Ma, tempo dopo aver ricevuto quella telefonata, mi resi conto che probabilmente qualcosa di simile esisteva.
Voleva vederli
vincere il Christmas Bowl, a tutti i costi.
Eyeshield 21,
ovvero Sena Kobayakawa, era infinitamente migliorato durante la Death March
fino a Las Vegas, in tutto: come mentalità, come maturità, come velocità e come
resistenza. Aveva un talento innato, le sue erano gambe d’oro. Rispetto agli
altri componenti della squadra, era decisamente superiore, sebbene sia Monta
che Kurita fossero entrambi talentuosi. Sena aveva bisogno di qualcuno che lo
seguisse da vicino, prima di tutto perché lui, Doburoku, non era in grado di
corrergli a fianco a quella velocità; secondo, perché il suo talento andava
coltivato. Quel ragazzo poteva andare lontano, diventare un professionista
serio e poteva ambire a gradi vittorie.
Hiruma, il
quarterback, non era in grado di poterlo allenare da vicino, poiché doveva
seguire il resto della squadra e sé stesso in primo luogo; Anezaki era la
manager, e non era adatta a prendere le redini della questione.
Con la fronte
aggrottata, fece un gesto per chiamare Hiruma.
- Che c’è,
vecchiaccio di merda?- gli urlò da lontano il biondo quarterback posando su una
panchina la propria mitragliatrice.
- Ho bisogno di
parlarti di una cosa.- rispose serio Doburoku, lo sguardo concentrato fisso sul
campo.
- Sbrigati
vecchiaccio, devo far fare ancora ai nanerottoli venti giri del campo.
Doburoku, pacato,
sorseggiando il sake tra una pausa e l’altra, gli espose in sintesi le sue
preoccupazioni e le sue idee. Hiruma, le mani sui fianchi, diventò serio e il
suo sguardo si fece pensieroso.
- E chi pensi
possa seguire quel marmocchio, vecchiaccio? Non siamo una squadra come l’ Ojo.
Non abbiamo dei sostituti validi né tantomeno qualcuno che possa seguire Eyeshield
senza essere pagato. Posso fare quello che vuoi per i fondi del club, ma non mi
va di sprecare soldi per qualcuno che non conosco e che potrebbe rivelarsi un
fesso.- sentenziò alla fine con fare sprezzante.
- Non ci sono
delle conoscenze, che ne so, qualcuno che in passato era in squadra?- suggerì
Doburoku bevendo sake.
- Musashi è tutto
preso dal suo lavoro di muratore e dal padre. E poi se tornasse in squadra
sarebbe il kicker che ci manca, idiota.
Calò il silenzio,
ed entrambi rimasero assorti dai loro pensieri. Hiruma puliva il proprio fucile
con dei gesti ormai dettati dall’abitudine, Doburoku si grattava la nuca con
una smorfia in viso.
Fu un istante.
Alzarono entrambi lo sguardo, chi con un ghigno in volto, chi con un sorriso a
trentadue denti.
Erano arrivati
alla stessa soluzione.
Quando si pensa
al Giappone, vengono subito in mente le gradi megalopoli quali Tokyo o Osaka,
la tecnologia, il Monte Fuji, gli anime, i manga, e niente di più.
Dopotutto, il
turismo è concentrato soprattutto in quegli ambiti.
Mio padre, figlio
di impiegati, aveva deciso di rompere la tradizione di famiglia, ed era
scappato di casa, aprendo una piccolissima ferramenta in un paesino sperduto
dell’ Hokkaido, circondato solo ed esclusivamente da prati. Poi aveva
incontrato mia madre ed infine aveva avuto me, Chizuru.
Essendo molto
legata alla mia famiglia e poco propensa alla socializzazione, alle elementari
non feci amicizia con quasi nessuno. Eravamo una classe di circa quindici
bambini in tutto -nel senso che eravamo quindici bambini in tutta la scuola-, a
livelli diversi di conoscenza e di età diverse. La maestra ci seguiva tutti,
mettendoci a gruppi a seconda delle età, organizzandosi le spiegazioni come
riusciva.
