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Autore: Mitsutsuki    26/05/2010    2 recensioni
Il loro è un amore morboso, che uccide le famiglie.
Ma non temere, bella signora, asciugherò il mare anche per te.

[Partecipante al Contest di Eylis - La Nicchia... e la Luna][Fem-slash accennato]
Genere: Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Serie: Original
Partecipante a: “La Nicchia... e la Luna” - Contest indetto da Eylis
Prompt: Come da titolo al Contest.
Capitolo: 1/2
Disclaimers: Tutto mio.

Moon I
Clinica La Nicchia

Allungò una manina verso la mamma.
Era bella. Anche col volto rigato di lacrime e lo sguardo concentrato sulla strada.

Pioveva.


Si strinse di più nella coperta. Non riusciva a toccare la mamma: la tosse la rendeva troppo distante.
Ma lei si era voltata lo stesso. Solo per poco, come per assicurarsi che fosse proprio la sua gola a bruciare così forte.
— Andrà tutto bene. — Mormorò tra i singhiozzi. La voce suonava strozzata, quasi acuta.
Anche a lei faceva male la gola?
— Su, copriti. — Gli portò la coperta fin sul naso.
Ridacchiò. Poi tossì.
La stoffa gli faceva il solletico, ma la gola gli faceva male.

Pioveva sempre.
L’acqua cadeva fitta, simile a un velo smosso dal vento.


A lui non piaceva la pioggia: non si vedeva bene con i finestrini bagnati.
Pensò che alle macchine avrebbero dovuto mettere i vetri degli acquari. Quand’era andato a vedere gli squali, il vetro era trasparente anche se era bagnato. Magari era fatto di un materiale speciale, che lo teneva pulito. O forse c’era qualcuno che li puliva con quelle strane bacchette che andavano su e giù, sul parabrezza della macchina.
Però c’erano solo sul vetro davanti.
Sbuffò, poggiando la fronte contro il finestrino. Avrebbero dovuto metterle anche agli altri, quelle cose.
— Sì, ecco. —
Sua madre parlava a scatti, agitata. Asciugava le lacrime con forza, passando una mano sotto gli occhi.
Si rattristò, vedendo la sua bella immagine riflessa sul vetro, così distrutta anche mentre accennava quello che voleva essere un sorriso, ma che si rivelò presto essere solo una smorfia.
— Così ti si abbasserà la febbre. —
Il bambino mormorò un “sì” a fil di voce, anche se con il suo gesto aveva pensato di scaldare il vetro per vedere fuori, sciogliendo l’acqua, piuttosto che per far scendere la febbre.

Giunsero al parcheggio della clinica verso le due del mattino.
Il mare che vi era di fronte si era ingrossato, allagando tutto il terreno fino alle porte d’ingresso. Le buche si erano quindi trasformate in pozzanghere di acqua e fango, in cui la macchina rischiò di impantanarsi più volte.
Era per questo, pensò il bambino, che la mamma gli aveva detto che l’ambulanza non sarebbe venuta a prenderli: i dottori non erano bravi come lei a guidare.
Le sorrise, mentre lei si toglieva di fretta la cintura e alzava il cappuccio tanto da coprirle la frangia davanti. Sua madre era fantastica.
— Aspettami qui, faccio subito. — Gli lanciò una rapida occhiata piena d’apprensione — Copriti. —
— Sono coperto. — Mormorò con voce rauca.
Ma la mamma gli volle comunque aggiustare la coperta.
Poi andò via e lui rimase solo.

C’era un cartello, davanti ai cancelli della clinica.
Tra le gocce di pioggia ancorate al finestrino, il bambino riuscì a leggere la scritta: “La Nicchia”.
Storse il naso. Non sapeva cosa volesse dire.
Si abbandonò sul sedile della macchina, sbuffando contro la sua ignoranza.

