Il Nuovo Ordine
Uno
A bordo,
l'imperatore incappucciato aspettò che i
suoi soldati - perché a lui tutti avevano giurato fin dalla culla
eterna
fedeltà - sfilassero all'interno della nuova, letale base spaziale di
ultima
generazione, un'arma capace di distruggere un intero pianeta con un
fascio di
luce terribile. S'informò con i suoi generali sulla condizione delle
truppe,
sulle perdite e sui feriti e poi aspettò che il suo apprendista
sbarcasse
all'interno di uno degli hangar.
Il caccia di
Anakin ruppe l'atmosfera e si ritrovò
nel buio senza fine a quello che sembrava un niente da una nuova luna
sbucata
attorno all'orbita di Generis. Pareva una luna in tutto e per tutto,
decorata
com'era da un grosso cratere, ma la sua corazza liscia a grandi placche
tradiva
la sua natura artificiale. A vedere di rado i progetti gli era parsa
una base
dalla forma originale, una stravaganza degli ingegneri; ora vedeva un
pallone
immenso, un'eccitante follia che non aveva precedenti nella storia. Gli
venne
una quasi irrefrenabile voglia di sostare lì a mezz'aria e osservare
quell'abominio,
ma seppe che non era possibile. S'avviò quindi dove gli veniva
indicato, verso
la bocca nera di uno degli hangar che correvano affiancati come tante
celle
all’equatore della sfera.
Passò con un
brivido vicino all'immenso cratere, al
centro del quale s'estendeva la temibile lente del superlaser.
Viaggiando
vicino alla superficie liscia della sfera apparivano migliaia di
minuscole luci
dalle finestrelle, puntini bianchi e gialli e rossi.
‹‹Generale
Skywalker, benvenuto sulla Base
Orbitante Prima.››
‹‹L'imperatore
è qui?››
Uno degli
ufficiali, con una targhetta appuntata al
petto che leggeva 'Lee', annuì e parlò con tono trepidante.
‹‹Vi sta
aspettando, generale.››
Anakin aveva
letto i progetti della base, e mentre
passeggiava per i suoi corridoi ben illuminati, un non piccolo
progresso
rispetto all'aria cupa che di solito regnava nelle navi e nelle basi
spaziali,
gli pareva di conoscerla già. Sapeva della sua divisione interna: dei
due
emisferi, il settentrionale, dedicato per lo più all'armamentario e
alla
mastodontica arma laser, e il meridionale, dove si trovavano le
cittadelle per
le truppe e altri armamentari; conosceva le ventiquattro sezioni
superficiali,
gli ottantaquattro livelli e i duecentocinquantasette sottolivelli in
cui era
divisa, ognuno scrupolosamente etichettato e tenuto di guardia da
droidi di
ultima generazione; sapeva dell’indescrivibile potenziale distruttivo
della
base, e mentre viaggiava attraverso i viali a bordo di navette di
trasporto e
ascensori velocissimi verso la sua destinazione, l'ufficio
dell'imperatore, non
potè ignorare un curioso prurito in ognuna delle sue cellule. Provava
una
strana, smodata eccitazione nell'osservare quella macchina di morte dal
suo
interno, sentendosi padrone e comandante.
Al polo
settentrionale e al polo meridionale si
trovavano gli smisurati quartieri di comando, in cui viaggiava una
folla di
varia umanità in divisa e armatura, e cloni a mai finire. A bordo tutti
coloro
che contavano erano umani: l’imperatore non nascondeva la sua
preferenza per i
membri della propria specie.
L'ufficiale
Lee lo condusse con precisione
attraverso il complesso reticolo di vie e corridoi mentre salivano su,
verso il
polo settentrionale. Sulla via, gli mostrò gli ambienti che erano stati
assegnati a lui, direttamente sotto a quelli dell’imperatore. Descrisse
come un
agente immobiliare i comfort che avrebbe trovato al suo interno,
parendo tutto
orgoglioso delle meraviglie della base su cui era stato stazionato.
Un giorno
avrebbe dovuto portarci Padmé, pensò con
ironia morbidamente amara mentre sentiva la crescente oscurità
dell'aria lì
dentro, a dispetto della sua vivace illuminazione. Si chiese se sarebbe
sempre
stato così illuminato, come non era mai stata altra base, riflettendo
sui costi
e sulle necessità di mantenere illuminata giorno quella che sembrava la
stragrande maggioranza degli ambienti; il sottufficiale Lee rispose
come se
avesse potuto scorgere nel suo cervello il dubbio. Parlò con un certo
livello
di confidenza, come se Anakin gli avesse implicitamente garantito la
sua
attenzione e il suo rispetto. I capelli di Lee, biondicci e un po'
arricciati,
cadevano flosci sulla fronte e gli davano un'aria di impenitente
gioventù. La
divisa faceva a pugni con il suo aspetto vivace. Anakin si chiese
quando aveva
smesso di sentirsi come i suoi coetanei.