Passavamo tutta
la mattina e metà del pomeriggio a scuola, dopodichè tornavamo a giocare o ad
aiutare i nostri genitori nei campi. Non era il mio caso, dato che mio padre
possedeva una ferramenta, ma mi piaceva saltellare per i campi, raccogliere
fiori e poi portarli a mia madre, aspettando felice una carezza sui capelli.
Insomma, ero una
bambina molto semplice, per niente amante della violenza, taciturna e a tratti
ambigua per i miei compagni. Avevo infatti una sorta di mania per la corsa,
correvo per i prati anche per delle ore, senza stancarmi mai. Mi dava sollievo,
era la mia unica valvola di serio sfogo.
Un bambino molto
simile a me, in un certo senso, era un tal Yoichi, un bambino smilzo, con i
capelli neri costantemente spettinati, un ghigno diabolico stampato sul volto e
orecchie a punta, il quale possedeva un’intelligenza e una furbizia fuori dalla
norma. Era il classico bambino sempre in punizione, che ne combinava di tutti i
colori e che incitava alla ribellione. Per quanto ne sapevamo noi, viveva col padre,
un ricco giocatore di scacchi- o almeno, pareva- che possedeva un appartamento
appena fuori dal paese, il quale, tuttavia, non era quasi mai in casa. Di sua
madre non avevamo notizie, e lui non parlava mai se non interpellato. Passava
le ore chino sul banco a fare schizzi di schemi e robe che io non capivo, oltre
a disegni di armi e di pistole che di certo non rendevano felice la maestra;
l’alternativa agli schizzi erano le classiche puntine da disegno messe sulle
sedie dei compagni.
Non aveva amici.
Era troppo violento e aggressivo, non rispondeva mai bene e la gentilezza non
era la sua prerogativa di vita. Gli altri della classe lo evitavano più che
potevano, e parecchie volte aveva ricevuto delle lamentele da parte dei
genitori degli altri compagni.
In sintesi, era
una vera peste. Ma non era casinista, ed era questo ciò che inquietava.
Un giorno,
capitai casualmente come sua vicina di banco. Il vecchio vicino aveva
costantemente dei cerotti sul sedere a causa delle puntine, e mi lasciò il
posto con estremo sollievo. Io ero terrorizzata. Mi ricordo che non mi salutò
neanche, continuando tranquillamente i suoi diabolici schizzi e senza degnare
di uno sguardo gli esercizi di matematica che la maestra ci aveva assegnato.
Tutto ad un tratto, si voltò verso di me di scatto, un enorme ghigno sul volto
che gli andava da un’orecchia all’altra.
- Hei tu!- mi
disse, sghignazzando- Hai delle puntine da disegno? Le ho finite tutte con il
vecchio compagno.
Quello fu il mio
primo, inquietante incontro con Hiruma Yoichi.
Avrei potuto
benissimo andare dalla maestra a piagnucolare come qualsiasi altro bambino sano
di mente, ma no, mi dicevo che se l’avessi fatto gliel’avrei solo data vinta.
Non parlavamo,
sentivo che lui borbottava qualcosa durante le lezioni ma niente di più; ogni
tanto lo sorprendevo a disegnare le sue amate pistole accompagnandosi con dei
“BAAANG!”, ma in quei momenti era talmente preso da quello che stava facendo
che tendeva ad escludere totalmente il mondo esterno. Non che gliene importasse
molto, degli altri, dopotutto.
Dopo settimane e
settimane di continui appostamenti di puntine sulla mia sedia, decisi che ne
avevo abbastanza. Non vedendo altro modo se non rispondere con le sue stesse
armi, il giorno seguente gli misi io le puntine sulla sedia. Ero impassibile,
ma dentro di me ghignavo come se fosse stata la prima volta che facevo una
marachella. Lui arrivò al banco, si fermò, guardò la sedia e rimase un po’
interdetto. Io feci una smorfia, delusa dal fatto che lui non ci fosse cascato,
ma lui invece di dirmi qualcosa e mandarmi a quel paese mi rivolse uno dei suoi
soliti sorrisi demoniaci e mi restituì le puntine.
Durante quel
semplice scambio di scherzi, facemmo amicizia. Lui si rese conto probabilmente
che ero una delle poche che aveva osato provocarlo, e io mi dissi che potevo
anche fare amicizia con qualcuno. In effetti Yoichi mi faceva un po’ pena: era
sempre da solo, e suo padre non veniva mai a prenderlo fuori da scuola.