Stava giocando con le frangette della coperta, quando un forte grido lo fece sobbalzare terrorizzato. Si accucciò svelto sotto il cruscotto.
Dov’è la mamma?” si domandò mordicchiandosi un labbro per non fare rumore.
Forse era un mostro.
O peggio, un malato dalla clinica.
Lacrime dispettose cominciarono a inumidirgli gli occhi, vedendo realizzarsi le sue paure: i dottori erano cattivi come i dentisti. Facevano male alle persone.
Dov’è la mamma?” si chiese ancora, questa volta con un moto di preoccupazione per lei, che da quel posto orrendo non era ancora uscita.
Al grido si sostituirono lamenti angosciati.
Sembrava la voce di una donna.
Nella sua mente balenò l’inquietante ipotesi che potesse trattarsi proprio della mamma.
Si mosse appena verso l’alto, in modo da portare gli occhi sopra il cruscotto.
Vide una persona in fondo alla spiaggia, ma aveva i capelli troppo disordinati per essere chi lui temeva che fosse. Vestiva in modo trasandato e girava in tondo, sulla sabbia, parlando da sola, piangendo, gridando.
Si abbassò di nuovo nel suo nascondiglio.
Poteva essere una di quelle signore che portavano via i bambini.
Offrivano loro delle caramelle, e gliene promettevano altre se avessero fatto i buoni e le avessero seguite in casa. Ma poi li chiudevano in cantina e l’ingrassavano finché non fossero stati abbastanza gustosi per essere mangiati. E facevano cadere loro tutti i denti, cibandoli di dolci, così da non farli più parlare o gridare.
— Kelvin. —
Gridò spaventato, nascondendosi sotto la coperta.
L’avrebbe portato via, lontano dalla mamma!
Pianse forte, mentre la coperta scivolava in basso e lui si copriva con le mani. La scongiurò di lasciarlo stare: disse che era un bambino cattivo e gridò con quanto fiato avesse in gola quanto fosse pessimo il suo sapore.
Ma le preghiere gli morirono in gola, divorate dalla tosse.
Sentì che l’aveva preso per le spalle, scuotendolo.
Allora si accorse che qualcosa non andava. Non sembrava un gesto violento, anzi, era quasi un tocco leggero, solo per farlo smettere di piangere.
— Kelvin, sono io! Sono la mamma! —
La sua voce fu come una dolce melodia per lui, che ancora tremava.
Aprì gli occhi sul volto della donna, incorniciato dalla plastica gialla della mantellina.
Sorrise rincuorato, poi ebbe paura di nuovo.
— Vuole portarmi via. — Disse, anche se le parole faticavano ad uscire, come se fossero troppo grandi e dovessero raschiare le pareti della gola prima di raggiungere la bocca.
— C’è una signora sulla spiaggia... —
La madre lo azzittì dolcemente, posando un indice sulle sue labbra screpolate.
— Non c’è più. —
— L’hai fatta andare via tu? —
Gli sorrise, avvolgendolo di nuovo nella coperta — Sì. Ma adesso vieni, ha smesso di piovere e tu devi riposare. —
Rispose con un debole cenno del capo, lasciandosi prendere in braccio.

Il rubinetto del bagno perdeva acqua.
Le gocce cadevano sulla ceramica con ritmica precisione.


