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Autore: alexisvampira    11/08/2010    1 recensioni
Nella calma rilassante del salottino di un club, Sherlock Holmes e il suo svogliato fratello si ritrovano per un paio di riflessioni in compagnia. Ambientata dopo la risoluzione del caso dell'interprete greco, una disimpegnata conversazione fra due spiriti opposti ma complementari!!
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 “ Nel corso della mia lunga, intima amicizia con Sherlock Holmes non lo avevo mai sentito accennare ai suoi parenti… La sue avversione per le donne e la riluttanza a stringere nuove amicizie erano tipici del suo temperamento freddo e indifferente… Ero arrivato a credere che fosse orfano, senza parenti viventi; poi un giorno, con mia grande sorpresa, cominciò a parlarmi di suo fratello. ” – Arthur Conan Doyle, Le memorie di Sherlock Holmes

Lo strano caso dell’interprete greco si era appena misteriosamente concluso, lasciando nell’ombra alcune delle principali conclusioni che, tragicamente, sarebbero state svelate soltanto alcuni mesi dopo. Erano quasi le otto e mezza di una sera londinese identica alle altre, quando Sherlock Holmes si accomodò nella piccola saletta del Diogenes Club, pronto a congedarsi dal fratello Mycroft.
La massiccia figura dell’uomo, in parte coperta dalle ombre della sera, se ne stava placidamente sdraiata in poltrona, mentre le braccia, mollemente sollevate a reggere il giornale, sembravano quasi cadere per il troppo sforzo sostenuto. A chiunque l’avesse intravista, la sagoma di quel gigante in perenne riposo sarebbe sembrata identica a tutte le volte; ma l’occhio attento del minore degli Holmes, costantemente allenato a notare le minime differenze nella monotonia di spettacoli tutti uguali, non potè non soffermarsi sul labbro lievemente stirato della bocca del fratello o sul grigio penetrante dello sguardo, evidentemente poco impegnato nella lettura degli annunci.
“Che cos’hai notato?” domandò tranquillamente Sherlock, pur supponendo di conoscere già la risposta.
La lapidaria affermazione non si fece attendere: “Lo trovo adeguato al tuo temperamento, tutto qui” scandì con noncuranza Mycroft, senza degnarsi di staccare gli occhi dalla pagina.
“Non dovrebbe affatto sorprenderti” proseguì con tono furbo l’investigatore.
“E infatti – dissè candidamente il maggiore dei due – non lo fa!” E per un breve istante, quella conversazione apparentemente senza senso, cadde in un vuoto intervallato soltanto dal frusciare delle pagine del quotidiano.
    La pendola scoccò i suoi abituali rintocchi e fu solo allora che Mycroft Holmes si decise ad alzare lo sguardo per fissarlo su quello intenso del fratello, che mai aveva smesso di osservarlo. E mentre sollevava impercettibilmente il sopracciglio destro, reclinando di lato testa, lo rivide per un momento bambino, quando con i pantaloni irrimediabilmente sporchi di terra tornava a casa nelle sere d’estate, dopo aver trascorso la sua produttiva giornata a distinguere le tracce delle oche che starnazzavano nel loro allevamento di campagna.
Già allora, dall’alto dei suoi quindici anni di pigro fratello maggiore, il giovane Mycroft passava il tempo ad osservare e intuire ciò che il resto del mondo non mostrava; ma lo faceva trovando conforto su comodi divani, che ospitavano il suo animo perennemente stanco, mentre il suo giovane fratello andava a caccia di quelle tracce di cui lui ipotizzava l’esistenza, senza però avere la forza di andarle personalmente a scovare. Ed era quando Sherlock tornava a casa, con un guizzo soddisfatto negli occhi sempre vigili e i lineamenti tirati in una tenace espressione di sfida, che il maggiore degli Holmes ghignava intimamente, avendo la certezza che quello davanti a lui era un bimbo unico nel suo genere.
