Fictional Dream © 2007 (13 marzo 2007)
Naruto © 1999 by Masashi Kishimoto/SHUEISHA Inc.
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ai succitati copyright si ritiene intesa.
L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright
dell’autrice (Callie Stephanides - http://fictionaldream.iobloggo.com). Non ne è ammessa
altrove la citazione totale né parziale, a meno che non sia stata autorizzata
dalla stessa tramite permesso scritto.
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L’estate di Konoha era il frinire assordante delle cicale, il
riverbero della pietra sferzata dal sole rovente del primo pomeriggio, il
silenzio riposante di un’ora meridiana, cauterizzata dalla calura. La pelle
chiara di Itachi Uchiha era percorsa da minute, lucide goccioline, che
scivolavano lungo il suo collo elegante solleticandogli leggermente il naso.
Già: perché a Sasuke Uchiha piaceva respirare quell’odore
familiare, dall’alto delle spalle larghe e forti di chi l’avrebbe sempre
protetto.
L’odore di un fratello ch’era anche il più valoroso e forte
dei ninja di Konoha.
Il capo abbandonato contro la sua spalla, Sasuke – le
palpebre socchiuse, la languida indolenza dei bambini che si sentono amati -
spiava un cielo terso e lontano, che pure sognava di poter toccare un giorno con
un semplice gesto. Per un infantile capriccio. Per un amorevole concessione:
perché dall’alto della schiena di Itachi, non esisteva meta che sembrasse
davvero irraggiungibile.
Neppure il cielo.
Ripensare a quei giorni, dieci anni dopo, solleticava
senz’altro il tetro umorismo con cui si trastullava talora il vecchio – e
poco importava se Kabuto avrebbe stretto ancora i denti, socchiuso gli occhi
dietro le lenti e ingiunto sferzante un rispetto che non provava per niente e
nessuno: perché seguire la via di Orochimaru, al più, era stato il mezzo più
rapido e devastante con cui consegnarsi alla terra. E Sasuke lo sapeva: ma non
aveva alcun senso dirsi che gli Uchiha del Fuoco l’avrebbero fissato con
riprovazione e distanza per quella scelta così degradante.
Gli Uchiha erano morti e non esisteva affare più personale
della vendetta. Tutto qui: il resto era una retorica buona a trastullare gli
idealisti ed i perdenti. Non credere a niente, in fin dei conti, era più
conveniente che non vendersi a un’idea: lo sapeva Orochimaru, che aveva gli
occhi di un serpente e forse proprio per questo sapeva cogliere meglio di
chiunque altro la linfa avvelenata di ogni pensiero.
Sasuke si era volto su un fianco, fissando con indolenza il
proprio braccio candido oscillare nel vuoto. Avanti e indietro. Avanti e
indietro. Il chidori era potente, ma non ancora perfetto. Orochimaru era un
maestro più severo di quel che pure aveva sospettato: ma andava bene.
Solo chi ti odia ti svezza.
Era una logica impietosa e tortuosa, ma era esattamente quel
che faceva la vita, perché non si era mai visto un eroe che fosse davvero
felice. Forse a Naruto sarebbe pure riuscito: ma Naruto era troppo stupido
persino per trovare un nome alle cose.
Sasuke aveva chiuso gli occhi e soffiato via quel pensiero
fastidioso, incuneatosi tra le pieghe di una volontà evidentemente troppo
fragile per reclamare la perfezione cui anelava.
Era un viso amico e un sorriso e una promessa allettante: la
stessa con cui Kakashi l’aveva quasi convinto a cedere, ma che era stato
sufficientemente forte da ricusare. Che poi… Era davvero forza?
Il suo orologio interiore gli diceva ch’era il ventitre
luglio. Dunque aveva quattordici anni. A quattordici anni, Itachi dominava già
buona parte delle tecniche che l’avevano reso una leggenda e un assassino: di sé
poteva dire che non era neppure a un terzo del cammino. E ammazzare era
persino noioso.