Il primo discorso
serio che facemmo fu a proposito delle armi che disegnava. Mio padre teneva dei
fucili in casa- ovviamente non caricati- e possedevamo qualche manuale di armi
a cui io avevo dato una sfogliata qualche volta, non avendo niente di meglio da
fare. Avevo una buona memoria visiva al tempo, e riuscivo un po’ ad abbinare le
immagini ai nomi.
Sembra strano che
due bambini di appena dieci anni possano fare amicizia per una cosa come le
armi, e invece per me e Yoichi fu così, e non riesco ad immaginarmi un altro
modo in cui noi potessimo diventare amici.
Ovviamente
continuò a farmi scherzi su scherzi, a volte anche davvero diabolici, e non si
risparmiava per niente le battutacce e l’assenza totale di gentilezza nei miei
confronti; tuttavia, prendemmo l’abitudine di andare dopo la scuola nei prati
insieme. Lui non mi calcolava molto, non era abituato a stare in compagnia, e
correva per i campi fingendo di essere in mezzo ad una delle sue fantasie. Beh,
fantasie. Si trattavano di giochi in cui lui assediava qualsivoglia collinetta
di terra, gare a chi era più veloce o a chi si arrampicava prima sull’albero,
oltre a varie incursioni nei meleti dei vicini a rubare la frutta.
Non mi portò mai
a casa sua, ma approfittò più volte dell’ospitalità di mio padre, ovviamente
per fini quali vedere e toccare da vicino i suoi fucili. Un pomeriggio, mentre
eravamo in un campo sotto illuminato dal caldo sole estivo, incominciò a
raccontare confusamente della sua famiglia, di suo padre, del disprezzo e della
rabbia repressa che provava nei suoi confronti. Io gli chiesi di sua madre; lui
si zittì per un momento, poi ringhiò a voce bassa, fissandosi i piedi, che era
scappata con un altro uomo quando lui aveva all’incirca quattro anni. Rimasi
sconvolta. Ero così abituata a vedere la mia famiglia felice, che per me,
bambina di dieci anni, era quasi impossibile pensare ad una cosa del genere.
Era un bambino
forte, non pianse né diede segni di cedimento. Mi guardò, mi ringhiò di non
dirlo a nessuno, si voltò dandomi le spalle e, le mani ficcate a fondo nelle
tasche dei pantaloncini, prese a calciare un sassolino sulla strada. Rifiutò
con un gesto brusco la mia mano sulla sua spalla, e andò a casa sua senza dire
una parola.
Circa un mese dopo,
saltò la scuola. Una mio compagno l’aveva visto uscire di casa, ma non era
entrato in classe. Chiamarono il padre, ma era irrangiungibile.
Uscita da scuola,
sentii un “Hei!Psst! Chizuru! Idiota, voltati!”, mi girai e lo scorsi nascosto
dietro ad un muretto, con un ghigno enorme stampato in volto. Era euforico da
far paura, sprizzava entusiasmo da tutti i pori. Mi avvicinai di soppiatto a
lui e gli chiesi perché diamine non era venuto a scuola, che tutti erano
preoccupati per lui e che pensavano fosse scappato. Lui mandò a quel paese
tutti e mi incitò a seguirlo. Durante il viaggio, mi raccontò che era entrato
nella base militare americana vicina al nostro paese, e che aveva scoperto uno
sport fantastico, “stra-figo”, assolutamente incredibile, e che voleva farmelo
vedere.
Mi spinse di
forza in un buco che aveva praticato lui precedentemente nella rete che
circondava la base militare – io non volevo entrarci, continuavo a ripetere che
era troppo pericoloso- ma lui a forza di spintoni mi buttò di peso dentro,
sghignazzando come un ossesso. Mi ritrovai ai bordi di un campo enorme, dove
uomini dalla stazza enorme si spintonavano, sudati, passandosi una palla
ellittica con dei lacci sui lati.
Era violenza allo
stato puro, ma era stranamente affascinante. Mentre li guardavo a bocca aperta,
lui mi illustrava in termini tecnici cosa stavano facendo, mostrandomi un
manuale di “Football Americano”, uno sport a me ignoto prima di quel momento.
