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Autore: Gondolin    09/06/2010    4 recensioni
Camus, che era sempre stato forte e deciso.
Camus, che sapeva sorridere come nessuno al mondo.
Camus, che era stato capace di amare fino al sacrificio.
Camus, che era ai suoi occhi il più perfetto fra i cavalieri.
Camus, che l'aveva amato, e tanto doveva bastargli.

[Milo e il suo dolore per la perdita di Camus. Orfeo e il suo dolore per la perdita di Euridice. Storie che corrono parallele senza mai incontrarsi.]
Genere: Romantico, Malinconico, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Aquarius Camus, Lyra Orphée, Scorpion Milo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: Vincit Amor
Autrice: { Dima } (sul forum di Gold Insanity), ayay (qui)
Presentazione: Inizia col dolore di Milo dopo la morte di Camus, e con Orfeo che piange Euridice. E poi prosegue fra salite e discese, dagli Inferi o verso di essi, o lungo le scale del Santuario...
L'ultima parte è basata sull'anime (tipo: la puntata più bella e straziante dell'universo), anche se Camus ha i capelli rossi com'è giusto che sia.

Personaggi/Pairing: Milo/Camus, Orfeo/Euridice
Rating: giallo
Warning: angst, shonen-ai, het
Soundtrack: Just Let The Sun
Disclaimer: “il mare color del vino” e “Aurora dalle rosee dita” sono espressioni prese da Iliade e Odissea e non sono roba mia. Grazie mille, Omero.
I personaggi sono di Kurumada, l'angst pure.
La canzone è di Skin.
Il mito di Orfeo ed Euridice è qui quello descritto da Ovidio nel decimo libro delle Metamorfosi.



Morendo di nuovo non ebbe per Orfeo parole di rimprovero
(di cosa avrebbe dovuto lamentarsi, se non d’essere amata?);
per l’ultima volta gli disse ‘addio’, un addio che alle sue orecchie
giunse appena, e ripiombò nell’abisso dal quale saliva.




Menzione speciale al il meraviglioso contest di Gold Insanity.
Qui potete trovare il giudizio ricevuto e tutti i linkini carini che volete.






I. Alba


I walked into the sea
Those waves they came for me
Egged on by scarlet sun
(But) I will never burn


Aurora dalle rosee dita si affacciava nuovamente sulla Terra gravida di cordoglio, schizzando di rosa pallido il mare e il cielo.
Aurora dalle rosee dita illuminava indistintamente gli scogli e i marmi, gli occhi bagnati di lacrime e le armature vuote.
Aurora dalle rosee dita accarezzava i capelli biondissimi del giovane uomo seduto sulla riva del mare, senza sapere di aver prestato il proprio nome a ciò che gli aveva portato via l'amore.
Aurora Execution.
A Milo pareva in quel momento crudelmente bizzarro il fatto che la morte per il suo Camus avesse avuto lo stesso nome della divina fanciulla che precedeva Apollo nel cielo immenso.
Eppure era pur vero che la sua tecnica finale, trasmessa all'allievo, non poteva che essere delicata, quasi gentile. Non sarebbe mai stata rossa come il tramonto, come il mare color del vino che preannuncia tempeste, o come lo Scarlet Needle.
Uno zefiro gentile gli portò il profumo della salsedine, che Milo accettò come un dono, assaporandolo col respiro interrotto dai singhiozzi che ancora si rifiutavano di uscire. Sentiva sulle labbra il sapore del sale delle lacrime non versate, e attendeva che quella natura amica quietasse il suo dolore.
Attese, Milo, attese a lungo.

~

A lungo sotto la volta del cielo la pianse il poeta
del Ròdope


Incredulo, Orfeo taceva.
Taceva la sua lira, consolatrice ed amica, che sempre aveva accompagnato il suo canto nella gioia e nel dolore, nella solitudine e nell'amore.
Incredulo, Orfeo, taceva e scopriva la solitudine dopo l'amore, e la scopriva amara.
Gli morì la poesia nel cuore, e più non volle cantare il sorgere del sole, lo sbocciare dei fiori, lo scorrere delle acque sacre alle Naiadi. Su quelle stesse acque si chinò invece per piangere e lasciare che le sue lacrime scorressero verso il mare, pregando gli dei tutti di avere pietà del suo dolore.

