Salve
ragazze, eccomi che torno a scassare con una shot
senza né capo né coda.
Che ve ne
pare? Mi è venuta in mente ed ho voluto scriverla.
Per il momento questa storia non ha un seguito,
sembra quasi una what if? Già…
e se si reincontrassero? XD
Il seguito di questa storia è la long fic Stelle cadenti
Anche io
sono rimasta male dal finale, ma se mi gira bene potrei anche pensare ad un
continuo.
Per il
momento: addio XD
Sara.
Incontro
Esistono incontri che ti cambiano la
vita
Sospirai.
Sospirare,
in un certo senso, mi aiutava a restare calma e a non urlare nel bel mezzo di
New York, tra le persone che passeggiavano –o per meglio dire: correvano- per Times
Square.
Facevo la
fila per comprare un caffè al carretto dove lo compravo sempre; questo gentile
signore che vendeva caffè e brioche, a buon prezzo ed anche di ottima qualità,
si fermava sempre sul marciapiedi di fronte ad uno dei tanti palazzi che
caratterizzavano quella zona.
Faceva
caldo quel mattino, troppo caldo per
essere solo il ventidue aprile: per fortuna, quel mattino, avevo indossato solo
una camicetta blu, la gonna bianca, lunga fino al ginocchio e le immancabili –purtroppo, devo aggiungere- scarpe col
tacco, anch’esse blu; i miei capelli lunghi e castani erano legati in uno
chignon alto e due ciocche più corte mi incorniciavano il viso; non ero un tipo
che amava molto truccarsi, ma era necessario nell’ambiente che frequentavo,
così mi limitavo al fondotinta, ombretto, matita e lucido per le labbra.
Tutta
questa eleganza, tutta questa perfezione, era dovuto al fatto che fossi la
segretaria personale di Aro Russo, il direttore di una famosa agenzia di
modelli: sceglieva lui i volti e soprattutto i corpi di ragazzi e ragazze che avrebbero
sfilato su famose passerelle con abiti di famosi stilisti e i fortunati avevano
un futuro assicurato anche per la settima discendenza. I nomi dei modelli e
delle modelle più famose uscivano dalla nostra agenzia.
Quella
mattina, il capo mi aveva chiamata con l’interfono nel mio ufficio adiacente al
suo: «Bella» aveva detto la voce distorta dall’apparecchio «Vammi a prendere un
caffè allo Starbucks, ma non quello che fanno qui
sulla strada, voglio quello di Times Square»
«Corro!»
Avevo risposto efficiente, voltandomi per osservare dalla vetrata alle mie
spalle il traffico quotidiano di New York; sospirai quando il capo aggiunse «Entro
un’ora»
Non ci
sarebbe stato nulla di strano se preferiva il servizio di una caffetteria anziché
un’altra, il problema consisteva nel fatto che l’agenzia in cui lavoravo si
trovava nei pressi di Central Park, nei pressi del The Plaza Hotel
New York. Times Square distava
qualche buon kilometro.
Avevo
preso un taxi e mi ero fatta lasciare sul marciapiedi dove mi trovavo in quel
momento: se lui voleva il suo caffè anche io avevo diritto a prendere quello
che preferivo. Lo Starbucks era proprio lì vicino ed
una piccola deviazione non mi avrebbe di certo fatto male.
Altre due
persone e poi sarebbe giunto il mio turno.
Alzai gli
occhi verso il cielo: quel mattino era molto azzurro, qualche nuvola cotonata
lo abbelliva e non sembrava ci fosse la pellicola di gas e fumo che
caratterizzava New York.
Mi
mancava la mia piccola città, Forks, nello stato di
Washington dov’ero cresciuta con mio padre, ma il mio lavoro non mi dispiaceva
ed ogni tanto riempivo quella mancanza addentrandomi in Central
Park; vivevo in un piccolo appartamento, in un grande palazzo, niente di
lussuoso ma nemmeno niente di terribilmente povero: avevo arredato tutto come
la casa a Forks e quindi non sentivo molta mancanza
di casa.
Aggiustai
la borsa che mi era scivolata dalla spalla e poi l’uomo davanti a me andò via:
presi il mio caffè e mi concessi un muffin al cioccolato, giusto per addolcire
la lunga giornata che trascorreva lentamente.
Presi la
busta di carta dove l’uomo alto e magro, dal viso simpatico, aveva infilato il
bicchiere col caffè ed il muffin e dopo averlo pagato mi avviai velocemente
allo Starbucks: avevo sete, quel mattino non avevo
fatto colazione per arrivare presto al lavoro e adesso avevo un buco nello
stomaco.
Mai bere
caffè senza aver prima mangiato qualcosa, mi diceva mia madre ma non mi
sembrava carino divorare un muffin pieno di cioccolato per strada col rischio
di sporcare la mia camicetta, così cacciai solo il bicchiere col caffè e lo
sorseggiai.
Arrivata
davanti la porta dello Starbucks l’aprii spingendola
con la schiena visto che avevo le mani occupate dal portafogli, dal caffè,
dalla busta e la borsa mi era scivolata nell’incavo del gomito. Non l’avessi
mai fatto.