Io però non lo ascoltavo. Ero tutta presa da un tizio di una delle due squadre
che correva come un fulmine verso l’altra metà campo, la palla stretta contro
il petto. Correva come un dannato, ma sembrava divertito al massimo. Mi
rispecchiai in lui, rivendendo me stessa e i lunghi pomeriggi prima di
conoscere Yoichi a correre nei prati, raccogliendo i fiori per mia madre. Il
cuore mi batteva a mille.
Prima che me ne
rendessi conto, un uomo enorme ci oscurò con la sua ombra, e prese Yoichi per
la maglietta, sollevandolo a cinquanta centimetri da terra. L’euforia si
trasformò nel giro di due secondi in terrore allo stato puro, ma il ragazzino
non fece una piega. Si scambiarono qualche battuta tagliente, poi Yoichi gli
sussurrò qualcosa all’orecchio; l’uomo avvampo’ di botto, sbraitò contro i
bambini ficcanaso delle ultime generazioni, e ci disse di portare le nostre
chiappe fuori da quella base. Terrorizzata, tirai per una manica il mio amico e
gli dissi di andarcene, che io avevo paura e che me ne volevo andare al più
presto da lì. Lui sbuffò, spazientito, e acconsentì a malavoglia, imprecando
sonoramente. Corremmo per un po’ senza fermarci, per poi sederci sotto un
albero.
Mi ringhiò contro
che non avevo capito niente di quello che avevo visto e che saremmo potuti
benissimo rimanere lì ancora un po’, e io, invece che stare zitta e incassare
come facevo di solito, gli risposi a tono. Prima che lui potesse replicare, gli
raccontai incespicando sulle parole per l’emozione che cosa avevo provato
vedendo quell’uomo correre con la palla in mano, concludendo infine con una
decisa richiesta di insegnarmi a giocarci. Il suo volto si illuminò di colpo,
rise sonoramente e tirò fuori dallo zaino la palla ellittica che avevo visto
prima. La fissammo entrambi come se fosse stato oro, poi iniziammo a giocarci.
E da lì in poi,
non ci fermammo più. Passavamo ore a lanciarci quella palla- lui era
particolarmente bravo nei lanci- e ad esercitarci con i blocchi. Come forza ero
nettamente inferiore a lui, ma ero decisa a non demordere. Il mio animo, in
fondo, era quello di un maschiaccio, e piano piano scoprii che l’orgoglio era
una cosa fondamentale da proteggere. La forza fisica non era il mio forte, ma
Yoichi non era neanche lontanamente paragonabile a me come velocità.
Diceva che un
giorno, nella sua vita, avrebbe fondato un club di football americano, e che
sarebbe sicuramente entrato nella NFL. Una volta ammise che era un peccato che
non ci sarei potuta essere io in squadra con lui, dato che il football
americano non era cosa consentita alle femmine, e quello fu l’unico accenno di
una vaga gentilezza che ebbi da lui nel giro di un anno.
Dato che era
un’irreparabile cretino, seppi che si era recato più volte all’interno della
base militare americana dopo che mi ci aveva portato, e che era riuscito a fare
una sorta di “amicizia” con i componenti delle due squadre. Aveva imparato a
giocare a poker e, grazie alla sua innata intelligenza, aveva vinto parecchi
dollari grazie alle vincite. Non ci faceva niente con tutti quei soldi, la sua
era una pura voglia di assaporare la vittoria e di godersi la gloria. Uomini.
Mi propose più volte di andare insieme a lui, ma mi rifiutai di rimettere piede
là dentro. Avevo una paura bestiale di quel colosso che lo aveva tirato su per
la maglietta.
Le cose a casa
mia andavano abbastanza bene, finchè mia madre non si ammalò. Era sempre stata
cagionevole di salute, ma aveva avuto un improvviso calo delle difese
immunitarie e aveva preso una malattia abbastanza grave. C’era assolutamente
urgenza di ricoverarla in una clinica specializzata, ma nell’Hokkaido non era
presente niente di simile.
Decidemmo, dopo
giorni e giorni di silenziosa preoccupazione, di trasferirci temporaneamente
nel Kanto, a Tokyo, dai genitori di mio padre, in modo che mia madre potesse
essere curata. Ciò voleva dire lasciare la mia casa e tutte le abitudini che
possedevo. Oltretutto, avrei dovuto lasciare il mio primo e unico amico, Yoichi
Hiruma che, per quanto diabolico, insensibile e cattivo bambino quale era, mi
aveva accettata e mi aveva resa felice, in un certo senso. Oltre ovviamente
alla mia unica possibilità di praticare il football americano.
