Fatti
sentire,
principessa tessitrice.
The lust.
Non
sa
bene come ci sia finita nelle sue stanze. È una presenza
irrequieta, non fa che
fissare la finestra, poi si siede, poi si rialza, passeggia a vuoto,
incrocia
le mani al petto e aspetta. Aspetta i suoi amichetti che la salvano
dalle
grinfie del mostro brutto e cattivo.
Poi si
volta, vede che è arrivato. Salta, grida, balbetta qualcosa
di incomprensibile.
È irritante, quand’è così.
La
snobba, perché non c’è altro da fare
con quella femmina se non farla
sentire mediocre.
Lo fissa,
ne ha paura. Ha il terrore di quegli occhi che ricordano molto lo
smeraldo. Ha
paura di quell’aria malinconica. Ha paura di ciò
che rappresenta. Ha paura di
riconoscersi in quella cosa. Non vuole dargli ragione. Sicuramente
verranno a
salvarla. Non si rassegna.
È questo
che teme di più, nella sua personalità.
L’idea di rassegnarsi.
Allo
stesso tempo, però, ne prova invidia.
Perché
lo vede forte, nella sua corazza nichilista. Intangibile, incolore, in
scalfibile. Invincibile. Vorrebbe
rifugiarsi in essa, a volte. Estraniarsi dalla speranza di essere
salvata.
Perché, se l’epilogo si rivelasse la morte dei
suoi amici, di Kurosaki, sarebbe
davvero finita. E non avrebbe più nessuno a cui aggrapparsi,
per cui sentirsi
utile, indispensabile. Aizen
l’ha
voluto perché il suo potere è pari a quello di
dio. Ancora meglio. Ricrea ciò
che dio ha plasmato. Questo dovrebbe farla sentire una principessa,
come dice
il suo nome. Forse si è calata troppo in quel ruolo
fiabesco; ora vorrebbe
scappare dal castello e cercare il vero amore, invece che sottostare ai
voleri
del re che le ha affiancato un principe troppo triste, che ha dei
magnetici
occhi color smeraldo, ma sono tristi. Che la schiaccia con la sua
superiorità,
non fa che umiliarla.
In fondo,
ne prova invidia. Vorrebbe perdere l’importanza delle cose
come fa quel
principe dalle candide vesti.
Non
sa
bene come sia finita nelle sue stanze. A dormire in un letto accanto al
suo. Un
enorme letto a baldacchino, con le tende che la proteggono dal resto
del mondo,
da Kurosaki. La notte, a volte,
attraversa furtivamente quelle tende candide e la osserva, dormiente,
mentre
sospira. Sembra tranquilla. Così fragile, così
bella.
Si
avvicina un po’, la scorge meglio, le tira via i capelli che
le coprono le
labbra. Dorme quasi sempre su un fianco, le braccia che abbracciano il
cuscino,
stringendo il seno, rendendolo più grande di quel che
è già. Rendendolo invitante.
Poi torna
a letto. Non vuole spingersi oltre. Non deve
spingersi oltre. Aizen non l’ha richiesto.
Gli basta
mangiarsela con gli occhi. Gli basta cercare di scrutare tutto con la
sola
vista, con quell’occhio prodigioso che può vedere
tutto e può memorizzare ogni
cosa. Anche se osserva il soffitto da molto, ricorda bene i suoi
lineamenti. La
vede quasi sempre, deve occuparsi di lei. La sua fisionomia occupa la
sua mente
anche mentre combatte ed esegue gli ordini.
Non la
odia. E nemmeno la ama. È una femmina,
non vale neanche uno straccio di sentimento. L’indifferenza,
solo questo
merita. Perché lei, oltre che femmina,
è un’umana. Che
si sta aggrappando
spudoratamente alla speranza di essere salvata. Anzi, lo dà
proprio per
scontato. Come se si burlasse di sua eccellenza Aizen, come se si
burlasse di lui, che la tiene
chiusa là dentro, che
le dà da mangiare, la fa dormire accanto. Okay,
rapiscimi pure, tanto Kurosaki verrà a salvarmi e allora
sarà finita per te. Questo
le dice inconsciamente quell’aria innocente. Potrebbe
ucciderla in qualsiasi
momento. Ma non può. e in fondo, nemmeno vuole.
Vorrebbe
divorarla. Succhiarle via tutto. il latte del suo seno, le lacrime dei
suoi
occhi, il sudore della sua paura o stanchezza. Vorrebbe divorare il suo
cuore e togliersi la soddisfazione
di
sentirne il sapore.
Se quel
sapore lo avesse saziato per sempre e coprire quel buco che per poco
non gli
sfiora la cassa toracica, i polmoni, il cuore. Quello che pulsa.
Sbuffa,
pensando che siano solo scempiaggini.