La tana di Orochimaru somigliava allo spirito che vi
galleggiava implacabile: era il nido di un serpente, nascosto, terragno,
inquietante e insidioso. Era il punto più lontano dal cielo che aveva tentato di
sfiorare quel giorno, ma di cui pure non sentiva affatto la nostalgia.
Probabilmente perché l’ultimo incontro con Itachi l’aveva
precipitato sul fondo di un pozzo dal quale non gli era riuscito di risalire.
Neppure Orochimaru, a ben vedere, poteva aiutarlo: perché
quella lingua di serpente era al più abile a inoculare i dubbi e le insicurezze
peggiori, facendogli rimordere un marchio infernale come se fosse un tizzone
incandescente. E in fondo non era un paragone azzardato: perché quel sigillo era
al contempo un dono e una condanna.
L’esistenza è un succedersi di compromessi, amava
ripetere – la lingua gli sfiorava leggermente le labbra e i suoi occhi
freddissimi e mobili non accompagnavano le parole, ma le guidavano in te, fino a
disgregarti la coscienza.
Orochimaru era una sorgente di motti e crudeltà, in
un’accezione quasi retorica, perché in fin dei conti ti accorgevi del suo potere
solo se lo leggevi per l’endiade che era.
Un nodo gordiano e indissolubile.
Eppure era innegabile possedesse un fascino irresistibile e
ti possedesse, soprattutto: perché l’abbraccio delle sue spire finiva con
il rappresentare un dolore quasi invocato. Sasuke, almeno, sapeva di averlo
scientemente fatto: e se la vergogna e il rimpianto pungevano un po’, poteva
sempre cercare qualcuno da ammazzare, per vedere s’era poi vero quel che
Orochimaru gli aveva sussurrato mille volte.
Il numero santifica, Sasuke Uchiha. Il numero
santifica.
Sdraiato sul proprio letto, immerso in quell’oscurità che
faceva ancor più risaltare il plasma rappreso delle sue iridi maledette, Sasuke
aveva raccolto le ginocchia al petto, ascoltando soltanto, nel tamburellare
inquieto del proprio cuore, la macabra danza della paura, del rimpianto e del
ricordo.
Un giorno avrebbe incontrato qualcuno cui la storia aveva
strappato tutto, finanche le emozioni: qualcuno che pure avrebbe terrorizzato a
morte. Quell’ora non era ancora giunta, ma già si stava preparando, entro un
bozzolo che la tana del Serpente alimentava al solo scopo di mutare la pupa in
un miracolo della devastazione.
Orochimaru era un enigma che non si lasciava leggere mai,
perché ti dava l’impressione d’essere una crudeltà così sfacciata e manifesta da
chiamarsi per nome davanti ai tuoi occhi. Eppure doveva avere una propria
storia, un passato o fantasmi come i suoi, così vivi da lasciarti ancora sulla
pelle l’odore del sangue e della paura.
Orochimaru era un maestro completamente diverso da Kakashi:
negli intenti e nello spirito. Forse era anche il solo meritasse uno come lui.
Uno ch’era sopravvissuto per una scommessa fondata sull’odio.
“Quando ti guardo, Sasuke, non posso fare a meno di pensare a
quanto tu mi somigli.”
Erano trascorsi sette mesi dalla sua defezione, il giorno in
cui Orochimaru l’aveva davvero coinvolto in qualcosa di simile a una
conversazione. Ma non ne aveva avuti i toni, né gli intenti. Nel kimono sempre
leggermente sceso, elegante nella sua semplicità che solo un obi estremamente
complesso arricchiva, il Serpente aveva la grazia di un teatrante: era un attore
consumato ed esperto, che sul palco della vita parlava sempre e solo a se
stesso. Per questo, probabilmente, era un vincente come Sasuke disperava di
essere.
Da quel giorno, in ogni caso, Orochimaru aveva inaugurato la
loro convivenza con l’appassionato recitato di quella ch’era soprattutto la
fosca cronaca delle sue nefandezze: la storia di un’anima storta, che aveva
alimentato se stessa sino ad affilarsi come la katana che custodiva in sé.
