Pairing: Damon/Elena/Katherine
Episode: 1x19
Disclaimer: Mi piace
ripeterlo in arabo, cinese
e chissà quale altra
lingua. Questi personaggi
non mi appartengono. D’altra
parte, sono stata liberamente
ispirata dalla serie
televisiva,
e non dai personaggi presentati nei libri
omonimi. Comportatevi di conseguenza.
A Chiara,
Chiara e Martina. Tre delle
mie donne.
Dancing
Damon
rimase in silenzio a gettare occhiate oblique al bancone, dove giaceva,
ancora
mezzo pieno, il suo bicchiere di bourbon liscio.
Lo
afferrò con decisione, considerando l’idea di
gettarne il liquido sulla folla
che si accalcava alle sue spalle, che lo sospingeva –alcune
volte in modo più
languido, come se fossero piccoli colpi di fianchi di donne- contro il
tavolo di acero, come aveva
soffiato con fare
soddisfatto il sindaco Lockwood,
omuncolo dalle
spalle troppo grandi e dal petto fiero di un orgoglio che non era
affatto
affare suo, ma piuttosto il simbolo di una debolezza che rincorreva la
violenza. Damon ne aveva viste le tracce sul volto del figlio, che lo
aveva
insultato con boria, che alla sua età non avrebbe neppure
posseduto; soprassedette
alla visione di lui con i capelli ricci scompigliati dal vento di cento
e passa
anni con uno scrollone del capo.
Scolò
con decisione tutto il liquido, alla fine; gettarlo sarebbe stato
divertente,
ma sarebbe stato uno spreco: uno spreco per quella città che
rimaneva ancora
una prigione d’oro, dove tutti si alternavano nel recitare
ruoli non propri, ma
che desideravano calzassero loro a pennello. Lo desideravano.
L’aveva desiderato pure lui, ai tempi. L’aveva
desiderato con lui anche Stefan.
E poi era giunta
Katherine. E lì ognuno di loro, ognuno,
persino coloro che temevano le creature della superstizione, si era
fatto
trascinare da una marea di desideri, le cui onde erano sempre
differenti: passione, amore, tenerezza,
protezione.
Ognuno era stato infettato da quei visi di cortesia e trasgressione.
Lui
per primo.
“Un
barboun liscio, ancora.”
Liscio,
sempre e solo liscio: senza vergogne, senza rimpianti, senza
umanità; se non
l’annebbiamento dei sensi che gli provoca. Dei suoi
sentimenti a cui non aveva mai
volute porre fine, come se fossero per lui più importanti di
qualsiasi tipo di
potere.
Come
se rimanere umano fosse davvero ciò che avrebbe potuto
mantenerlo per sempre in
vita.
In
una vita che aveva scelto consapevolmente. Per Katherine. Per Stefan; per la sua vendetta,
poi. Per non sentire più su
lui il freddo peso della colpa che non voleva condividere con nessuno.
Che non
voleva avere. Ma che aveva accettato nel momento in cui non si era
voluto
allontanare dal –amato, sempre amato- fratello e poi da
Elena.
Gilbert.
Il
nome dell’aguzzino. Il nome del giudice. Il nome del bigotto.
Del cieco. Del
muto. Del sordo.
Altro
bicchiere vuoto lasciato, con delicatezza calcolata, non più
spontanea, sul
tavolo.
Gilbert.
Colei
che gli
spezzava il respiro centenario.
Sospirò,
gettando di quando in quando un’occhiata dietro di lui, alla
ricerca di Stefan, che
doveva fare da cavaliere alla sua nobile
dama.
Nulla.
Damon
sperò, in cuor suo –un cuore marcio, ma ancora
lì, pronto ad essere trafitto da
un paletto di legno- che fosse già ad attenderla. Il passo
fu ben diretto verso
dove si stava svolgendo una delle ultime fasi del concorso
–in quel momento gli
giunse l’immagine del viso di Annabelle
dal tono
nostalgico ed insieme ironico, e sorrise, tra sé e
sé-, pronto a osservarla
mentre scendeva, mentre prendeva la mano di Stefan,
il suo sorriso che si sarebbe tinto di toni meno ansiosi e
più naturali, più
sinceri e – Dov’è
Stefan,
maledizione?
Si
accorse in quel momento che davvero lui non c’era.