‹‹Tutta
questa luce, devo confessarvi, generale
Skywalker, mi spiazza. Nelle navi d'addestramento non c'erano tutte
queste
belle lucette, ma i tecnici mi hanno detto che non sarà sempre così.
Questo è
il viaggio inaugurale, per così dire, quindi vogliono fare le cose per
bene e
in grande, con tutti i crismi. Non mi dispiace, qui è tutto nuovo e
moderno. Fa
piacere vedere bene le cose, per una volta.››
Anakin non
rispose, perso tra i suoi pensieri, e il
sottufficiale Lee, pur accigliandosi per una frazione di secondo, non
disse
altro finché non furono davanti al portello automatico che dava agli
appartamenti dell'imperatore. Lì fece un passo indietro e fece un cenno
al
droide dorato che s'avvicinò a loro.
‹‹Questo è il
droide maggiordomo dell'imperatore,
l'unico che conosce la password. Cambia ogni trenta secondi. Io non ho
il
permesso di rimanere qui. Arrivederci, generale Skywalker.››
E poi sparì
da dove erano venuti, tutto impettito.
Vi era al
centro della sala una grande piattaforma
in metallo per oloproiezioni di forma circolare, circondata da un
congresso di poltrone;
oltre, di fronte alla grande finestra, c'era una scrivania imponente di
legno
scuro, con un'unica grande poltrona dietro. Solo dopo che ebbe
riconosciuto gli
interni della sala Anakin s'accorse che c'era della musica strumentale
in
sottofondo, e un gradevole odore di nuovo e lussuoso.
Sentì il suo
Maestro ben prima di ascoltare la sua
voce.
‹‹Ti stavo
aspettando, Darth Vader,›› biascicò
l'imperatore scendendo dal soppalco del piano superiore, con le vesti
scure e
pesanti che strisciavano dietro di lui.
Il suo
ingresso scatenò in Anakin due sentimenti
familiari, soggezione mista a un senso di competizione latente, come il
fuoco
sotto una coltre di cenere. Ogni movimento dell'imperatore gli pareva
uno
specchio del futuro. Pensò a cosa sarebbe successo se avesse estratto
la spada
in quel momento e attaccato.
‹‹Ho eseguito
gli ordini come voluto da lei. Ecco
l'arma dell'altra Jedi. Era una padawan.››
E posò la
spada laser di Milena Ong sul tavolo
delle oloproiezioni. Gli balenarono in mente gli occhi chiari della
Pantorana,
e poi sparirono. Rimase soltanto il volto bianco e repellente del suo
Maestro
con gli occhi illuminati di un osceno piacere.
‹‹Ben fatto,
Darth Vader. La nostra pulizia
prosegue. Un giorno, un giorno vicino, questa Galassia sarà libera
dall'immondizia Jedi.››
‹‹Sì,
Maestro.››
L’imperatore
fece un ampio gesto del braccio ad
indicare i dintorni.
‹‹Spero che
la nostra piccola base sia di tuo
gradimento.››
Anakin annuì,
ficcando il suo sguardo nelle distese
senza fondo dello spazio oltre la finestra. Da quel lato il pianeta di
Generis
era invisibile, e l'unico panorama erano le mille e mille stelle
incastonate
nel buio che splendevano come tante lucciole selvatiche nei campi
d'estate la
notte. Alcune parevano del tutto ferme, altre parevano lampeggiare; ed
erano
tutte a migliaia di anni luce, brucianti e morte ed esplose, singole o
in
ammassi di splendide nebule. Trovarsi di nuovo nello spazio era una
sensazione
rassicurante. C’erano poche cose che Anakin amasse di più.
Sul tavolo
delle oloproiezioni comparve un
ufficiale, in colori e qualità sorprendenti. Era evidentemente uno dei
lussi
dell’imperatore. ‹‹Ci prepariamo al salto nell'iperspazio, Sua
Altezza.››
‹‹Bene.››
E prima
ancora che uno dei due Sith potesse aprir
bocca per riprendere la loro conversazione, Anakin sentì coi suoi sensi
raffinati il leggerissimo, impercettibile vibrare dell'iperguida, come
se sotto
i suoi piedi stesse viaggiando uno sciame immenso di formiche; poi
nella
finestra si dipinsero nello spazio di un battito di ciglia fasci di
terribili
luci bianche e blu, che si componevano e scomponevano tra di loro a
formare
fiammelle e lapilli di pura velocità superiore alla luce; e lo spazio
non c'era
più, ma solo quello psichedelico tunnel di luci che facevano male agli
occhi e
alla testa. Anakin aveva sempre amato quelle luci, come manifesto di
tutto ciò
che era la sua vita, cambiamento, avventura e dinamismo; ma
l'imperatore
premette un pulsante e la finestra s'oscurò del tutto.
