Un
caffè turco, con la “c”
minuscola – Diciannove maggio
Oh, la
mia Clara! La mia Clarinette che ha ormai perso quella
rotondità di donna
incinta e che nel momento esatto in cui sono risorto al Saint-Louis non
ha
potuto fare a meno di accecarmi con il bagliore di un flash.
(“Ben, ero emozionata! Dovevo
fotografarti! Lo
capisci cosa intendo, vero?”)
Certo che
lo capisco mia Clarinette, so che fotografi per affrontare
l’orrore e per ricordare
la felicità.
Il neonato mi guarda, placido, non piange mai e
sorride con il sorriso sognate e rassicurante che aveva sul viso quando
è nato,
lo stesso giorno in cui io ho riaperto gli occhi.
Stasera, nella ex chincaglieria, si respira odore
di caffè turco e di tranquillità.
Julius il Cane mi trotterella dietro, facendo la
linguaccia, con quell’aria sbigottita che si porta dietro
dalla seconda crisi epilettica
e la piccola Verdun, nel suo nuovo lettino (ha abbandonato la sua culla
per
cederla a È
Un Angelo) si guarda intorno, con occhi fiammeggianti.
La Mamma è ancora a Venezia, con l’ispettore
Pasteur, e
quando ha saputo degli ultimi avvenimenti ha sussurrato nella cornetta:
“Sono
contenta che stai bene, mio grande. Salutami i tuoi fratelli.”
Ma la Mamma è fatta così e quasi quasi mi aspetto
che
torni un’altra volta incinta, anche se ha promesso che Verdun
sarebbe stata
l’ultima.
- Di
fare cosa? - domando, occupando la mia
postazione al centro della stanza dei bambini.
Sospiro e mi siedo sullo sgabello che un tempo è
stato mio, poi del vecchio Risson, poi di Thian e che ora, a diciannove
giorni
dalla sua morte e dalla mia resurrezione, torna nuovamente a me.
- Di bere caffé, Ben.
Cazzo, dovresti
smetterla con quel fottuto caffè
turco!
- esclama Jérèmy, spazientito, togliendo al
Piccolo i suoi occhiali rosa ed
infilandogli la maglia del pigiama a righe. - Non capisco
perché Amar te ne
abbia regalato così tanto, bella stronzata, davvero!
- Modera
il linguaggio, Jérèmy. – lo ammonisco,
mentre Thérèse mi si para davanti,
rigida e sottile nella sua leggera camicia da notte.
- Se
volevi che ti leggessi i fondi ne bastava una di tazzina, Benjamin.- mi
fa
presente con voce neutra, anche se sa perfettamente che non
è quello il motivo
per cui, pochi secondi fa, ho mandato giù
l’undicesimo cafferino della serata.
Detto
ciò, mi sfila la tazza dalle mani e, con un rapido scatto
del polso, la rivolta
nel piattino. La guardo mentre rovescia gli occhi
all’indietro e si perde in
quel mondo di astri da cui, solo quattro giorni fa, ci ha mandato i
saluti del
vecchio Thian.
- Dovrai
aspettare ancora diciotto minuti e trentasette secondi.
Mi dà il
suo responso senza fare una piega, spigolosa come sempre. Non
c’è traccia di
dubbio nel suo sguardo fisso e nella linea sottile delle sue labbra e
io
sospiro di sollievo, perché tra meno di mezz’ora
la mia Corrençon varcherà
quella porta.
Anche
Jérèmy stavolta non apre bocca e, silenzioso, si
arrampica lungo la scaletta del
suo letto a castello.
Nessun membro della famiglia ormai osa mettere in
dubbio le parole di Thérèse.
“Ben morirà nel suo letto,
all’età di novantatré anni.”
Così
aveva detto.
E io non sono ancora morto, neanche quando un
proiettile calibro
Coma.
Morte celebrale. Encefalogramma piatto.
Era
tecnicamente impossibile che mi risvegliassi.
“Assurdo!” era
stato tutto ciò che
Thérèse era riuscita a ripetere,
nella
sua statica glacialità, “Assurdo!”
i punti esclamativi che si
abbattevano su tutti i presenti, “Ben morirà nel suo letto,
all’età di
novantatré anni.”.
“Questo vuol dire che ci resterò ancora
molto
tempo, su questo letto”, pensavo io e il dottor Marty
(quello che tre anni fa ha rimesso insieme i
pezzetti di Jérèmy, quando ha fatto saltare in
aria la sua scuola) si era
schierato con la tribù Malaussène.
Aveva
visto Thérèse in azione per bene tre volte e
aveva deciso di lasciarmi lì, a
vegetare in santa pace, minacciando quello stronzo di Berthold (miglior bisturi di Parigi e peggior
nemico di Marty)
di farci finire lui al posto mio, se avesse cercato di staccarmi dal
respiratore.