La
tentazione di iniziare a chiamarlo a gran voce era davvero forte, tanto
che
strinse i denti, nel tentativo –che riuscì- di
reprimere a forza di sangue
scuro ed inutile quella voglia, e pure quel panico: se non era
lì, era
probabilmente altrove. Un altrove che avrebbe potuto portare alla morte
lui e
pure lui stesso.
Elena
Gilbert.
La
sentì prendere un pieno respiro, come se da un momento
all’altro avesse dovuto
implodere. La vide scendere, divenire sempre più nervosa.
Rivolgersi verso
l’assente presenza di Stefan
ed iniziare ad avere il
ritmo cardiaco accelerato. Guardò, affascinato, quasi, come
il predatore
osserva sempre il panico della sua vittima, il seno curvarsi sotto la
spinta di
polmoni che ricercavano nell’ossigeno un nuovo sollievo.
Stefan?
Era
muta anche lei. Cieca anche lei. Ma non sorda. E aveva udito Damon, e
gli aveva
creduto.
Ma,
ora, il suo sguardo implorò il nulla. Il nulla.
Decise
in quel momento.
Non
era molto lontano dalla scala. Non avrebbe neppure dovuto correre: solo
prenderla per mano.
Quando
percepì sulle sue dita –fredde di morte, leggere e
assassine- il tocco delle
sue, rabbrividì; tanto profondamente il brivido
scavò che si costrinse ad un
sorriso rassicurante e al contempo assolutamente intimidito.
Non
sapeva neppure che cosa stesse facendo.
{Dov’è
Stefan?
Where’s Stefan?
Non
lo so.
I
don’t know.}
Si
susseguirono domande, repliche nella sua mente, ma nessuna di esse
riuscì a
dare conforto a quel senso di perdita e sicurezza che lo aveva
catturato. Che
lo aveva pervaso.
È
umanità, questa?
{Che
cosa sta facendo con Damon?
What’s she doing with Damon?
Non
ne ho idea.
I’ve
no idea.}
Ridacchiò
dentro di sé nell’udire i mormorii di quei mortali
che si credevano padroni di
una città che era sempre stata estranea a chiunque vi
vivesse le proprie bugie,
le proprie illusioni, i propri sogni, i propri amori, le proprie
felicità.
Forse
anche Jenny e persino Saltzman
potevano essere
aggiunti alla lista degli illusi. Sebbene loro fossero scappati per un
certo
periodo da tutto quello. Ma si è
contaminati per sempre.
L’aria
di Mystic Falls era
contaminata. E nessuno vi sarebbe mai sfuggito.
Alzò
lo sguardo e per un attimo l’espressione ilare, maliziosa di
Katherine si
contrappose a quella nervosa di Elena; un attimo, prima di riprendere
la giusta
lucidità, la giusta distanza da tutto quello.
Iniziò
la musica: violini e voce che sembrava giungere
dall’oltretomba, insieme a quei
gesti che avrebbero dovuto consacrare l’inizio di quella
città, l’ennesimo
inizio, ma che in realtà aveva sancito al fine di ogni bolla
di sapone.
Guardò
le labbra di Elena muoversi, replicò quasi automaticamente,
concentrato da un
unico pensiero: Katherine, ancora. Quante volte le aveva baciate?
Quante
mordicchiate, mentre lei faceva la stessa cosa? Provò
l’impulso di prendere
quel corpo mortale, quel guscio vuoto per scuoterlo, torturarlo,
accarezzarlo
dolcemente, farlo urlare di vergogna e di amore.
Ripeté
il medesimo gesto della sua dama: le mani vennero a fronteggiare quelle
di
Elena; i loro sguardi pure.
Fu
in quel momento che comprese il labile confine tra tutto quello che lui
stava
sconfiggendo, che ormai aveva sconfitto e tutto quel palpitare,
quell’umanità:
quelle erano le labbra di Elena. Quelle erano le dita di Elena. Quello
che ora
udiva sul suo collo, mentre la stringeva a sé per il valzer,
quello era il
respiro di Elena. Nulla di estraneo, se non lei.
Katherine
era sempre stata estranea. Katherine era vapore e nebbia fosca che si
tingeva a
tratti di rosso passione, ma mai d’amore. Non era mai stata
sua.
Lasciò
le mani di Elena.
La
musica era finita.
Ma
il palpitare –poteva?- del suo cuore marcio no.
Elena.