Questa storia non avrebbe
mai dovuto neppure vedere la luce. Questo perché, sebbene io ora ami
Michael Jackson fino alla follia, non è da molto tempo che mi sono
appassionata alla sua carriera – e vi assicuro che non c’è
bisogno che mi diate addosso, perché la cosa mi fa già stare male
di mio. Mi sono detta più volte che tutti gli anni passati senza aver
mai ascoltato una sua canzone al di là di Thriller sono stati anni persi. Ma va bè,
non era questo che volevo dirvi.
La mia poco longeva
dimestichezza con questo cantante incredibile mi frenava dallo scrivere
qualcosa su di lui. Ecco perché dico che questa fanfic
non avrebbe mai dovuto essere il realizzarsi di un progetto, e che appunto un
progetto sarebbe dovuta rimanere.
Poi però c’è
stato qualcosa che mi ha fatto cambiare idea. O meglio, qualcuno.
La mia amica Tatiana, fan
di lunga data di Michael Jackson e mia ispiratrice per questa storia, mi ha
detto che soltanto perché ci siamo accorti troppo tardi della bellezza
di un fiore questo non deve fermarci dal coglierlo. Che se ascoltiamo una
canzone dopo più di vent’anni che è stata incisa e ce ne
innamoriamo soltanto allora, tanto meglio, perché il tempo passato non
avrà fatto altro che accrescere il suo valore alle nostre orecchie. E mi
ha convinto a scrivere su Michael anche se sapevo e so tuttora piuttosto poco
di lui, di certo meno di quanto possa sapere una persona come lei che nella sua
musica ha avuto la fortuna di crescerci fin da quando era bambina.
Tati, questa è per Michael, per la
tua omonima ed anche per te: perché so che tu la leggerai. <3
In questa fanfic ho voluto ripercorrere a grandi linee la storia della
ragazza del videoclip The way you make me feel
nel periodo in cui conobbe il futuro Re del Pop. Pertanto, la maggior parte degli
avvenimenti narrati sono accaduti davvero. Si tratta di episodi raccontati in
pubblico da lei stessa, facilmente rintracciabili in rete.
Tutto il resto – il
carattere della protagonista, le digressioni sulla sua infanzia e simili –
è what if e/o
licenza poetica.
1
Enjoy that simple
dance
~ Do you remember how it all began?
Cinque, sei, sette, otto.
La
musica riempì la sala in cui trentacinque ballerine erano pronte a
sfidarsi, lanciandosi sguardi risoluti e fieri per mezzo delle pareti a specchio,
senza disdegnare di mettere anche un filo di veleno nelle proprie espressioni.
Io ero tra loro, eppure mi sentivo lontana mille miglia da quel senso di
rivalità. Sentivo il cuore in gola, la testa pesante per via di tutti i
pensieri sconnessi che la abitavano da qualche ora o forse qualche
settimana o forse qualche secolo; sentivo le gambe molli e il viso accaldato
– ma poi la musica riempì la sala, e tutto questo, le mie rivali e
il mio nervosismo e tutto il resto, scomparve.
Seguii
le note e dimenticai ogni cosa. Dimenticai la fila di persone silenziose
schierate di fronte a noi per valutarci; dimenticai il ragazzo in piedi in
fondo alla sala e la cui sola presenza bastava a cambiare l’atmosfera di
tutto un mondo. Dimenticai di esistere, di avere un sogno e di desiderare con
tutta me stessa di superare quel provino.
Dimenticai
tutto. Almeno in quel momento, esisteva solo la musica.
Con il
tempo ho imparato a credere nel destino, e oggi so che iniziò tutto
così.
Ero
sempre stata una bambina estremamente timida. A scuola avevo pochissimi amici.
C’era un bambino nella mia classe, un certo Jimmy Fisher, che adorava
prendermi in giro per questo. Il suo piatto forte era la battuta sulle recite
scolastiche: diceva che la mia voce era così sottile che l’unico
ruolo che avrei potuto ricoprire senza problemi era quello
dell’immancabile cespuglio di rose nel giardino incantato, che ovviamente
non parlava.
Non
riuscivo a dargli torto.
