a commentare.

«Noi siamo un tutt'uno», continuò Malik. «Insieme condividiamo la gloria delle vittorie e il dolore delle sconfitte. In questo modo diventiamo più forti.»

Altaïr sorrise. «Sei fin troppo generoso», disse. «Ecco perché io sarei sempre stato un Assassino migliore di te. E perché tu sarai sempre una persona migliore di me.»

Malik sorrise a sua volta. «Tu, un Assassino migliore di me? Continua pure a ripetertelo, Altaïr. E intanto riposati. Hai ancora del lavoro da fare, fratello». Detto questo, il rafiq si immerse nella lettura.

Altaïr si rilassò e lasciò che il suo sguardo evadesse dalla finestra aperta, nella luce dorata dell'assolato pomeriggio di Gerusalemme. Aveva del lavoro da fare, diverse cose da chiarire, molte domande a cui trovare risposta; ed ora, almeno un alleato dalla sua parte.




FINE

   
 
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