Un pomeriggio,
tra un lancio e l’altro, lo dissi a Yoichi. Lui si fermò, spalancò gli occhi e
improvvisamente si fece serio. Mi guardò con una tristezza infinita. Lo stavo
abbandonando anche io. Non mi disse niente, prese la palla e se tornò a casa,
la fronte aggrottata.
Il giorno
seguente, nell’intervallo, mi informò che anche lui si sarebbe trasferito a
Tokyo, a causa di suo padre, con cui aveva parlato. Avrebbe frequentato le
medie e il liceo lì, e avrebbe lasciato una volta per tutte il suo paese
d’origine. Io ero quasi commossa. Non mi sembrava vero, il mio unico amico si
trasferiva con me! Avremmo potuto giocare di nuovo insieme!
Non fu proprio
così, tuttavia. La megalopoli non possedeva gli spazi aperti che avevamo in
campagna, e non ci permise di continuare la nostra tradizione dei pomeriggi
passati ad allenarci. Non abitavamo molto distanti, e il nostro solito punto di
incontro era davanti alla clinica dove mia madre era ricoverata, esattamente a
metà strada tra le due abitazioni. Suo padre ovviamente non mantenne la
promessa di vivere con lui, e lo lasciò a qualcosa di molto simile
all’autogestione. Yoichi si tinse i capelli di biondo e prese a pettinarseli in
maniera un po’ punk, utilizzando molto più gel di qualsiasi altro alternativo
in Tokyo; era una sorta di gesto di ribellione verso suo padre, io la pensavo
così. Ci iscrivemmo entrambi alla stessa scuola media, la Mao, una scuola
mediocre ma che possedeva un campo da football americano.
Nel giro di due
mesi, eravamo cambiati moltissimo. Lui era cresciuto molto in altezza –mi
superava di un bel po’-, io avevo assunto una sorta di espressione perennemente
indifferente. Ero pallida come un morto –non che si notasse molto, data la mia
carnagione già rasente all’albinismo-, e avevo tagliato i capelli neri già
corti ancora più corti. Non li pettinavo, e il tutto abbinato alla mia
abitudine di portare abiti e felpe larghe, la maggior parte smesse da un mio
cugino, mi conferiva un’aria un po’ strana e inquietante agli occhi della
gente. Non stavo bene a causa dei continui peggioramenti di salute di mia
madre, e il mio animo ne risentiva.
Accostata ad uno
come Yoichi, quando camminavamo fianco a fianco la mattina per andare a scuola,
sembravamo due appena evasi di prigione. Non era bello, ma non ci facevo molto
caso; a Hiruma invece la cosa piaceva parecchio, e aveva preso l’abitudine di
segnarsi qualsiasi pettegolezzo su un’agendina che aveva intitolato “Agendina
dei ricatti”, e che tirava fuori con un movimento fluido all’occasione. In
poche settimane, aveva fatto una scheda su ogni studente della Mao, comprese le
foto compromettenti di ognuno. Scoprii con sollievo che io non ero tra quelle
schede, e ne fui felice.
Per puro caso,
conoscemmo un ragazzo di nome Kurita, un bestione di 120kg per 170 centimetri
di altezza, patito del football americano e paradossalmente buono come il pane.
Era ingenuo, semplice e gentile, l’esatto contrario di Yoichi. Urlò con le
lacrime agli occhi che il suo più grande sogno era quello di riuscire a fondare
una squadra di football americano, e improvvisamente Hiruma si fece
interessato. Scoprì tramite uno dei suoi “sottoposti” che Kurita era un
blocker eccezionale, data la sua stazza
e la sua forza.
Un caldo giorno
di Ottobre, Yoichi tornò alla base militare, senza dirmi niente. Voleva
scommettere i propri soldi su una delle due squadre. Purtroppo, puntò sulla
squadra sbagliata: il quarterback e un blocker
erano stati colti da un malessere e non potevano giocare. Sicuramente
avrebbe perso tutti i suoi soldi, se Kurita non l’avesse seguito di nascosto.