Mio
padre era il direttore di una scuola elementare piuttosto conosciuta, mia madre
un’insegnante di storia dell’arte. Forse perché ero stata
abituata fin da subito a crescere tra le parole, delle parole avevo paura. Mi
esprimevo a monosillabi. Qualche volta, mi ricordo, la mamma mi accompagnava da
un suo amico psicologo, preoccupata all’idea che potessi presentare i
sintomi di una strana malattia o di un autismo infantile; quell’uomo che
sapeva di medico e di deodorante costoso puntualmente scuoteva il capo.
«Non
ha nulla che non vada, Evelyn. È una bambina intelligente e attenta.
Semplicemente non le piace parlare.»
«Ma
a cosa pensi che sia dovuto?» Mia madre, razionalista per principio e
pragmatica fino in fondo, a dispetto dell’astrattismo artistico da cui
era tanto affascinata, non poteva accettare che la sua bambina preferisse il
silenzio di un libro alla passeggiata assolata con le amichette del quartiere.
Non cedeva mai. «Forse ho sbagliato tutto. Forse è solo colpa mia.
Ma non riesco a capire cosa…»
«Ti
dico che va tutto bene. Alcuni bambini hanno un costante bisogno di studiare a
distanza il mondo che li circonda… Dalle i suoi tempi. Vedrai che
troverà il modo migliore per imparare ad esprimersi.»
Il
“modo migliore” ci fu, e arrivò un pomeriggio piovoso di ore
trascorse in casa a guardare la tv senza vederla. Avevo otto anni.
Eravamo
sedute insieme, la mamma ed io. Lei leggeva il giornale e io sbirciavo sopra la
sua spalla; ricordo che aveva un profumo buonissimo, di lavanda mista a qualcosa
che ricordava la vaniglia. Non ero molto interessata al televisore acceso su un
normalissimo programma di varietà, pieno di colori e parole. Avevo
iniziato a sbirciare il giornale della mamma nella speranza di trovarci
qualcosa di diverso, qualcosa che non fossero soltanto chiacchiere: quelle non
mi interessavano. Mia madre mi aveva insegnato personalmente a leggere prima
ancora di iscrivermi a scuola, e avevo sempre pensato che la lettura fosse la
cosa più impagabile al mondo. Aprire un libro, sfogliare le pagine,
perdersi nell’avventura di un principe azzurro che cavalca giorno e notte
per salvare una bella principessa: cosa poteva esserci di meglio?
Non
lo sapevo ancora, ma ero destinata a scoprirlo quel giorno.
In
un momento in cui mia madre voltò distrattamente pagina, mi ritrovai ad
alzare lo sguardo verso il televisore.
Sullo
schermo c’erano cinque bambini con la pelle scura che cantavano e
ballavano una canzone che avevo sentito qualche volta alla radio.
Rimasi
sorpresa. Non mi ero mai particolarmente interessata alla musica; c’era
ovviamente qualche canzoncina che mi piaceva, qualche melodia che canticchiavo
andando a scuola, ma il ruolo di quella particolare forma d’arte nella
mia vita finiva lì. In quel momento, guardando quelli che erano i
Jackson Five esibirsi su un palco che sembrava
addirittura troppo piccolo e troppo inadeguato al loro modo di starci sopra, mi
resi conto per la prima volta di quanto può essere bella una canzone.
Di
quanto può essere bello cantarla e ballarla.
La
mamma notò il modo in cui ero rimasta rigida e immobile al suo fianco,
tesa sulla sedia verso di lei ma con l’attenzione altrove, e mi
guardò.
«Cosa
c’è, tesoro?»
Rimasi
per un attimo un silenzio. Alla fine sollevai la mano e indicai lo schermo
della tv, di colpo molto più interessante ai miei occhi.
«Sono
bravi.»
Non
dissi altro, ma mia madre sorrise raggiante. Per lei ogni minima parola che
pronunciavo era un dono dal cielo, una conferma del fatto che in fin dei conti
ero davvero una bambina normale e che non avevo reali problemi a parlare di
fronte agli altri, o perlomeno di fronte a lei. Annuì e a sua volta
guardò il gruppo di giovanissimi cantanti e ballerini.
«Sì,
hai ragione. Quei ragazzi hanno davvero talento. E lo vedi quello
lì…» L’inquadratura si fermò sul primo piano di
quello che sembrava il più piccolo, risparmiandole di indicarmelo con la
mano. «Ecco, lui. Il piccolo Michael. Lui è uno che farà
parlare di sé, tesoro mio. Ce l’ha nel sangue.»