Prima di allora, Sasuke non ricordava di aver pronunciato una
sola sillaba: e Orochimaru – le labbra increspate nel suo sorriso obliquo,
enigmatico e disonesto come tutte le trappole – era rimasto a guardare.
Probabilmente coglieva qualcosa di vulnerabile ed esaltante in quel suo bisogno
di chiudersi in uno spazio privato, svuotato di parole e sentimenti. Come uno
scorpione, però, aveva atteso che la misura della sua solitudine fosse colma per
pungerlo ancora con il suo veleno implacabile.
“C’è una strana circolarità nella storia e mi chiedo se
questo non sia l’ennesimo caso.” L’aveva fissato obliquo, prendendo volutamente
le distanze da quel compiacimento non simulato. Non voleva dargli la
soddisfazione del sollievo che nasceva da una voce insperata, quando tutto
taceva nelle profondità di un ego danneggiato e perso.
“Quando avevo la tua età, possedevo il tuo talento e la tua
stessa ambizione. Probabilmente sono il solo che può capirti.”
Sasuke aveva stornato il capo, senza muovere il minimo
assenso: perché la verità profonda di quell’osservazione lo disgustava e
l’inorgogliva al contempo. Così l’inorgogliva la degradazione che gli aveva
permesso di schiacciare Naruto, risparmiandogli la vita con l’arrogante
compiacimento dei vincenti.
“La differenza tra noi due, Sasuke, è nel cuore. Tu ne hai
ancora uno.”
Era seguita una risata bassa e fredda: raggelante. Uno di
quei ghigni con cui sapeva metterti a tacere. O pietrificare. Oppure insegnare
la via per Itachi: la via per un cielo che non era azzurro, ma rosso come il
sangue della vendetta.
“L’ambizione è qualcosa di estremamente naturale. Oserei dire
che solo le bestie non la possiedono.”
Orochimaru gli aveva impartito quella lezione mentre
penzolava, legato mani e piedi, sul ciglio di una pietraia rovente – gli occhi
chiusi, pieni di lacrime esauste e rabbiose. La mascella stretta al punto da
fargli schiumare le labbra come un cane incatenato: immobile e compiaciuto, lui.
Un predatore pregno di un umorismo nero, con cui gli veniva naturale – era
evidente – torturare una preda mediocre.
Sasuke aveva metabolizzato quel motto e replicato con un
risentimento feroce. “Non è vero. Anche Naruto vuole diventare Hokage.” E
Orochimaru aveva riso, prima di menargli un colpo secco contro le reni.
“Avevi poco fiato e l’hai usato male, bambino. È
perché la bestia dorme ancora. Il giorno in cui si sveglierà del tutto, quel che
vorrà sarà la fine di Konoha, non il suo supremo seggio.”
Sasuke aveva inghiottito quell’ennesima stoccata, senza
muovere un solo muscolo.
“Esistono due ambizioni, Sasuke. Due com’è doppio tutto
quello che la natura ha creato. Senz’altro sei il primo ad averne avuta
esperienza, perché non sei un bambino. C’è l’ambizione dei deboli. Un’ambizione
piccina, limitata come i loro disegni. Parlano di felicità, di affetto, di
amicizia. Parlano di legami. Hai capito cosa intendo?”
Sasuke aveva deglutito pietosamente, ricacciando indietro
quei mille aghi che pungevano sotto le ciglia: aghi liquidi, che bruciavano da
impazzire. Aghi che avevano un nome, una voce, un richiamo.
Erano le parole di Naruto: le stesse che gli aveva urlato
senza filtri e senza pudore.
“È vero che sono sempre stato solo. È vero che non posso
capire quello che provi, ma proprio perché tu sei il mio legame, io non posso
perderti.”
Stupido sentimentale: aveva avuto la fortuna di nascere
libero da patetici vincoli e se n’era costruito uno dannoso e inutile.
