Prologo
La bambina giocava
da sola, ripetendo una filastrocca che la nonna le aveva insegnato.
Sedeva vicino a dove
il ruscello incontrava il fiume, creando un piccola cascata.
La bambina immerse i piedi ridacchiando per la frescura. Le piaceva giocare da
sola, stare lontano dagli altri bambini...Erano cattivi con lei, tutto perché
lei aveva quegli strani poteri...tese una mano verso l’acqua per sfiorarne la
superficie e incresparne l’immobile superficie.
Fu allora che sentì
il rumore.
Uno squadrone di uomini a cavallo con i mantelli bordati di pelli di lupo.
La bambina balzò
indietro nascondendosi alle spalle del tronco d’albero caduto.
- Damphyr...- urlavano terrorizzati alcuni uomini, cercando
uno scampo che era impossibile trovare.
La bambina
sussultò...aveva sentito sua madre molto spesso
parlare, a bassa voce, di quelle creature e poi farsi il segno della croce, non
sapeva cosa fossero, ma evidentemente erano pericolose...Alzò piano il capo,
guardando attraverso il tronco dell’albero che le offriva riparo, ma vide solo
una nuvola di polvere sollevarsi sul villaggio, sentiva i rumori degli zoccoli
dei cavalli, le urla delle persone, i singhiozzi di spavento: tutto si svolgeva
molto velocemente...In un turbine, stanavano gli abitanti e li uccidevano...Gli
animali scappavano, gli uomini si nascondevano, le donne piangevano...vide i
cavalieri ritornare indietro dopo aver raccolto quanta più gente possibile,
molti bambini erano in mezzo a quel gruppo, lei li sentiva piangere. Vide il
Pope del villaggio venire spinto in avanti, la vecchia
tonaca infilata alla meno peggio, mentre si faceva il triplice segno della
croce ortodosso.
Urlò qualcosa come
una maledizione, sollevando la croce che portava al petto, quasi come fosse uno scudo in direzione di un uomo alto, seduto sul
cavallo che lo guardava con disprezzo...
Udì la risata di
quell’essere giungere fino a lei e rabbrividì, per la paura, mentre quel suono
le gelava il sangue nelle vene. L’uomo sul cavallo allungò una lancia che
teneva al fianco e, con una mossa repentina, tolse la pesante catenina dal
collo del Pope lanciandola lontano...poi con una velocità sconcertante, piantò
la lama al centro del petto dell’uomo davanti a lui.
Si accasciò senza un
lamento, prostrandosi a terra, cercando di estrarre la lancia, ma la vita
scivolò fuori dalle sue labbra in un rantolo
gorgogliante.
La bambina si mosse
terrorizzata, voltandosi su se stessa e correndo lontano...
Lontano dagli occhi vacui del Pope che si era accasciato sul selciato,
lontano dal sangue che si riversava sul lastricato, mescolandosi alla polvere e
alla terra...
Il suo movimento
attrasse l’attenzione dell’uomo sul cavallo che, con un sorriso sinistro,
lanciò il suo destriero all’inseguimento...
Sentiva il rumore
degli zoccoli farsi più vicino e coprire il martellante battito del suo cuore,
poi una mano fredda e ossuta la sollevò da terra, caricandola di traverso sulla
sella...l’odore del sudore del cavallo le riempì le narici...il cuore ora era
solo un macigno che le pesava nel petto, vide il villaggio allontanarsi, mentre
si addentravano nella steppa gialla di siccità, dove i Rom
danzavano accompagnandosi con tamburelli, videro contadini che da lontano si
segnavano il segno della croce, mentre
un’ eco li accompagnava al loro passaggio, un mormorio di terrore,
ricordo di un tiranno sanguinario che accompagnava le notti dei vivi, che
morivano dal terrore che potesse tornare a succhiare loro il sangue:
- Damphyr
§ § §
Il grande maniero di Angel Manhor
sorgeva sull’isolotto nel centro della Baia di San Francisco, circondato da un
immenso giardino a terrazze che degradava verso l’Oceano. La statua dell’angelo
stava sul suo piedistallo imponente e silenziosa, a
guardia di quella casa e dei suoi segreti. Tutto era avvolto nell’oscurità e
nel silenzio, solo le luci provenienti dall’altra parte della Baia
testimoniavano che c’era vita nel mondo. Un mondo ignaro,
perennemente in bilico tra luce e oscurità.
La casa era un’enorme L costruita
sull’asse nord – sud. L’ala adibita agli alloggi di coloro
che abitavano stabilmente ad Angel’ s Manhor
occupava buona parte del primo piano. Il lato più corto della costruzione in
mattoni rossi era occupato invece dagli uffici e dalla grande
biblioteca della fondazione, con migliaia di volumi di demonologia,
stregoneria, vampirologia. Uno di questi uffici aveva la finestra fiocamente illuminata, una giovane donna dai
lunghi capelli scuri, raccolti in una coda di cavallo, era in piedi
davanti a quella finestra.