Il
bambino sullo schermo aveva uno sguardo dolce e una voce incredibile. Cantava
col sorriso sulle labbra, e nel frattempo si molleggiava sulle gambe e lasciava
le braccia libere di muoversi, come se stare fermo fosse impossibile, come se
il suo unico desiderio fosse quello di lasciare il microfono lì dove si
trovava e continuare a cantare danzando senza sosta sul palcoscenico.
Pensai
che forse anche il “piccolo Michael” alle parole preferiva
qualcos’altro.
Meno
di due mesi dopo iniziai a studiare danza.
Uno, due, tre, quattro. Cinque, sei, sette,
otto.
Anche
adesso che di anni ne avevo ventisette, che riuscivo a formulare discorsi molto
lunghi, e che avevo umiliato Jimmy Fisher ottenendo in quinta elementare il
ruolo di protagonista nella recita scolastica in cui lui aveva avuto la parte del famoso cespuglio, la musica era ancora
quello che era stata per me tanto tempo prima. Un’oasi di intimità
ed un modo per toccare – anche in silenzio – il mondo di fuori.
Ed
era tale la sua influenza su di me che per qualche battuta riuscii a
dimenticare persino la presenza di quello stesso Michael Jackson che quando ero
bambina mi aveva fatto innamorare della danza e che adesso mi stava di fronte
in quella sala dalle pareti di specchi.
Quell’anno
mi ero iscritta ad un’agenzia di moda, ed era tutto merito di tale
agenzia se quel giorno mi trovavo in quella sala, al cospetto del mio mito.
Quando nell’ambiente si era diffusa la voce che Michael Jackson, la star
mondiale, il re delle classifiche musicali d’America cercava una ragazza
con cui esibirsi nel suo prossimo videoclip, ero rimasta stupefatta dal modo in
cui il mio agente si era messo all’opera e aveva indicato me per quel posto.
Sul
momento mi era venuta voglia di farmi una bella risata. Un po’ della mia
riservatezza se n’era andata, sfumando con gli anni nei miei passi di
danza, ma la timidezza era rimasta più o meno tutta. Io, sostenere un provino per un
videoclip di Michael Jackson?
C’erano più probabilità che finissi per sposare
quell’odioso Jimmy Fisher che adesso abitava nella mia strada e che ogni
giorno mi guardava uscire con occhi tutt’altro che beffardi.
Poi,
però, avevo riflettuto. Io volevo ballare. E, sì, perché
no, volevo anche conoscere Michael Jackson. E se fossi riuscita a ballare con Michael Jackson sarebbe stata
l’apoteosi di qualsiasi sogno. E il mio agente riteneva che avessi tutte le
possibilità di farcela.
In
fin dei conti, cosa c’era di male nel sognare un altro po’?
E
in questo modo ero arrivata lì, e ora stavo sostenendo quella prima
prova che sarebbe servita alla scrematura delle iniziali cento aspiranti
ballerine e attrici. Dopo quella ci sarebbe stato il provino vero e proprio. Se
fossi arrivata a sostenerlo, avrei probabilmente avuto la possibilità di
parlare direttamente con lui.
Il
“piccolo Michael” era cresciuto, non era più l’undicenne
che avevo visto per la prima volta alla tv in un pomeriggio di pioggia. Ora era
un giovane uomo dai lineamenti aggraziati, la pelle un po’ più
chiara rispetto a diciannove anni prima, gli occhi scuri e buoni e
l’espressione tranquilla che si animava e si scatenava ogni volta che
metteva piede su un palco. Era un mito vivente, il mio mito vivente. Ed era lì in quella stanza, a
guardarmi.
Ero
nel pieno della coreografia quando senza volerlo sollevai lo sguardo e mi
accorsi che stava guardando proprio me. Le mani affondate nelle tasche dei
pantaloni, la schiena appoggiata al muro di specchi alle sue spalle, una ciocca
di capelli neri e ricci a sfiorargli la tempia, quando vide che ricambiavo il
suo sguardo sorrise. Un sorriso impercettibile, timido quasi, ma che ebbe il
potere di scrollarmi bruscamente via da quel posto indefinibile e mio in cui la
musica era in grado di portarmi.
In
un lampo di irragionevole illogicità non potei fare a meno di pensare
che era bellissimo.
Un
attimo dopo recuperai alla svelta il passo che avevo perso e tornai a
concentrarmi sulla musica.