[...] per saggiare anche il mondo dei morti,
non esitò a scendere sino allo Stige per la porta del Tènaro:
tra folle irreali, tra fantasmi di defunti onorati, giunse
alla presenza di Persefone e del signore che regge
lo squallido regno dei morti.



II. Mezzogiorno


You take it easy
You walk on your own
Look for the sunshine (you’ll) find (your) way home

Just let the sun
Find your way home


“Come il sole”, gli aveva detto una volta Camus.
“Ti scaldo bene?”, aveva chiesto Milo.
E lui, tranquillo come un lago di montagna, uno di quelli che non vedono un'onda da almeno mezzo secolo, aveva risposto: “Come il sole”, poi gli aveva accarezzato il capo, “Come il sole, e anche un pochino meglio”.
Il sole era sorto anche quel giorno, e Milo si era deciso ad abbandonare l'abbraccio dell'orizzonte per risalire verso i templi, tutti i singhiozzi ancora stretti nel petto, tutti i ricordi ancora stretti nei pugni che non aveva avuto il coraggio di spalancare nell'acqua fredda.
Più saliva i gradini e più Milo si sentiva riavvolgere, come un nastro, come un filo di Arianna gettato attraverso la propria vita, e tornava ad essere un gomitolo. Gli sembrava che nel tornare a casa ogni cosa sarebbe tornata al proprio posto, come frammenti di uno specchio rotto che avrebbero smesso di tagliare e sanguinare e avrebbero ripreso a riflettere. A riflettere una realtà bella.
Più saliva i gradini e più Milo sentiva i ricordi come se fossero stati ancora lì.
Eccolo, nella Terza Casa, ecco Saga dei Gemelli!, buono come un dio, bello come un angelo, affettuoso e severo come un padre. Eccolo, com'era prima di tutta quella storia crudele. Ed ecco avvicinarsi a lui due bimbetti, uno ridente e l'altro più serio. Bizzarro: quello col visino compunto e quasi accigliato è il biondino, che di solito turbina per il Santuario così veloce da rendere praticamente impossibile distinguere la sua espressione. L'altro, poco più minuto e coi capelli color tramonto, se la ride beato.
“Saga, Saga!”, chiama il piccolo Milo, tirando per la manica il ragazzo più grande, già un uomo ai suoi occhi, “Diglielo tu a Camus che Scilla e Cariddi sono molto, mooolto più forti del suo Kraken. Questo mostro che dice lui è solo un calamaro gigante!”, spiegò imbronciato e per natura diffidente delle bestie che non apparivano nei miti familiari e conosciuti della sua terra.

Il Milo ventenne, che al potere del kraken ormai credeva, chiuse gli occhi e si portò due dita alle tempie, poi alzò i tacchi e faticosamente continuò a camminare, sentendo dolere i muscoli delle cosce come se avesse avuto pesanti cippi ai piedi.
Attraversò la casa vuota del Cancro, e poi si fermò di fronte a quella del Leone. Aiolia non c'era. Forse era andato anche lui a cercare nella solitudine una qualche consolazione, o spiegazione.