— Mamma? — Chiamò Kelvin, mentre lei gli rimboccava ancora le coperte.
Le infermiere avevano dato loro una bella stanza: di quelle con la vista sulla spiaggia.
Fuori, le stelle cominciarono a fare capolinea tra le nuvole, forti dell’assenza della Luna che altrimenti le avrebbe oscurate.
Facevano un bell’effetto, riflesse nell’acqua del mare.
— Cosa vuol dire “nicchia”? —
La donna si sedette sul bordo del letto.
Accarezzò la guancia del bambino, cercando le parole adatte.
— Beh, una nicchia è un po’ come un buco. Di solito ci mettono le statue. —
Kelvin corrucciò la fronte perplesso.
Si schiarì la voce, poi replicò — Ma perché un ospedale dovrebbe chiamarsi “buco”? —
Rise.
Com’era bella la sua mamma quando rideva! Da quando aveva cominciato a tossire, gli aveva rivolto solo sguardi carichi di apprensione.
Una volta gli aveva raccontato che papà se n’era andato tossendo. Non aveva mai capito il perché. Forse perché anche lui non voleva vedere la mamma tanto triste.
Ma lei avrebbe dovuto sapere che era ancora troppo piccolo per viaggiare da solo!
— Beh, Kel, — Gli rispose infine, con un sorriso a fior di labbra — si chiama così per via della nicchia nella scogliera. Quando tuo nonno è stato ricoverato qui, mi raccontava che alcune pazienti si ritrovavano lì, ad aspettare il sorgere del Sole. —
— Posso andarci anch’io? —
Il sorriso scomparve dal volto della donna. Rivolse al bambino uno sguardo serio e combattuto, di chi non vorrebbe negare niente, ma è costretto a farlo.
— Scusa. — Si affrettò ad aggiungere, stringendo le coperte — Non voglio vederti triste. —
Sua madre gli sorrise di nuovo, passandogli una mano sul capo in un vano tentativo di aggiustargli i capelli. Erano ricci, come quelli del padre. Dei veri e propri ribelli.
— Quando starai meglio, d’accordo? —
Kelvin annuì, accomodandosi come per dormire.
Poi sgranò gli occhi, improvvisamente inquieto.
— Mamma. — Mormorò piano, mortificato — Ho dimenticato Dango. —
— Questo è un bel problema. —
Dango era un orsetto di pezza. Di quelli così vecchi da essere dimagriti col passare degli anni e aver perso la lucentezza del pelo.
Ma si sa, i bambini si affezionano ai loro giocattoli preferiti e niente e nessuno avrebbe potuto separare il piccolo Kelvin dal suo Dango, compagno di giochi e guardia notturna.
Prese la tracolla poggiata al suolo e ne fece scattare la chiusura.
— Però, lui non si è dimenticato di te. — Osservò, estraendo il piccolo peluche come se fosse stato lui a voler uscire dalla borsa. Ne mosse una zampetta in segno di saluto.
Il bambino esultò entusiasta, allargando le braccia.
La madre sorrise, facendo camminare Dango fino al figlio, che se lo strinse al petto. Quell’orsetto aveva la capacità di metterlo in pace con se stesso e con il mondo, in qualunque momento, in qualunque situazione.

Verso le quattro, Kelvin dormiva beatamente abbracciato a Dango, mentre sua madre gli aggiustava le coperte in modo quasi automatico.
Non sarebbe riuscita a dormire nemmeno se le avessero detto che la tosse del figlio era dovuta ad una banale irritazione della gola: le gocce nel lavandino le martellavano le tempie con ritmica insistenza.
Aveva provato a chiedere ad un’infermiera, poi ad arrangiarsi da sola. Il risultato rimaneva immutato: le gocce cadevano.
Trattenne uno sbadiglio, volgendo lo sguardo oltre le vetrate della stanza.
Il cielo era ora completamente limpido e il mare calmo.
In lontananza, poté cogliere il baluginio di una nave che solcava l’orizzonte.
Inconsciamente, fece riaffiorare i ricordi della sua luna di miele, trascorsa in crociera con Jordan.
Le era sembrato tutto così perfetto allora!
Aveva creduto che il mondo avesse voluto sorriderle incoraggiante, permettendole di sfoggiare quella fede al dito. Come a dirle: “Andrà tutto bene”.
E dopo un figlio meraviglioso e anni permeati di gioia, il manto nero della malattia aveva coperto ogni cosa. Le aveva portato via la maggior parte dei suoi beni, non essendo mai stati troppo ricchi per le cure mediche che costavano.
Non paga, aveva ucciso l’unica persona che fosse stata in grado di regalarle della felicità senza volere nulla in cambio.
E anche adesso, tornava a pretendere di più.

Si abbandonò sulla sedia dopo aver lisciato ulteriormente le coperte.
Le mani in grembo le tremavano.
Alzò di nuovo gli occhi, ma non c’erano più navi che potessero ferirle il cuore. Piuttosto, notò una figura raggomitolata su sé stessa sulla spiaggia.
Si sollevò appena, per vedere meglio. Cosa ci faceva a quell’ora del mattino fuori dalla clinica?
La sentì gridare così improvvisamente, che portò le mani alle orecchie senza neanche riflettere. Gli occhi corsero a Kelvin, che, però, non diede segno di essere stato minimamente disturbato.
Sospirò, prendendo il giaccone.
Chiunque fosse, non gli avrebbe permesso di rovinare la notte del suo bambino.
Se si fosse rivelata la donna che aveva visto al loro arrivo, avrebbe chiamato i medici. Si chiese come potessero lasciare circolare così liberamente dei pazienti con evidenti problemi psichici. E dire che suo padre le aveva indicato la clinica come la migliore in zona!