Alla
fine
è arrivata, la spazzatura. Corre
con
in braccio una mocciosa dai capelli verdi. Ha una spada troppo grande,
troppo
bruta. Quella femmina si
è affidata
alla spada di un marmocchio inesperto, una spada che non ha stile, non
ha
forma, è grossolana. Ha preferito una mannaia alla grazia e
maestria della sua
Murciélago. Preferisce la luna che sta lì, sempre
ferma, non ascolta nessuno,
sorge e tramonta imperterrita, al pipistrello che ne approfitta, deride
la luna
vagando nella notte.
Vuole
prendersi gioco di lui. Scende le scale, con tranquillità.
Lo vede sorpreso, sa
anche il suo nome. Ne è quasi onorato, ma quella spazzatura non è meritevole
di sapere cosa pensa lui.
Vuole
dargli subito la bella notizia. Una sua amica è morta.
È riuscita a uccidere il
numero nove. Spazzatura, praticamente. A dire il vero non ha appurato
personalmente se sia morta o no, ma glielo dice lo stesso, con
convinzione. E
Kurosaki se ne va, lo ignora. Ha la faccia tosta di ignorarlo. Fa il
saggio,
dice che anche se è un nemico non ha ammazzato nessuno con
le sue mani.
A mali
estremi, estremi rimedi. Si spinge più in là.
dice che è stato lui a rapire
quella femmina. E ottiene
l’effetto
sperato. Lo attacca, ripetutamente. Per una femmina.
Spazzatura.
Eppure,
lo stuzzica. Prova piacere a vederlo disperato nel sapere che quegli
occhi verdi
gli hanno portato via una persona a cui teneva facendogliela sotto il
naso,
senza che se ne accorgesse. Vuole di più. vuole fargli
capire che è inutile,
che ormai lei appartiene ad Aizen.
E
a lui.
Ci mette
foga. Pensa che, dopotutto, è stato nobile il suo tentativo
di mettersi sullo
stesso piano. Lo trapassa, da parte a parte, sotto il collo. Lo rende
simile a
lui. Perché i grandi nemici hanno sempre qualcosa in comune.
Ora,
oltre che avere una femmina da
volere
a tutti i costi, avevano anche un buco.
Non
vuole
mangiare. Non ha fame e non gli va. Kurosaki è stato
sconfitto. Non vuole
sentire altro. vuole solo lasciarsi andare.
All’inizio
si mostra paziente. Va bene, non mangia oggi, mangerà
domani. Prima o poi non
resisterà alle tentazioni della fame. è solo
un’umana,
cederà.
Non cede.
È maledettamente resistente. Ma si sciupa. Le guance, una
volta rosee e dalla
morbida consistenza, sono ora scavate. Nessuno lo nota,
perché è un cambiamento
impeccertibile. Solo lui se n’è accorto.
Perché la osserva, tutte le notti, e
la ricorda in ogni istante.
Non vuole
che si sciupi. Non vuole farla morire per Kurosaki.
Per lui è
disposta a morire. Anche se si chiede il perché, non
otterrà risposta, e lei
non mangerà.
Si siede
anche lui, al tavolo, piccolo e rotondo. Si versa del tè, lo
beve con
naturalezza, accavalla le gambe, assumendo una posa tipicamente umana. Solo per farla sentire meno sola.
Per farle capire che anche lui può sentire fame e che non la
uccide mica se si
siede accanto a lui e inizia a mangiare la carne che hanno preparato
appositamente per lei.
Ma gli dà
le spalle. Rivolge nuovamente lo sguardo alla finestra. Lui non lo
sopporta. È
più importante una finestra? È più
importante il ricordo di Kurosaki?
Si alza,
la sorprende, la fa cadere a terra, la fa sbattere contro il divano
lungo,
candido, ben curato. Le blocca le mani mettendoci un ginocchio sopra.
Prende il
piatto, la forchetta, con una mano la costringe
ad aprire la bocca. La imbocca. La costringe a masticare.
Glielo ordina.
Perché è una femmina
umana che deve nutrirsi,
altrimenti muore, e con essa le
aspettative di
Aizen. E con essa, la sua visione celestiale che si concede tutte le
notti.
Non
sa
bene come sia finita nelle sue stanze. Si sente infettato,
sporco, contaminato. Vorrebbe mandare via subito quella spazzatura. È di
bell’aspetto, ma è
sempre immondizia. La ripudia,
perché
lo fa sentire inferiore.
È bella,
anche troppo. Un essere umano non può avere lineamenti
così perfetti. Ha dei
capelli che gli ricordano vagamente un sangue passionale, che lo irrita
e al
contempo lo stuzzica. Ha degli occhi indefinibili, per colore e
temperamento.