Mi
sentivo le guance in fiamme. Ero praticamente certa di aver bruciato ogni
possibilità di successo; ora che mi aveva visto sbagliare, era
impossibile che mi permettesse di sostenere la fase successiva del
provino…
Rimasi
con gli occhi bassi per tutto il resto dell’esibizione, ma neanche per un
istante riuscii a togliermi di dosso la sensazione che quel sorriso se ne
stesse ancora lì silenzioso sulle sue labbra.
«Come
ti chiami?»
«Tatiana
Thumbtzen.»
Deglutii.
Non ero sicura che stesse succedendo davvero, ma se era un sogno non sembrava
destinato a concludersi tanto presto. Gli uomini seduti nell’ombra
davanti a me si sistemarono meglio sulle sedie; il ragazzo accanto a loro mi
studiò con sguardo estremamente attento.
«Bene.
Parlaci un po’ di te, Tatiana.»
Sapevo
che quella dannata telecamera era lì al solo scopo di riprendere la mia
immagine e di mostrare a quegli uomini ogni singolo dettaglio del mio viso, ma
per un attimo la odiai, perché
sapevo avrebbe mostrato loro le mie guance rosse come il fuoco. Mi venne voglia
di spaccarla. Però presi fiato e cercai di tenere a bada il cuore
impazzito, mentre mi adeguavo a quella nuova prova che mi veniva richiesta,
parlando ed esibendo, mostrando e rispondendo, mentre una parte di me si
concentrava al massimo nel maledire lo zelo a dir poco eccessivo del mio agente
e l’altra parte si dedicava con tutte le sue forze ad evitare di
incrociare gli occhi scuri del ragazzo chiamato Michael Jackson.
Fu
una tortura lenta e dolorosa. Quando finì, per la prima volta da che ero
entrata in quella stanza – dopo che qualche dio aveva interceduto per me
nel giudizio sulla coreografia; perché non poteva essere che
così, di miracolo si trattava – azzardai un’occhiata a quel
viso che mi faceva venire i brividi sia quando cantava sia quando ballava sia
quando stava semplicemente immobile a respirare.
Lo
vidi chinarsi a sussurrare qualcosa nell’orecchio dell’uomo
corpulento che gli stava al fianco, e che mi avevano detto essere il suo
manager. Frank DiLeo assentì leggermente col
capo. Quindi, Michael si voltò di nuovo verso di me, e nell’ombra
intravidi lo stesso sorriso che mi aveva rivolto nella sala prove.
Fu
lui a rivolgermi la frase di rito, con quella voce capace di incantare il mondo
e di farlo fermare a chiedersi se appartenesse davvero a un essere umano.
«Grazie,
Tatiana. Ti faremo sapere.»
Ora
ne ero certa: era un sogno. Un sogno incredibilmente reale, bellissimo,
meraviglioso – ma assolutamente impossibile.
Non
so come feci ad annuire e sorridere in risposta, a salutare e ad uscire da
quella stanza senza barcollare; ancora oggi mi sembra che fossi entrata in uno
stato di trance non appena quella voce dolcissima aveva pronunciato il mio nome.
Ma in qualche modo mantenni la lucidità sufficiente a ripercorrere i
miei passi, senza voltarmi indietro per cercare ancora una volta il suo
sorriso.
Varcata
e chiusa la porta alle mie spalle, dovetti restarci appoggiata per
un’eternità prima di ritrovare la solidità delle gambe e la
razionalità dei pensieri.
Alla
fine mi scossi. Probabilmente di lì a poco mi sarei svegliata, ma il
sogno di quegli occhi e di quel sorriso e di quella voce non l’avrei
dimenticato mai.
Uscii
alla ricerca di una boccata d’aria fresca, già con l’amaro
pensiero di quanto sarebbe stato triste il risveglio. I sogni finiscono troppo
presto…
Invece,
quello fu un inizio.
* Tatiana
vede per la prima volta i Jackson Five in tv nel 1968,
in occasione della loro prima collaborazione con la Motown. È un episodio
puramente inventato, ma è vero il fatto che nello stesso anno abbia
iniziato a studiare danza.
* L’agenzia
di moda frequentata dalla Thumbtzen è la Joseph, Heldfond
& Rix. È vero che è stata l’agenzia
a proporla per il provino; le modalità delle audizioni sono invece
frutto della mia fantasia.
* Il
titolo del capitolo è tratto dalla canzone Blood on the dance floor, mentre il verso che
lo introduce da Remember the time. Ovviamente
entrambe di Michael Jackson.