Le orme che il suo passaggio calcava sulla spiaggia erano illuminate dalla debole luce dei lampioni del parcheggio.
Non si era sbagliata. Avvicinandosi, poté riconoscere distintamente la donna spettinata e trasandata di qualche ora prima.
Stava in ginocchio sul bagnasciuga, così che l’acqua le aveva inzuppato l’abito, partendo dalla gonna, fin sulla vita. Accanto a lei teneva un secchiello, di quelli che anche Kelvin aveva utilizzato per costruire castelli sulla sabbia con i suoi amici.
Alternando grida a lamenti sommessi, puntava un phon a batterie contro l’acqua contenuta nel secchiello, nell’evidente sforzo di farla evaporare.
Portò le braccia conserte al petto, fermandosi a poca distanza.
Tossì leggermente, per farsi notare, ma non riscosse grande successo.
L’idea di fare retro marcia e avvertire qualcuno del reparto psichiatrico non la stava allettando come avrebbe dovuto. Era curiosa di sapere cosa sperasse di ottenere, con quel suo strano comportamento.
— Signora? — Chiamò, ma lei non le rispose. Continuava a lamentarsi.
Decise d’insistere — Signora, cosa sta facendo? —
La vide sussultare, come se l’avesse notata solo in quel momento.
Alzò lo sguardo su di lei, regalandole un sorriso pieno di meraviglia — Come sei bella! —
L’altra portò meccanicamente una mano ad aggiustarsi una ciocca di capelli dietro l’orecchio, balbettando un ringraziamento a mezza voce.
Non le erano mai piaciuti i complimenti. La imbarazzavano e basta. Soprattutto quando sembravano sinceri come quello appena rivoltole.
— Asciugo il mare, bella signora. — Le rispose poi, perseguendo a lavorare col suo phon.
Non poté che sgranare gli occhi al sentire quelle parole, pronunciate con una tale fermezza da suonare quasi comiche.
Pretendeva di riuscire ad asciugare una così vasta distesa d’acqua? Con quel misero phon, per giunta?
— Posso chiederle perché? —
— Sì. —
Spense il phon. Prese il secchiello e lo immerse nell’acqua.
Riaccese il phon.
— Perché? —
— Oh, sembra solo una. In realtà sono due. Il loro è un amore morboso, che uccide le famiglie. — 