“Trovo interessante che tu me l’abbia fatto conoscere” buttò lì l’uomo, riscuotendosi dalla breve fantasticheria. “E questo, mio caro fratello, dovrebbe sorprendere te, visto che sai quanto per me sia seccante il provare interesse verso qualcosa” concluse con un bonario sorriso, che celava molto altro.
Fu la volta di Sherlock di sorridere. “Watson era ovviamente stupito nel sapere che avevo un fratello: ho logicamente dedotto che avrebbe gradito conoscerti.”
“Non provare a rabbonirmi come fai con i tuoi clienti” lo rimproverò scherzosamente Mycroft, piegando accuratamente le pagine del giornale, ormai completamente sfogliato “Anche se pochi ci crederebbero consanguinei, ai fatti resto pur sempre tuo fratello maggiore: non ho bisogno che tu mi dia una spiegazione dell’ovvio!”
E mentre i lineamenti del famoso investigatore si tendevano sempre più in un’espressione di divertita e consapevole rassegnazione, il più vecchio continuò “Non ho mai avuto il piacere di stringere la mano a nessuno dei tuoi pochi amici”  
“Ma tu trovi tremendamente seccante lo stringere mani…” replicò ironicamente Sherlock.
“Eppure ti assicuro che quest’eccezione mi ha procurato un piacevole diversivo: come vedi tuo fratello è pieno di inaspettate sorprese” e dopo questa affermazione Mycroft posò con aria soddisfatta il giornale sul tavolino in fianco alla poltrona.
    E mentre osservava l’imponente figura stendere le gambe, allungandole sull’elaborato tappeto, fu la volta di Sherlock di fantasticare, ricomponendo i frammenti degli stessi ricordi che pochi attimi prima avevano attraversato la mente del fratello. Non poteva fare a meno di ripensare ai suoi otto anni, e alle meticolose analisi compiute sulle tracce di quelle fastidiose oche, che starnazzavano tutto il giorno vagando per il cortile; ai suoi appunti dettagliati, annotati sul piccolo taccuino che per lui non aveva mai abbastanza pagine; e soprattutto ricordava il suo tornare a casa, con il semplice obbiettivo di passare davanti all’ampio divano che immancabilmente dava asilo al fratello e ai suoi occhi grigio chiaro, quegli occhi che ogni sera  si posavano pigramente su di lui, in una tacita approvazione dell’attività svolta durante la giornata.
Rideva già allora del fatto che, durante le brevi visite che gli amici di famiglia facevano ai loro genitori, ad entrambi veniva imposta la snervante tortura di presenziare; l’uno intrappolato in una noia che gli impediva di esplorare, l’altro costretto ad abbandonare la sua solitaria quiete per aprirsi ad un mondo che non aveva voglia di guardare: due cause opposte per un’identico seccante risultato. Ma quando i rispettivi padroni di quei due sguardi così complementarmente opposti si fissavano, senza gesti inutili o l’ausilio di superflue parole, i due fratelli sapevano per certo di essere gli unici in grado di capirsi nella loro diversità. Era un loro mondo, il cui significato andava al di là delle cose: dove la pacata svogliatezza del maggiore coesisteva in un perfetto equilibrio con l’irrefrenabile attività del minore.
Su tutto questo rifletteva Sherlock Holmes, nei brevi istanti che si era concesso per osservare quella sagoma sdraiata di fronte a sé; mentre prendendo un gran respiro affermava: “Desideravo presentarti Watson già da un po’ di tempo. Ho soltanto…”
“…Hai soltanto aspettato il valido pretesto che sapevi sarebbe arrivato per inserirmi sulla scena come un fortuito evento dettato dalla casualità” concluse per lui Mycroft “Ti conosco fratello. Ti risulta piuttosto faticoso fare apertamente questo genere di cose: senti il bisogno di spendere un sacco di inutili energie pur di agire nell’ombra”
“E da quale dettaglio hai dedotto la tua teoria?” domandò sornione Sherlock.
“E’ per il resto della gente che mi diletto ad impiegare alcune arguzie deduttive” rispose noncurante il maggiore dei due, agitando vago la mano, mentre terminava il suo discorso “Per te non mi occorre nessun tipo di arte, come ti piace definirla: non mi serve osservarti Sherlock, io ti conosco!”