Alle volte sembrano grigi, alle volte toccano il castano. Qualunque sia
il loro
colore, sono sempre innocenti. Troppo. Quell’innocenza
è fasulla, ne è convinto.
Sono
occhi speranzosi. Che guardano ancora quella finestra. Giura a
sé stesso che
farà murare tutto, prima o poi.
Perché
quegli occhi non rivolgono uno sguardo più approfondito a
lui? Alla sua
persona? Perché non capisce che ora la sua vita la deve condividere con lui?
Che Kurosaki non vale niente?
La
risposta non gliela darà mai. Ed è questo che lo
fa sentire inferiore. Ma non
lo vuole dimostrare. Non a spazzatura simile.
Lei ogni
tanto lo guarda quando lui è distratto. È colpita
dalle sue labbra. Ha un
labbro superiore completamente nero, che non è dovuto a un
rossetto. I suoi
occhi sono completamente cerchiati di nero, fanno un tutt’uno
con le
sopracciglia folte e corrugate in quella perenne espressione triste, si
uniscono alle profonde linee verdi che calano sulle guance. Tutto
ciò non fa
che mettere in risalto quel verde che prima o poi maledirà.
Verde, colore della
speranza, ma anche dell’invidia. Non sa come interpretare
quegli occhi. Grandi,
dalle piccolissime e strette pupille che rendono lo sguardo quasi
innocente,
bambinesco. Se non fosse per i lineamenti duri del viso, per i capelli
spinosi,
sempre neri, per la maschera che cela parzialmente il suo essere. Se
non fosse
per la sua corporatura, coperta da una giacca aderente che le lascia
intendere
un corpo che ha resistito a tante torture fisiche, a tanti
combattimenti. Ha
mani leggermente spigolose, esili, dalle dita lunghe e fini, unghie
laccate di
smalto nero che rendono ancora più rudi quei lineamenti. Ha
un buco che gli
strapassa lo sterno e un quattro tatuato sul petto. Ogni tanto lo
intravede.
Intravede un corpo che a volte le fa venire pensieri strani. A volte le
dà la
sensazione che possa abbracciarla. Ma
lui è superiore. Non ha
tempo da
sprecare per consolare una femmina come
lei.
Preferisce
non guardarla, una persona così. La fa sentire una feccia.
Non
fissa
la finestra. Finalmente lo osserva, lo guarda dritto negli occhi. Ma
con odio. Non sopporta che si
parli di
Kurosaki. Non sopporta che lui parli
di Kurosaki. Non sta dicendo cose carine. Ma non ce la fa
più. lo deve dire.
Deve farle sapere che razza di uomo ha scelto, a chi
ha affidato le proprie speranze.
Ma lei non
lo sopporta, ha detto una parola di troppo.
Il gesto
è veloce. Non se ne accorge. Ha già la testa
rivolta al muro, alla sua destra.
Sente un leggero bruciore alla guancia. Fissa il muro più
volte. Non ci vuole
credere. Vuole pensare che non sia successo, che lei non gli abbia dato
davvero
uno schiaffo per difendere quella spazzatura.
La guarda
di nuovo. Suda. È furiosa. Ha la mano ancora a
mezz’aria. Trema. Ha paura, sa
cos’ha osato fare. Sa a chi ha
dato
lo schiaffo. Sa che potrebbe non respirare più, senza
accorgersene.
Eppure
lui non la uccide. Non la vuole uccidere. Preferisce andarsene e
ignorarla. La
lascia sola. Perché sa che a lei da enormemente fastidio
essere sola.
Così
impara. Sì, imparerà, la femmina.
Imparerà
che Kurosaki vale anche meno di uno schiaffo.
È
notte.
Non sa bene come sia finita nelle sua stanze, ma dorme accanto a lui,
in quel
letto. Ormai però è abituato. Non vuole neanche
osservarla, quella notte. Tanto
non se ne sarebbe mai accorta. Vuole solo dormire. Si leva la giacca,
fa caldo,
le coperte lo opprimono. Le tiene fino alla vita. Osserva il soffitto
per un
po’ e infine chiude gli occhi, con la speranza che Morfeo lo
abbracci subito.
Con la speranza che non la veda anche nei sogni.
Anche se
dorme, ci sono altri movimenti. Stavolta è lei. Si
è svegliata. O forse non ha
mai dormito. Esce con fare furtivo dalle coperte e resta in piedi,
davanti a
lui, a osservarlo. Osserva il suo pettorale nudo, osserva la sua
espressione
finalmente tranquilla, che dorme. Mantiene sempre
quell’espressione triste, ma
sembra tranquillo. Sereno. In estasi. Vede il buco che fa capire che non è umano.
È grande, ci entrano almeno quattro dita. Lei ha
una mano
piccina. Fa una scommessa col proprio cervello. Vuole vedere se entra
un suo
pugno. Non lo sfiorerà neanche, altrimenti si
sveglierà. E la ucciderà
nuovamente con lo sguardo.