Una risata argentina riecheggia fra le colonne. Sul primo scalino, Aiolos sta facendo il solletico al fratellino. L'armatura di Leo, appena assegnata, riposa solenne lì accanto.
“Ahahah! Mi arrendo! Ti prego, lasciami!”
“Che razza di cavaliere sei? Ci si arrende così?”
“Ma il solletico è sleaaaaale!”, protesta indignato il piccolo, assolutamente convinto che in un vera battaglia, nessun nemico serio userebbe mai un simile metodo.
Ma per fortuna in difesa del neo cavaliere giunge Shura, che gli porge una mano e lo aiuta a sgusciare via dalle grinfie del fratello. Poi sorride ai due, uno sorriso caldo e sereno che rivolge solo a loro e che gli illumina gli occhi scuri.
Un ragazzino dell'età di Aiolia arriva correndo, scintillante d'oro e d'orgoglio. Probabilmente non si è tolto l'armatura nemmeno per dormire da quando l'ha ricevuta, nemmeno l'elmo che, con quella specie di coda con un pungiglione in fondo, agli occhi del pragmatico Aiolia sembra veramente scomodo.

Milo non riuscì a sorridere al ricordo di se stesso bambino, e anzi gli venne voglia di rincorrere quella piccola peste per urlargli contro tutto quello che stava passando in quel momento, per riversare su quell'innocenza di fanciullo unita a quella fierezza di guerriero tutto quello a cui la guerra l'aveva portato. Ma erano solo ombre, ricordi, e il Milo ventenne che saliva quella scale affaticato come un vecchio non poteva raggiungerli.
“Milo, aspetta.”
Si voltò, per trovarsi di fronte un Aiolia scarmigliato e pallido, che sembrava non dormire da giorni. “Vuoi restare qui?”, domandò, al tempo stesso offrendo e cercando un po' di quel conforto di cui avevano entrambi bisogno.
“Grazie.”, sussurrò, e seguì l'amico dentro casa.
“Mi sento come se l'avessi ucciso io.”, disse poi fissando le spalle forti di Aiolia
L'amico si voltò di scatto, come morso da un serpente. Il suo volto parve per un momento contrarsi in uno spasmo di rabbia. Di cosa avrebbe dovuto lamentarsi, se non d’essere amato? Hai lasciato passare il Cigno: nessuno di noi l'avrebbe fatto, perché nessuno di noi sapeva quant'era importante per lui. Avremmo fatto il nostro dovere, e avremmo sbagliato.”

~


Avrei voluto poter sopportare, e non nego di aver tentato:
ha vinto Amore! Lassù, sulla terra, è un dio ben noto questo;
se lo sia anche qui, non so, ma almeno io lo spero:
se non è inventata la novella di quell’antico rapimento,
anche voi foste uniti da Amore.

Dopo essere disceso lungo ignoti sentieri, il cuore come morto ma il passo svelto di speranza, Orfeo si inginocchiò, umile, di fronte al signore degli Inferi e alla sua sposa.
Umile, Orfeo non lo era stato mai. Ma aveva imparato anche quello, per Euridice.
Le anime intorno piangevano la sua sventura e la bellezza del suo canto, che, negato alla terra dei vivi, si levava ora in quelle profondità.
“Se anche voi conoscete la dolce ferita dell'arco di Cupido, vi prego, ascoltatemi.”
Persefone annuì e gli concesse di continuare.
“Se anche voi conoscete il tormento di vedervi strappato l'amore, vi prego, siate clementi.”
Ade distolse lo sguardo, ma non poté non udire le note dolcissime che accompagnavano parole tanto disperate. Lo conosceva bene, quel tormento! Ah, quante volte l'aveva provato nel corso dei secoli? Quanti infiniti anni si erano susseguiti identici fra la gioia di avere accanto la propria sposa e il tormento di doverla perdere ogni volta per lunghi mesi?
Vi prego.”, sussurrò Orfeo, e suonò la più bella delle sue melodie, accompagnando l'arpa e la voce in un accordo perfetto.
Cessarono i tormenti per i dannati, si volsero piangenti le anime più abbiette come i loro carnefici e ogni cosa tacque.

Tutto vi dobbiamo, e dopo un breve soggiorno in terra,
presto o tardi tutti precipitiamo in quest’unico luogo.
Qui tutti noi siamo diretti; questa è l’ultima dimora, e qui
sugli esseri umani il vostro dominio non avrà mai fine.
Anche Euridice sarà vostra, quando sino in fondo avrà compiuto
il tempo che gli spetta: in pegno ve la chiedo, non in dono.