    Fu dopo queste parole che lo svogliato degli Holmes prese ad alzarsi lentamente dalla sua poltrona, stiracchiando pigramente le membra intorpidite, dopo essere stato inerte così a lungo. Intanto, osservando compiaciuto lo spettacolo unico di quel gigante che si rimetteva in attività, l’altro fratello, dentro di sé, cominciava a provare un rassicurante compiacimento, una vaga sensazione di calma che partiva dalla sua fredda testa razionale, per espandersi pian piano al resto del corpo.
Non amava mai neanche parlare di quella dimensione emotiva che costantemente minacciava di intaccare la ferrea barricata di logica dietro cui si riparava: aborriva l’amore, giacchè l’unico sentimento positivo che era riuscito a provare per una sola donna era l’ammirazione per aver raggirato il suo orgoglio; riteneva sopravvalutata l’amicizia, nell’uso troppo sciatto che la gente comune faceva di quella parola, pensando al rapporto con Watson come ad una fedeltà più profonda e disinteressata, fra due spiriti affini che si scoprono a seguire un cammino comune. E proprio per tutti questi motivi, rifletteva serenamente sul fatto di non aver mai provato alcun tipo d’invidia nei confronti del fratello. Quando da piccolo, in un’occasione, gli avevano fatto notare la lieve disparità che pur evidentemente esisteva nella genialità delle loro due menti, ammonendolo di non provare rancore, il giovane Holmes ricordava perfettamente di aver stupito tutti, proprompendo in una sonora e genuina risata divertita, forse una delle più vere che avesse mai fatto; e mentre ripensava a come quella volta aveva girato gli occhi, incontrando il ghigno furbo del fratello che, come lui, sorrideva all’assurdità di quell’affermazione, si convinceva sempre più che per entrambi non era possibile desiderare una parte dell’altro.   
“Grazie per avermi presentato il caso” fu il semplice intervento del detective di Baker Street.
“Grazie per avermi offerto il tuo aiuto” disse di rimando l’altro.
Sembrò che la conversazione dovesse concludersi con quel piccolo scambio di battute, tanto che regnò il silenzio per tutto l’arco di tempo che servì al corpulento Mycroft per infilarsi il pesante soprabito e dirigersi a lente falcate verso la porta, sistemandosi il cappello. Ma Sherlock Holmes non era tipo da lasciare agli altri l’ultima parola: “Non hai mai realmente bisogno del mio aiuto…Quando si tratta di te, non sono io a fare la differenza…” proferì sereno, senza un minimo accenno di rammarico in parole che, come sempre, contenevano la pura, semplice e razionale verità.
Una mano appoggiata allo stipite della porta, Mycroft si voltò verso il fratello, un bagliore quasi invisibile negli occhi placidi: “Neanche tu hai mai avuto bisogno di avere un amico, eppure ho il chiaro ricordo di un’amabile stretta di mano con un certo dottore…” disse saccentemente divertito lo svogliato di famiglia. “Ormai credo che te ne sia reso conto – concluse – nessuno di noi due fa mai ciò di cui ha bisogno: sappiamo fare solo ciò di cui sentiamo il bisogno!”. E sollevando teatralmente il cappello verso il suo invisibile pubblico, Mycroft Holmes uscì di scena, con quella classe svogliata ma al tempo stesso irriverente che, l’investigatore doveva ammetterlo, apparteneva solo a lui e a nessun’altro. Pochi istanti dopo, anche il minore della famiglia seguì l’esempio del fratello, chiudendosi alle spalle la porta del rinomato club; e mentre sospirava, preparandosi a fronteggiare la familiare notte londinese per raggiungere Baker Street, l’investigatore sorrise fra sé, pensando che quel giorno così simile a tutti gli altri l’aveva in realtà portato a risolvere un altro caso, a rivedere un fratello svogliato e ora lo stava frettolosamente conducendo a casa, per rivedere un amico di cui non aveva il bisogno ma di cui già sentiva la mancanza!!       
    
  
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