E mentre
me ne stavo là inquietantemente lucido ed incoerentemente
incapace di muovermi,
cagandomi sotto dalla paura che Berthold staccasse la spina mentre
Marty era in
Giappone, ascoltavo la vita che si svolgeva attorno a me, nel caotico
equilibrio di sempre.
Vivevo la
gravidanza di Clara, la nuova crisi epilettica di Julius (immobile come
me da
qualche parte, ruvido e vuoto come una noce di cocco), gli incubi del
Piccolo e
i progetti incendiari di Jérèmy ai danni delle
Edizioni del Taglione.
Sì, e
Loussa che si era messo in testa di insegnarmi il cinese (“Belville sta diventando cinese, conglioncello,
dicono che si impari
meglio dormendo…”) e che ogni sera
veniva al mio capezzale con un occhio
sugli asettici serpenti di plastica che mi uscivano e mi entravano da
ogni
parte e uno sulla pagina traboccante di indeogrammi. Loussa che mi
raccontava
la storia di Isabelle, la grande Regina della carta e degli stracci, la
sua
piccola prosivendola.
A volte pensavo
anche a Sotjil, allo zio Stojil che, chiuso nella sua cella a
Champrond, non
sapeva niente di tutta questa storia, di certo troppo occupato a
tradurre
Virgilio in serbo-croato, e a Hadouch, il mio fratello arabo, al Cabila
e al
Mossi, anche loro sbattuti dentro, per aver iniettato una dose letale
di soda
caustica dritta nell’aorta di quei tre tipi che me le avevano
date di santa
ragione, pagati da Teston.
Gli
omicidi. Cazzo, tutti quegli omicidi! Sant’Inverno, Teston,
Gauthier…
(“Non sei tu, vero? Non sei tu che
fai fuori
tutti i responsabili, eh Julie? Quando ti fermerai?”).
Ma gli
sbirri avevano sbagliato pista, la mia Corrençon era
innocente.
Fulgida,
splendente nella sua armatura di giornalista, semplice paladina della
verità.
La mia
Julie era sparita e, insieme alla Regina Zabo, si nascondeva nella casa
del
governatore, a Vercos, e preparava il reinserimento in carcere del mio
assassino: una confessione alla prima persona
dell’indicativo, scritta tra le
malvarose.
E mentre
dormivo (ma non dormivo) e amavo silenziosamente (e precisamente)
la mia Julie, il dottor Berthold
mi aveva svuotato come un’ostrica all’insaputa
della mia famiglia.
Mi
aveva soffiato tutti gli organi (“È
clinicamente morto, Marty! Lo vuole capire sì o
no?”)
per poi farcirmi con quelli del mio assassino (Kramer, un
pluriomicida dal volto di eterno bambino) quando si era accorto che
l’elettro-encefalografo
aveva ripreso a vibrare dolcemente.
E poi c’era stato il miracolo: nessun rigetto. Gli organi di
Kramer erano perfetti per me.
- Sul serio Ben, Louna ha detto che devi riposarti. Non esagerare
con la caffeina. - fa Clara, la sua voce è vellutata.
- Secondo me se gliel’avessero messo nelle flebo, il
caffè, si
sarebbe svegliato molto prima! - ghigna Jérèmy,
mentre le sue pantofole
dondolano nel vuoto. – Una bella dose di caffeina per endovena e
noi adesso non ci
ritroveremmo con un fratello con gli organi di un pluriomicida!
Chissà cosa
potrebbe succedere se finissi per innervosirti troppo…
Il Piccolo ha un gemito, non si sa se per eccitazione o per paura.
Forse entrambe.
- Potrebbe… ucciderci?
- Certo che no. Non dire assurdità. Ho fatto il quadro
astrale di
tutti noi e non di certo così che moriremo.
Quando ognuno ha raggiunto il suo letto, quando Julius mi ha
posizionato il suo testone in grembo, sbavandomi sui pantaloni
(“Dio quanto
puzza questo cane! Perché non gli avete fatto un bagno
mentre ero in coma?!”) e
quando tutti si sono preparati ad ascoltare la mia lezione di cinese
serale, solo
a quel punto comincio a parlare.
E mentre parlo e scandisco le sillabe, penso alla mia Corrençon
e conto i minuti che mi
separano da lei.
Oh,
Julie! Ti sarai messa quel vestito che mi piace tanto? Quello
incrociato
davanti da cui è così facile liberare i tuoi
seni, le tue perfette rotondità?
Forse
ho bisogno di un altro caffè.
Ma sì, un bel cafferino turco (“con la
“c” minuscola e bene
ristretto” come ho detto una volta alla Regina Zabo), o
magari uno brasileiro,
di quelli che ti fanno torcere le budella per ore.
Louna, Laurent, dite quello che vi pare, ma il caffè mi
rende
lucido, mi rilassa.