Decisero così che Hiruma avrebbe preso il posto del quarterbak e Kurita del
blocker, giocando al loro posto.
Persero comunque,
ritornarono a casa pesti e Yoichi fu costretto a dare tutti i suoi soldi alla
squadra vincitrice, ma quella partita persa fece scattare qualcosa nel ragazzo.
Così, decise di metter su una squadra, al fine di vincere il Christmas Bowl e
di vendicarsi di quella penosa partita.
Ci allenavamo
tutti i pomeriggi dopo la scuola, anche se io ero solo di figura. Yoichi decise
di fare il quarterback e di prendere il comando della squadra, mentre Kurita
sarebbe stato uno dei blocker - e anche
l’unico – e io il running back, data la mia velocità che ormai sfiorava il
record liceale.
Per un altro puro
caso, incontrammo un tal Gen Takekura, soprannominato da tutti Musashi data la
sua somiglianza con il famoso samurai, un genio dei calci. Lo scoprì Hiruma e,
dopo una serie di ricatti non riusciti, Musashi decise di unirsi a noi di sua
spontanea volontà. Era molto gentile e schietto, soprattutto nei miei
confronti, e mi disse che era figlio di muratori, e che la forza nei muscoli
era una cosa di famiglia.
Ero felice. Avevo
due nuovi amici, e ce la spassavamo alla grande. Spesso dopo gli allenamenti
andavamo insieme a bere qualcosa, ed erano momenti pieni di calore. Non di
certo da parte di Yoichi, perennemente sul chi va là e pronto a qualsiasi
diavoleria gli passasse per la testa, ma Kurita era davvero un pezzo di pane, e
si entusiasmava per qualsiasi cosa. Bastava che avesse un po’ di gente intorno
perché si rallegrasse all’improvviso.
Verso la fine
dell’anno scolastico, mia madre morì. I medici non riuscirono a salvarla.
Quando le cose sembravano quasi per essersi messe a posto, si prese una febbre
altissima e si spense nel giro di una notte.
Fu una brutta
botta, sia per me che per mio padre. Passammo giorni chiusi in casa a cercare
di non far vedere all’altro il proprio dolore, non capacitandoci dell’assenza
della presenza di mamma. Tutto ci ricordava lei, e non riuscivo a entrare in
cucina senza ricordare il suo sorriso gentile e la sua risata delicata. Non
dormivo e non mangiavo, non riuscivo a fare altro se non rimanere nella mia
stanza con le ginocchia strette al petto.
Gen, Kurita e
Yoichi seppero la notizia tramite la segreteria della scuola, io non riuscii a
contattarli per dirglielo.
Una sera, il
telefono di casa squillò. Guardai il numero e vidi che non era registrato nella
rubrica telefonica. Alzai la cornetta e con voce gracchiante risposi con un
quasi impercettibile “Pronto..?”
- Chizuru, sei
tu…?
Era Yoichi, e nel
sottofondo si sentiva Kurita che lo implorava di essere gentile.
Il ragazzo zittì
lui e Gen- che sicuramente era lì, perché si percepivano i suoi sbuffi- e
ritornò alla cornetta.
- Hei, ci sei?
- … Sì.
- Io, Gen e
Kurita passiamo a casa tua.- disse, un misto tra un mormorio confuso e un
sospiro.
Non era
evidentemente in grado di chiedere il permesso, per lui tutto era ovvio. Ma apprezzavo
il gesto e soprattutto non avevo la forza di rispondergli a tono.
- Mio padre non
c’è, Yoichi, e lo sai, brutto idiota, che i fucili sono ancora nell’Hokkaido.-
risposi io seccamente, senza pensarci.
- Cret… Chizuru,
Kurita e quel vecchiaccio di Musashi desiderano vederti. Quei fucili ormai non
sono più in uso.
Era il suo modo
di dire che anche lui voleva passare da casa mia.
- Okay.- risposi,
e chiusi la chiamata.
Neanche due
minuti dopo, suonarono alla porta. Ah, quel Yoichi. Era già appostato sotto
casa mia, e non si aspettava di certo un rifiuto. Il solito bastardo.
Andai io ad
aprire dato che mio padre era uscito per delle commissioni, e mi ritrovai prima
di poter proferire parola tra le braccia morbide di un Kurita in lacrime.