Parlava rimanendo china su se stessa, il capo basso che scattava prima a destra, poi a sinistra, come se volesse evitare orecchie indiscrete.
La donna si strinse nel giaccone, riparandosi da un’improvvisa folata di vento. Approfittò del silenzio per dare un fugace sguardo in giro. In qualche modo, quella signora e il suo strano atteggiamento l’avevano resa irrequieta. Si soffermò in particolare sulla finestra di Kelvin, pregando che non si svegliasse: se si fosse spaventato non trovandola, non se lo sarebbe mai perdonato.
— “Loro” chi? —
Lei emise una sequela di lamenti in risposta al rovesciamento del secchiello.
Lo riempì di nuovo.
— Nessuno crede a Helen. Helen è pazza. — Alzò lo sguardo su di lei e solo dopo molto tempo le porse la mano sinistra. Quella destra rimaneva impegnata a reggere il phon.
Benché le risultasse piuttosto innaturale, ricambiò la stretta mancina. Poté avvertire un leggero fastidio al sentire la sabbia tra le dita.
— Io sono Phoebe. —
— Phoebe è molto bella. — Osservò di nuovo la donna, ritirando presto la mano per verificare che il fondo del secchiello fosse effettivamente asciutto — Ma ha un brutto nome. Come Helen. Brutti nomi. —
Rimase interdetta. Non trovava ci fosse nulla di sbagliato nel suo nome. O in quello di lei.
Erano due appellativi come tanti, piuttosto comuni a dire il vero. Una delle migliaia di etichette che permettevano agli esseri umani di distinguersi tra loro, salvo omonimia.
Il secchiello venne riempito di nuovo.
Sospirò, facendo un leggero passo indietro.
— Beh, adesso dovrei andare. E’ stato un piacere conoscerla, Helen. —
Helen alzò di nuovo lo sguardo su di lei, indispettita.
— La bella signora va via? —
Annuì — Torno da mio figlio. —
Fece cenno d’aver compreso, come solo una madre avrebbe potuto fare.
— Anche lei ha figli? —
La domanda le era sorta così spontanea da uscirle ancor prima di formularsi correttamente nel cervello.
La donna gridò frustrata, poi raccolse le ginocchia al petto. Dondolandosi avanti e indietro, non sembrava intenzionata ad abbandonare il suo compito d’asciugare il mare.
— Nessuno crede ad Helen. — Ripeté — Helen è pazza. —
Il phon smise di funzionare, così che si mise a cercare nella tasca dell’abito delle batterie nuove, emettendo lamenti a sottofondo del proprio disappunto per quell’improvviso contrattempo.
Prima che Phoebe potesse dire qualsiasi cosa, continuò — Un figlio, sì. Douglas. Ma l’hanno portato via e nessuno lo ricorda più. —
Inserì le pile frettolosamente, tanto da metterle al contrario e dover ricominciare tutto da capo.
Phoebe notò che le mani le tremavano impazienti, così si offrì di aiutarla.
Inginocchiatasi davanti a lei, le mostrò come ricaricare correttamente il phon.
— Sei gentile, bella signora. —
— Lasci stare. — Le porse il phon, aggiustandosi con una mano un’altra ciocca di capelli ribelli, nuovamente in imbarazzo.
— Sembra solo una, ma in realtà sono due. Il loro è un amore morboso, che uccide le famiglie. —
— Questo... questo l’ha già detto. —
Ma di nuovo non volle spiegare chi fossero “loro” né tanto meno cosa intendesse per “amore morboso che uccide”.
Teneva gli occhi puntati su di lei. Erano marroni, screziati di giallo vero la pupilla. La fissavano terrorizzati.
— La bella signora è arrivata oggi? —
— Questa notte, sì. —
Scosse il capo contrariata, lasciando cadere il phon.
— Pioveva. — Osservò tremante.
Corrucciò la fronte. Era contro la pioggia che gridava quand’erano arrivati?
Helen le prese le spalle, senza staccarle gli occhi di dosso.
Provò a divincolarsi, ma aveva una stretta sorprendentemente forte, seppur fosse così magra e trascurata dal punto di vista fisico.
— Si è bagnato? —
— Mi lasci! —
Scosse il capo con veemenza, invitandola ad ascoltare. La stretta si fece, se possibile, più salda e ferma.
— Si è bagnato? — Ripeté.
— Sì, salendo in macchina, ma mi lasci! — Esclamò sbrigativa, riuscendo finalmente ad alzarsi in piedi e fare qualche passo lontano da quella pazza.
Portò inconsapevolmente le mani a coprire il petto, come a voler bloccare il cuore nel caso avesse avuto intenzione di uscirle dalla cassa toracica.
Le mani di Helen invece si erano abbandonate sulle ginocchia. L’espressione terrorizzata sul suo volto aveva lasciato il posto ad una maschera di tristezza e compassione. Sembrava che ogni fibra del suo essere si fosse afflosciata, svuotandosi di ogni voglia di fare.
— Te lo stanno portando via. — Mormorò mortificata.
Phoebe sbuffò irritata — Lei vuole dire tanto, ma non dice niente! Chi sono “loro”? E perché dovrebbero portarmelo via? —
Helen chinò il capo a studiarsi le mani piene di sabbia. Poi spostò lo sguardo sul phon abbandonato a terra. Lo prese, riaccendendolo contro il secchiello, ma si accorse che era vuoto e dovette riempirlo di nuovo.
— Non temere, bella signora — Disse sorridendole — Asciugherò il mare anche per te. —
Rimase ad osservarla qualche istante.
Aveva ripreso a lamentarsi e a lanciare gridi sommessi, quasi se ne fosse già andata via o non ci fosse mai stata.
Sospirò. Non c’era nulla di cui preoccuparsi: era solo un pazza che pretendeva di asciugare il mare.
Eppure, una parte di lei rimase a struggersi su chi fossero “loro” e a pregare vivamente che non fossero i medici della clinica.

  
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