Anne osservava la neve cadere, lenta, fuori
dalla finestra…mentre un sorriso le increspava le labbra. Le luci della
città in lontananza oltre
La consapevolezza che domani non ci sarebbe stato il sole già la rattristava. Forse era a causa del suo
passato, o forse era solo la sua freddezza proverbiale, che la rendeva
dipendente dal sole: aveva bisogno di vederlo tutti i giorni! Di sentire i suoi
raggi caldi sopra la pelle,
di sperare che -in qualche modo- potessero scaldare il suo animo intorpidito
dal freddo…Posò una mano sul vetro freddo della finestra…non rabbrividì a quel
tocco, perché anche le sue dita erano fredde.
Leyla aveva ragione a dire che
lei e Kaede in fondo erano simili, il loro passato li rendeva freddi e
scostanti ai sentimenti; la differenza era che lui lo era anche con le persone;
lei forse si tratteneva…entrambi, a modo loro, indossavano una maschera per difesa,
per proteggersi dal dolore, troppe volte erano stati colpiti…Si fermò a
riflettere che, in fondo, di Kaede non sapeva nulla, lui aveva dimenticato
tutto il suo passato...
Stancamente si mise a sedere sulla
poltrona del suo ufficio, gli altri erano andati tutti a dormire da ore.
Hanamichi e Kaede erano fuori, in missione da qualche parte nelle foreste
dell’America del Sud. Leyla stava dormendo nella grande
camera, nell’ala opposta della casa; sperò, per lei, che almeno quella notte
gli incubi la lasciassero stare, i rimorsi le stavano divorando il cuore, pezzo
per pezzo. In quanto a lei, ormai erano mesi che dormiva poco o quasi nulla,
non era una insonnia comune o normale la sua, non
c’era nulla che potesse fare per impedirlo o costringersi a dormire. Sin dalla
sua infanzia era stato così…Lei amava la notte; era cresciuta con persone che
le avevano insegnato a farlo…Si passò una mano tra i capelli, mentre guardava,
osservava e pensava,continuando a fissare il gioco di
quei piccoli batuffoli di cotone che cadevano incostanti dal cielo…tra poco
avrebbero formato, tutti insieme, un manto unico…e la loro piccolezza e
fragilità sarebbe stata dimenticata e sarebbe rimasto solo un grosso manto
bianco…e niente rumore. Persino gli uccellini avrebbero esitato a far sentire
le loro voci. Quella neve la riportava alla sua infanzia, quando era felice,
tra le persone che l’avevano allevata, non ricordava nulla della sua vita,
prima di allora, non ricordava il viso o la voce di sua madre, né il calore del
suo abbraccio o la dolcezza delle sue carezze...
Strinse con forza gli occhi, la neve la faceva ricordare e
lei non voleva per niente ricordare! Faceva troppo male, sperava solo che il
freddo, che c’era là fuori, potesse in qualche modo
ritornare dentro di lei e congelare di nuovo quel dolore che sentiva. Che si riformasse in quella spessa coltre di ghiaccio, che
un tempo le circondava il cuore…
Un rumore alle sue spalle fece fermare i suoi pensieri. Voltandosi con la sedia, incontrò lo sguardo
caldo di un ragazzo alto con gli occhi azzurri e i capelli castani chiari, fermo nel centro della stanza, con le braccia incrociate al
petto:
- Che ci fai, qui?- si ritrovò a
chiedere, la voce risuonò per la grossa stanza deserta, mentre si alzava e si
avvicinava a lui, con voce incerta proseguì - Dovresti andare, è pericoloso,
per te, stare qui! Tra un po’, me ne andrò anche io!
Lui sorrise soltanto, senza dire nulla, mentre la mano di lei, lievemente tremante, si alzava ad incontrare il
suo viso, solo per ritrovarsi a fendere l’aria…lui se n’era andato, aveva
seguito il suo consiglio.
Lei strinse gli occhi e i pugni nelle mani…
Quella stava diventando un’ossessione, e lo sapeva.
Doveva smettere, e lo sapeva.
Doveva dimenticare e lo sperava.
Con uno scatto improvviso, si voltò su se stessa e si
diresse ad afferrare il suo cappotto, l’orologio luminoso della sua scrivania
indicava chiaramente le 3:25 a.m.,
prese la sua borsa, col portatile dentro, e spense le luci. Dopo qualche
istante, il rumore del grande portone che si
rinchiudeva risuonò nell’atrio silenzioso.
Finalmente, anche l’ultima luce ad Angel Manhor era stata
spenta. Ora l’edificio, coi suoi grandi misteri e
segreti, riposava come il resto della città.