Si china
leggermente. Avvicina la mano. Tre dita passano perfettamente
attraverso quel
buco che la disgusta ma al contempo la incuriosisce. Non succede nulla.
Non c’è
nessuno a tagliarle le dita. Non sta facendo niente di male.
Quattro,
cinque dita. Entrano perfettamente. Ma un pugno no. Già la
mano piatta è a
rischio di contatto non voluto.
La fa
uscire nuovamente, e poi la inserisce di nuovo. Si diverte, potrebbe
giocarci
tutta la notte. Ma no, non ha tempo. E nemmeno la
possibilità. Perché lui si è
svegliato. Ha aperto gli occhi, splendenti in quel buio irreale di Las
Noches.
L’ha sorpresa, talmente tanto che con facilità le
blocca la mano che si
divertiva a giocare col suo corpo, o meglio, con ciò che
mancava del suo corpo.
Le chiede che sta facendo. Non c’è rabbia nelle
sue parole, ma lei lo
interpreta così. Chiede di essere lasciata andare. Vuole
tornare a letto, dice
che è stanca. No, non è affatto stanca. Lo
capisce. Ha un polso che va a mille.
Ha paura. Paura immotivata. Avrebbe
dovuto capirlo già da un po’ che lui non può
farle del male. Vuole farglielo capire. Ora o mai più. Non può ucciderla. Non
desidera più farla sparire. Vuole altro da
lei. Vuole qualcosa che Kurosaki non ha mai avuto. Vuole essere
superiore,
avere tutto. privarlo di tutto. E poi, sentiva il suo respiro sin
dall’inizio.
Irregolare, forte, impaziente. Anche lui è impaziente,
ormai. La vuole. E sa
che la cosa è reciproca. Lo sa e
basta. Perché
lei è umana e ha delle tentazioni.
Lui non è umano, ma si
fa portavoce delle tentazioni.
È così vicina.
Non ne può più. le afferra
la testa e non le dà via di scampo. Lei sospira, non se
l’aspettava. Ma
asseconda. La sua lingua fa uno splendido lavoro. Asseconda in tutto.
la mano
va a toccare agilmente il petto. Scorre velocemente dappertutto.
Le
strappa via i vestiti, letteralmente. La vuole e basta. Farà
realizzare altri
abiti per lei, non ha importanza. Vuole solo che il suo seno sia
finalmente
libero, nudo, di fronte a lui. Lo abbraccia, mentre si china a baciarlo
e
morderlo con vigore. Lo asseconda, si fa guidare dalle sue mani, che
scendono pericolosamente verso il
basso. Non è
affatto docile. Obbedisce, ma non è docile. Anche lei vuole.
Pretende. Lo trattiene, attaccato
al suo
seno che lo soffoca. È troppo grande. Sta per scoppiare. Non
ce la fa più. La
getta sul letto.
La vuole,
disperatamente. Lì, in
quel preciso
istante. Anche lei lo vuole. Gongola nella sua disperazione. Invoca il
suo nome
più volte. Il suo nome.
Non Kurosaki. Vuole essere
penetrata da
lui. Vuole lui.
La
accontenta. Anche lui lo vuole. Anche lui gode. Anche lui sospira. Vuole continuare, su
è giù, innumerevoli
volte. Non vuole arrivare al limite, perché finirebbe tutto.
Vuole rinchiudersi
in quella dimensione parallela all’infinito. Non vuole
lasciarla andare via.
Cerca di
consolarsi con l’urlo di puro piacere che lancia lei.
È insopportabile. Irresistibile.
La vuole,
in tutto e per tutto. Anche dopo quel rapporto morboso, passionale,
forse
violento, eppure bellissimo e piacevole. Vuole stringerla a
sé anche dopo aver
finito, anche se è stanco morto. La desidera e basta.
Forse
perché si è roso conto di avere un cuore.
E vuole farglielo sapere.
Ma lei
forse ha paura di conoscerlo. Si riveste, torna nel suo letto. Lui la
segue.
Lei piange. Non sa cosa le sia preso, dice. Nemmeno lui lo sa, ma
credeva che
non avesse importanza.
Stava
cadendo in una botola profonda e insidiosa nel cui fondo
c’erano solo lance,
aghi, che gli avrebbe fatto solo male.
Ma lei lo
ha tentato troppo. Gli ha fatto vedere troppe cose del cuore.
E ora lo vuole. Vuole coprire quel buco a tutti i costi.
Anche se
sa che ciò potrebbe costargli la vita. Sicuramente
gli costerà la vita.
Voi umani
possedete un cuore,
dunque venite feriti.
Possedete un cuore, dunque perdete
la vita.