III. Notte


Just let the sun
Shine on your face

Only the darkness blinds your way


Dolce è il chiarore dell'astro diurno, ma solo la pallida luna con mano straziante e divina sa strappare i cuori e tenerli con sé, sa offrire una pungente consolazione.
Una consolazione vera, Milo non l'aveva ancora trovata, e le lacrime che gli gravavano sul cuore non avevano ancora trovato la via per i suoi occhi, che, secchi e arrossati, fissavano il cielo scuro come ormai quasi ogni notte.
Eppure qualcosa inaspettatamente l'aveva sostenuto. Era stato il pensiero di Hyoga. Non l'aveva ucciso, macchiandosi le mani di un vero tradimento nei confronti della dea, e più ancora nei confronti di Camus.
Camus, che era sempre stato forte e deciso.
Camus, che sapeva sorridere come nessuno al mondo.
Camus, che era stato capace di amare fino al sacrificio.
Camus, che era ai suoi occhi il più perfetto fra i cavalieri.
Camus, che l'aveva amato, e tanto doveva bastargli.

[...] Né ebbero cuore,
regina e re degli abissi, di opporre un rifiuto alla sua preghiera,
e chiamarono Euridice. Tra le ombre appena giunte si trovava,
e venne avanti con passo reso lento dalla ferita.
Orfeo del Ròdope, prendendola per mano, ricevette l’ordine
di non volgere indietro lo sguardo, finché non fosse uscito
dalle valli dell’Averno; vano, se no, sarebbe stato il dono.

Non ebbe eguali il suo strazio quando, abbassando lo sguardo da quella luna, incontrò gli occhi ciechi di colui che era stato il custode dell'Undicesima casa e del suo cuore.
Non ebbe uguali il suo strazio quando fu costretto a scoprirne il tradimento, segnato sulla sua pelle dal nero profondo di una surplice infame.
Eppure guardandolo avanzare con passo malfermo per le molte ferite qualcosa in lui soffrì per ciò che Camus aveva sofferto, e Milo si odiò per questo. Se traditore era, come tale meritava di essere trattato, e non avrebbe avuto nessuna pietà, come non ne aveva avuta nel colpire Kanon fino alla certezza della sua redenzione.
Ma Camus. Camus aveva compiuto il cammino opposto, e da esempio di virtù era caduto così in basso, cedendo alla lusinga di una vita nuova, offerta però in cambio della sudditanza al loro più grande nemico.
Milo scacciò il dolore e la compassione dal proprio animo e dimenticò ogni cosa mentre combatteva. Mentre ignorava le leggi della sua stessa dea per colpire, insieme a Mu e Aiolia, quei tre infami.

In un silenzio di tomba s’inerpicano su per un sentiero
scosceso, buio, immerso in una nebbia impenetrabile.

Ma trascinandolo, per ordine di Atena, su per quelle scale improvvisamente meno familiari, improvvisamente minacciose, si sentì rifluire dentro come una marea l'amore e l'odio, e i ricordi sin troppo vividi che gli evocavano quei capelli rossi che il vento gli spingeva sul volto.
Come aveva potuto? Era un puro di cuore, era la persona più nobile sulla quale Milo avesse avuto l'onore di posare gli occhi! Era Camus, che diamine!
E con lui Saga, che era morto pentendosi dei propri errori, e Shura, che nel nome di Atena, o almeno credendolo tale, aveva ucciso colui che gli era stato maestro e amico.
Persone simili avevano tradito. E Milo si sentì minuscolo, infinitesimale di fronte al male del mondo, e l'armatura che indossava gli parve solo un inutile orpello. Come poteva cercare di resistere, lui, che era sempre stato immensamente fiero del proprio ruolo e sicuro della propria forza ma che in fondo non si sentiva molto diverso da un qualunque altro essere umano?