Quando mi
voltai inciampai nel fermo della porta, quello che si trovava a terra, avendo
già precario equilibrio mi ritrovai a saltellare sui tacchi e caddi
irrimediabilmente addosso al povero sfortunato che mi era capitato davanti: gli
versai addosso tutto il caffè ed il muffin volò via dalla busta, spiaccicandosi
al suolo.
«Cavolo…» Disse una voce di ragazzo e
quando alzai gli occhi dal muffin mi ritrovai davanti un petto sodo coperto da
una camicia bianca macchiata di marrone.
Terribilmente
dispiaciuta, poggiai tutto a terra e cacciai un fazzoletto di stoffa dalla
borsa, iniziando a tamponare la macchia e dicendo cose del tipo «Oddio, mi
perdoni, sono terribilmente desolata. Non volevo sporcarle la camicia con il
caffè, mi scusi, si lasci pulire» Ma quando notai che la macchia non andava via
mi abbassai per prendere le salviette imbevute dalla borsa.
Il
ragazzo disse qualcosa tipo «Non si preoccupi, sono cose che capitano…»
Stavo per
tamponargli ancora la camicia quando decisi di alzare lo sguardo e ciò che vidi
mi lasciò a bocca aperta: vedevo bei ragazzi ogni santo giorno, modelli che
passavano davanti la mia scrivania ogni ora; ero abituata a visi mozza fiato,
corpi statuari ma ciò che mi si presentò davanti fu la visione più bella del
mondo.
Quel
ragazzo era un angelo: aveva capelli ramati e scompigliati dal gel, occhi di un
verde talmente limpido che potevano ipnotizzarti, zigomi alti, fronte perfetta
come il naso e le labbra, oh… le labbra…
«L-le chiedo scusa, non volevo, le ho rovinato la camicia»
Mi affrettai ad abbassare il viso sulla macchia, poiché le mie gote erano
diventate rosse come due petali di rosa scarlatta.
«A me
dispiace di più per quel povero muffin» Disse per alleggerire la situazione.
Alzai lo
sguardo e sorrisi «Anche a me» risposi.
«Se non
va di fretta, posso offrirle un caffè ed un muffin» Propose. «Sa, per farmi
perdonare per esserle venuto addosso»
Avvampai «Oh,
beh, in realtà dovrei andare a lavoro…» guardai l’orologio da polso, mancavano
ancora tre quarti d’ora. «Ma dovrei
essere io a scusarmi, sono stata io a macchiarla»
«Sono un
uomo, non mi faccio offrire il caffè da una donna» Prese la giacca che era
caduta durante l’impatto con me e mi indicò un tavolo vuoto lì vicino.
Mi
accomodai e lui poggiò la giacca sulla sedia. «Come lo preferisce il caffè?»
Chiese gentile.
Ci pensai
un po’ su «Preferisco prendere un frappuccino»
«Ed un
muffin al cioccolato. Arrivano subito.» Corse al bancone e lo vidi avvicinarsi
alla cassa per pagare.
Mi
sentivo tremendamente a disagio e guardavo ossessivamente l’orologio: se prima
mancavano quarantacinque minuti adesso ne mancavano quarantatre.
Quel
ragazzo era tremendamente carino e sembrava anche gentile ma sicuramente dopo quel
giorno non l’avrei rivisto più.
Tornò
dopo un paio di minuti con due frappuccini e due
muffin, uno al cioccolato ed uno ai frutti di bosco; si sedette di fronte a me
e mi porse le mie cose.
Mi guardò
e mi allungò la mano destra «Piacere, io sono Edward» disse, quando ricambiai
la stretta.
«Io sono
Isabella, ma mi faccio chiamare Bella» Risposi al limite dell’imbarazzo.
La sua
camicia era ancora per metà marrone e notai che il suo collo era stretto in una
cravatta.
«Mi
dispiace ancora per ciò che ho fatto» Dissi; il senso di colpa veniva anche dal
fatto che se avesse avuto un colloqui di lavoro, o che se dovesse andare al
lavoro, doveva farlo con la camicia in quelle condizioni.
«Le ho
detto di non preoccuparsi. Capita di rovesciarsi il caffè addosso.» Mi sorrise
mentre addentava il suo muffin.
Io cercai
di fare in fretta a trangugiare il mio senza sembrare volgare e finii tutto il frappuccino.
Mancava
mezz’ora prima che potessi rientrare in ufficio col caffè del capo e così,
dispiaciuta per l’incidente, presi un foglio dalla mia agenda e scrissi il mio
indirizzo al ragazzo. Glielo porsi e lui mi guardò con un sopracciglio alzato mentre
succhiava dalla cannuccia
«Mi mandi
la camicia, gliela mando alla lavanderia per scusarmi e ripagarla del caffè e
del muffin» Spiegai.
«Oh ma non
si disturbi. Non fa nulla.»
Mi alzai
facendo finta di non ascoltarlo «Sono terribilmente dispiaciuta, ma adesso devo
andare a lavoro. Mi perdoni. Aspetto la sua camicia.»
Presi le
mie cose ed andai alla cassa, per ordinare un caffè da portare e prima di
uscire dalla negozio, mi voltai verso il tavolo per salutare Edward: gli feci un cenno con la mano e
lui ricambiò sorridendo.
Chissà se
lo avrei incontrato ancora. Ma quell’incontro aveva cambiato radicalmente la
mia giornata.