“È un’ambizione meschina, che non spinge davvero a
migliorare, perché è fatta di traguardi facili, persino scontati. Se sorridi, ti
ameranno. È una legge di natura. Tu sei nato bello e dotato, Sasuke. Scommetto
che non hai mai dovuto lottare per conquistare nulla. Te l’hanno sempre
concesso. Gli Uchiha sono fortunati.”
La scarica del chidori l’aveva percorso con una tale
intensità da fargli temere d’essere andato in pezzi. Del tutto. Su quella
corda tesa sull’abisso e sull’indifferenza, una sorgente di potere inesausto
l’aveva attraversato, senza procurargli il minimo sollievo.
“E poi esiste l’ambizione degli eroi. L’ambizione dei veri
guerrieri. O quella del dio, se preferisci. Non c’è bisogno di guardare in cielo
come postulanti, se il miracolo è nella volontà di ciascuno. Anche nella tua.”
Sasuke aveva desiderato con tutto se stesso che la coscienza l’abbandonasse:
così avrebbe smesso di ascoltare e di soffrire, fissando quel cielo lontano che
l’irrideva con il miraggio di un’eccellenza mancata, di un’ambizione tradita e
consumata.
Un cielo che si apriva come lo sguardo pieno di amicizia e
tenerezza di Naruto sul pozzo nero in cui era affogata la sua identità.
“Questa è l’ambizione di tuo fratello Itachi. Un desiderio
che non si lascia controllare, né ingabbiare da falsi valori. Perché la
grandezza, Sasuke, importa una sola rinuncia.”
Orochimaru l’aveva fissato più intensamente ancora. I suoi
occhi di rettile brillavano su un volto spigoloso e candido come quello di una
maschera tragica.
“Quella di essere un uomo. Con tutti i limiti che questo
importa. Con tutti i legami che ciò importa. Tuo fratello l’ha capito ed è
diventato il più forte. Non solo: ti ha indicato una via da percorrere. Una
premura interessante, non ti pare?”
Orochimaru rideva, mentre spasmi successivi laceravano Sasuke
Uchiha e diventavano ancora odio. Un’ansia divorante di devastazione e silenzio
e dimenticanza.
Le parole di Orochimaru colavano invece collose come cera
fusa su una ferita suppurante. Lo attraversavano e poi incancrenivano, assieme
al desiderio di alzare la testa e toccare davvero il cielo: il cielo di
sangue di Itachi, per affondarvi fino al gomito.
“Il tuo limite, Sasuke, è che non puoi fare a meno di
guardarti alle spalle.”
Un monito recente, questo: scoccato al termine dell’ultima
sessione di allenamento. Sasuke l’aveva accarezzato in sé, concentrato e teso.
Una tagliola pronta a scattare, ma una tagliola scheggiata, usurata da
sentimenti che la rendevano solo più innocua e più lenta.
“Pensi troppo ad Itachi. E pensi troppo a Naruto. Anche se
hai un obbiettivo, non devi permettergli di avere ragione di te. Se io mi fossi
concentrato solo sul desiderio di essere Hokage, non avrei elaborato un sistema
di difesa, di attacco, di rigenerazione perpetua come quello su cui si fonda il
mio potere.
Un guerriero deve conoscere mille trame, come un buon
cantastorie. E come un buon cantastorie, deve saper variare e inventare. Se ti
affidi unicamente alla memoria del tuo sangue, tu soccomberai, perché non ti
troverai davanti il solo Itachi: ma tuo fratello e il suo fantasma.”
Era la verità. Era quel che sentiva sulla pelle in ogni
istante, perdendosi nei dettagli del rimpianto e mancando l’unico punto di fuga
essenziale: il cuore del problema. Il cuore che avrebbe dovuto strappare.
Per questo, appostato come un ragno nelle profondità
dimenticate della tana del Serpente, Sasuke lascia vagare con pigra indolenza i
suoi occhi da assassino: gli stessi davanti ai quali anche la Volpe della
leggenda china il proprio capo, ma senza il consenso del jinchuuriki con gli
occhi che ricordano un cielo perduto.