Il caffè è un compagno fidato nei momenti
più duri, una fiaschetta
di wisky se fossi alcolizzato, una donna bollente quando la mia
Corrençon torna
ad essere la giornalista dell’Actuel e vola via a svelare
realtà nascoste.
Quando Théo mi aveva portato a casa tutte le sue amiche
brasiliane
del Bois e io e Julie (allora Zia Julia) ci eravamo trovati circondati
dalla
mia famiglia e da quelle signorine dalla voce profonda, la sera in cui
il mio
mollusco se ne era rimasto nascosto tra le sue conchiglie al cospetto
della
bella ladra dei Grandi Magazzini e di quella schiera di uomini
primitivi e
rivoluzionari che si era portata dietro, io avevo buttato
giù caffè. Caffè
brasileiro. In una quantità tale da sentirne gli effetti
fino a due giorni
dopo.
E tutte le visite nello studio in stile impero del Commissario di
divisione Rabdomant (ah, il vecchio Rabdomant che mi aveva cortesemente
ordinato di non stargli tra i coglioni, durante le indagini sulla morte
di Sant’Inverno!),
tutti quei caffè sorseggiati con lui! Con lui che mi
chiedeva se ero stato io a
piazzare le bombe, ai Grandi Magazzini, o se spacciavo roba e sgozzavo
le
vecchiette di Belville. Oh, i caffè di Elisabeth, servito in
quelle tazzine con
la N dipinta sulla ceramica! Il caffè di Elisabeth che
è meglio di qualsiasi
medicina.
Ricordo che stavo bevendo caffè anche quando ho chiesto a
Clara
cosa avrebbe fatto se avesse visto una foto raccapricciante.
(“No so, penso che
la fotograferei.”) e quando mi sono ritrovato per la prima volta faccia a faccia con
quello stronzo di Teston, il falso JLB.
Anche Isabelle, sua Maestà la Regina Zabo, signora e padrona
delle
Edizioni del Taglione, mi aveva invitato a berne uno insieme a lei per
propormi
l’incarico che ha decretato la mia quasi-morte.
E, di nuovo!, comincio a immaginare che i fondi del caffè
che ho
appena bevuto prendano a scivolare lentamente lungo le pareti del mio
cranio,
all’interno della mia testa sfasciata e ricucita.
Cerco di leggervi il futuro, anche se non ne sono capace,
perché vorrei
sapere tra quanto (quanto?!) potrò stringere la mia Julie,
affondare il viso
nella sua criniera di capelli rossi e assaggiare quelle curve
così totalmente
mie.
Sette
minuti e otto secondi dopo sento la serratura scattare. Poi
la porta della ex ferramenta si apre e Julie scivola dentro, con la
grazia e la
pelle di un grande leopardo.
Non ha il vestito incrociato sul seno, ma i suoi capelli esplodono
di rosso e d’oro e il suo corpo mi chiama, come ogni sera.
E’ bellissima, la mia Corrençon.
Poi io e Julie chiudiamo la porta della loro stanza e, prima
ancora di arrivare al quinto piano, ci amiamo, come ogni notte, per
tutta la
notte.
[Fine]
Dedicata a Claudia.
Credits:
questi
personaggi non appartengono a me, bensì
a Daniel Pennac. Questa storia non è stata scritta a scopo
di lucro ed è solo
frutto della mia fantasia e del mio amore per i libri di questo autore.
Sono inserite, inoltre, alcune citazioni
testuali tratte da “La fata carabina” e
“La prosivendola”.
Note
personali: La
storia si colloca quattro giorni dopo la fine de “La
prosivendola”, il terzo libro del ciclo. In realtà
non c’è niente di nuovo, è
solo uno spezzone della vita quotidiana della famiglia
Malaussène e qualche
riflessione di Benjamin sugli ultimi avvenimenti.
Questo
è obbiettivamente
un delirio.
Me ne rendo conto, davvero. Anche se non penso che sia qualcosa di
propriamente brutto, non trovo parola migliore per definirlo se non
“puro
delirio”.
Non ho idea di come e perché abbia scritto una cosa del
genere, ma
sospetto che sia una diretta conseguenza del tremendo e insano
desiderio che
avevo di confrontarmi con questo tipo di scrittura. La scrittura di
Pennac.
E un effetto collaterale dell’amore per questo autore. E del
fatto
che mi sto rileggendo tutti i
libri
del “Ciclo di Malaussène” uno
dopo l’altro, in pochissimo tempo.
Insomma, girovagavo per il forum di EFP con l’ispirazione che
mi faceva
prudere le dita e mi sono imbattuta in un contest davvero originale e
ben
organizzato… a quel punto non ho saputo resistere, e il
danno era fatto!
Quindi
questa è una Fanfiction
partecipante al 2010:
a year
together, indetto dal « Collection of starlight
», said Mr Fanfiction
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