E ormai non erano lontani dalla superficie della terra,
quando, nel timore che lei non lo seguisse, ansioso di guardarla,
l’innamorato Orfeo si volse: subito lei svanì nell’Averno;
cercò, sì, tendendo le braccia, d’afferrarlo ed essere afferrata,
ma null’altro strinse, ahimè, che l’aria sfuggente.

Giunti al cospetto di Atena, Milo, Mu e Aiolia lasciarono cadere sprezzanti i loro fardelli. Che finissero pure faccia a terra, meritavano forse altro?
Eppure fu la dea stessa ad ordinare Kanon di tirare fuori quel pugnale maledetto, e poi... e poi... a gettarsi su di esso, quasi come se -Milo si maledisse ancora per quei pensieri che brancolavano folli nel buio dell'incomprensione- fosse stata ella stessa complice di quel complotto.
Non poté fermarla, ma solo stare a guardare le mani di Saga che seguivano impotenti la sua caduta.
Cercò, sì, tendendo le braccia, di afferrare il collo di Camus per far esplodere infine la rabbia e sfogare il dolore che l'aveva trafitto come fosse stato anch'esso un pugnale d'oro, concreto e spaventoso. Strinse le dita, sentendo sotto i polpastrelli la pelle sul punto di cedere. Lo sollevò sopra di sé con un scatto, fissandolo davvero in volto per la prima volta dalla sua resurrezione.
E gli mancò il coraggio di terminare l'opera.
Si era fatta strada in lui la consapevolezza del fatto che no, Atena non poteva certo essere complice di Ade e che, forse, ma dico forse, c'era una ragione dietro al suo agire apparentemente sconsiderato.
Eppure esitò ancora un momento prima di mollare la presa. Se Camus aveva tradito, meritava quella sofferenza e altre. Se non l'aveva fatto, allora meritava anche di peggio per non avergli detto niente.
Per la milionesima volta, Milo lottò contro se stesso, comprendendo quanto fosse egoista quell'ultimo ragionamento.
Vacillò e cadde, in ginocchio. E con la testa sul petto inguainato di nero dell'antico amante -traditore o no, ora e per un istante non contava- pianse tutte le lacrime che non era riuscito a versare da quando gli era stato strappato.

~

Orfeo saliva rapido, la cetra quasi dimenticata in mano, l'animo teso fino allo spasmo.
Euridice era salva, era lì, dietro di lui, pronta a vivere. Era salva, e lui avrebbe fatto in modo che lo restasse. Stavolta l'avrebbe protetta, non l'avrebbe abbandonata nemmeno per un momento, e la vita sarebbe stata ancora più bella, ancora più brillante. Pensava al colore del cielo, Orfeo, in mezzo a quella notte eterna. Pensava a quanto sarebbe stato bello rivederlo insieme ad Euridice. Che era lì, era salva, ed era proprio dietro di lui.
Non si voltò per tutto il percorso, poiché aveva bene in mente il patto col signore dell'Averno.
Ma quando iniziò a sentire la salita farsi più erta e l'aria più pura, e si seppe vicino all'uscita dovette farsi violenza per non voltarsi a rivedere l'amato volto.
Bastò un momento. Un bagliore che gli parve di sole. Si volse per regalare alla sposa il più felice dei sorrisi.

Morendo di nuovo non ebbe per Orfeo parole di rimprovero
(di cosa avrebbe dovuto lamentarsi, se non d’essere amata?);
per l’ultima volta gli disse ‘addio’, un addio che alle sue orecchie
giunse appena, e ripiombò nell’abisso dal quale saliva.


Era come se l'avesse uccisa con le proprie mani.
O almeno questo era quello che sentì Orfeo mentre il cuore gli cadeva in pezzi nel petto e le ginocchia gli cedevano.
Restò immobile a lungo, e attese fissando la tenebra.

Poi, dopo aver maledetto la crudeltà dei numi dell’Averno,
si ritirò sull’alto Ròdope e sull’Emo battuto dai venti.

  
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