Rimasi un attimo
interdetta, poi lo abbracciai, mordendomi le labbra per non scoppiare a mia
volta in lacrime. Quando si decise a mollare la sua presa ferrea, potei
guardare in volto gli altri due, ma abbassai subito lo sguardo sui miei piedi,
ficcando i pugni stretti a fondo nelle tasche della felpa. Musashi aveva
un’espressione assolutamente abbattuta in volto, ma quella di Yoichi era …
serietà, confusione, tristezza –dopotutto aveva conosciuto anche lui mia madre,
e per un certo periodo lei si era anche presa cura di lui, dato che
quest’ultimo non la possedeva-, più un accenno al solito ghigno che non
riusciva a togliersi dal volto per motivi principalmente di orgoglio. Musashi
mi abbracciò, un abbraccio veloce ma profondo, carico di significato. Non mi
aspettavo niente da Yoichi, ma con mia estrema sorpresa sentii le sue mani
ossute e forzute afferrarmi le braccia; fui costretta ad alzare lo sguardo, e
incontrai i suoi occhi azzurri, serissimi.
- Cazzo, Chizuru,
riprenditi. Guarda in che stato pietoso s’è ridotto quel vecchiaccio di merda
di Musashi.
Lo fissai, seria,
poi scoppiai a ridere. Lui, confuso, mi lasciò andare, indietreggiando
leggermente e guardandomi come se fossi stata una pazza furiosa.
Io continuai a
ridere, presto seguita da Musashi e da Kurita, che rifilò una sonora pacca
sulla schiena ad un Yoichi abbastanza sconvolto.
Dopo la morte di
mia madre, io e mio padre decidemmo di tornare nell’Hokkaido. Stare a Tokyo non
aveva senso, e non ci piaceva moltissimo l’aria di città. Così, alla fine dell’anno
scolastico, ci trasferimmo di nuovo nel mio paese natio.
Lo dissi a
Yoichi, Musahi e Kurita durante l’ultimo allenamento. Se l’avessi fatto
presente prima, Kurita di sicuro avrebbe sofferto di più. Ovviamente Yoichi
sapeva già tutto il giorno dopo aver deciso con mio padre di trasferirci, non
ho la più pallida idea di come. Kurita, depressissimo, aveva organizzato
all’ultimo una cena d’addio a casa sua, e ci eravamo riuniti tutti lì.
Non fu per niente
commuovente o entusiasmante, a mio parere.
Kurita aveva
preparato tutto in maniera perfetta, mangiammo bene e ci facemmo compagnia, ma
né Musashi né Yoichi spiccicavano parola. Erano entrambi seri, e rispondevano a
monosillabi, io già di mio non parlavo moltissimo, e Kurita cercava di fare
qualcosa che ravvivasse l’atmosfera. Era strano: quando andavamo fuori a bere
dopo gli allenamenti –il tutto grazie a Musashi, che dimostrava almeno dieci
anni in più di quelli che aveva realmente- eravamo rilassati, chiacchieravamo
tranquilli sulle nuove tattiche con in sottofondo i ghigni di Hiruma. Quella
sera, invece, sembravamo totalmente estranei. Quattro perfetti sconosciuti
radunati intorno ad un tavolo.
Non potendo più
sopportare quella situazione, inventai una scusa e dissi a Ryokan che dovevo
andare. Lo ringraziai di tutto cuore e gli dissi che quando voleva poteva
venire a casa mia senza farsi problemi, lui scoppiò in lacrime e mi abbracciò
singhiozzando. Musashi rise e mi strinse la spalla sorridendomi, salutandomi
calorosamente. Yoichi mi lanciò una lattina di birra scadente, ghignò un
“Arrivederci” e mi sfoderò il suo solito sorriso beffardo.
E con
quell’ultimo saluto, me ne andai da Tokyo, ritornando ai miei amati campi e al
clima freddo dell’Hokkaido.
Seppi che durante
il terzo anno delle medie Musashi aveva lasciato il club e la scuola a causa
del padre, che era stato ricoverato d’urgenza in ospedale. Incominciai a
chiamarlo più spesso per dargli il mio supporto morale; mi sembrava di rivivere
il periodo in cui mia madre era in clinica.