Il brusco
cambiamento di panorama ricordò ad Anakin
più pressanti conversazioni da essere tenute.
‹‹Maestro,
desideravo parlarvi personalmente di
qualcosa che ho estratto da Tavrak. Riguarda il Senato.››
‹‹Prendi pure
una sedia.››
Raccontò
all'imperatore ciò che aveva biascicato il
pazzo sotto la subdola tortura della mente, degli aiuti del Senato ai
ribelli,
ma non osò avanzare le proprie ipotesi. L'imperatore ascoltò ciò che
aveva da
dire con un'espressione di moderato disappunto, come se la questione
non fosse
nè sorprendente né grave, ma meramente un inconveniente già
preventivato.
Quando parlò, infine, usò una voce profonda e pacata, come se stesse
discutendo
del tempo.
‹‹Evidentemente,››
disse, caricando di sarcasmo
l'avverbio, ‹‹è finalmente giunto il momento per qualche arresto
importante in
Senato.››
Anakin annuì.
‹‹Lo pensavo anch'io.››
E volle
aggiungere che non c’era da fidarsi dei
politici, ma si morse la lingua.
‹‹Temo che al
Senato s’annidino pericolose sacche
di resistenza,›› continuò l’imperatore con tono svagato, ‹‹politicanti
che non
hanno ancora compreso quale sia il loro nuovo posto.››
‹‹Ma
Maestro…non può semplicemente sciogliere il
Senato, e liberarsi definitivamente di loro?››
‹‹Pazienza,
Darth Vader, pazienza. Non sono cose da
fare su due piedi. Dobbiamo dare tempo all’opinione pubblica di
arrivare alle
nostre conclusioni, convincendoli con…dolcezza. In realtà, il Senato è
un
organismo innocuo, se liberato di certi parassiti.››
‹‹Concordo,
Maestro.››
Gli occhi del
vecchio divennero pungenti.
‹‹Spero che
la senatrice Amidala sia arrivata a più
miti consigli.››
Anakin
rispose con prontezza, usando l’inflessione
impersonale che adottava quando doveva discutere della moglie con il
suo
Maestro.
‹‹Certamente,
Maestro. Mia moglie sta imparando ad
apprezzare il mio impegno. La mia missione. La maternità ha…influito
positivamente su di lei.››
L’imperatore
non disse nulla e chiese del vino ad
un droide protocollare che attendeva alla parete. Il droide s’affrettò,
in
rispettoso silenzio, a versare in due calici un vino rosso rubino che
pareva
sangue spillato da un’arteria pulsante.
‹‹Favorisci,
apprendista?››
Anakin non
beveva alcolici per principio. Al Tempio
non erano ammessi, e dannazione a lui se non riusciva a liberarsi da
quegli
stupidi precetti. Ma gli occhi del suo Maestro lo sfidavano.
‹‹Grazie.››
Il vino era
amaro e dolce insieme e non gli
piaceva. Le sue papille protestarono al contatto con il liquido fresco
ed ebbe
l’impulso di chiudere gli occhi e sfregare la lingua al palato come un
bambino
costretto a mandar giù una medicina sgradevole. Invece, schioccò
insieme le
labbra come aveva visto fare ad altri, sperando di essere un buon
attore.
‹‹Sono
soddisfatto del tuo operato, Darth Vader.
Hai qualche desiderio?››
Era un
curioso rapporto, quello instaurato tra lui
e il suo Maestro. Anakin aveva la continua impressione che il suo
Maestro
cercasse in ogni modo di stuzzicare il suo desiderio di possedere
oggetti, e si
dava in ampie profusioni di promesse che pure avrebbe ben mantenuto se
Anakin
non avesse rifiutato; aveva l'impressione che tutto ciò facesse parte
di un
piano per assicurarsi la lealtà del suo apprendista, con le lusinghe di
un'esistenza opulenta. Ma Anakin non peccava di avidità materiali.
‹‹Vorrei
avere qualche settimana di congedo.››
‹‹Da passare
con la tua famiglia?››
L'espressione
dell'imperatore mantenne il suo alone
di contenuto disappunto.
‹‹Non più di
due settimane. Il tuo posto è a
Coruscant.››
‹‹Sì,
Maestro.››
Anakin
terminò il suo vino.
‹‹E non
dovresti lasciare che il tuo attaccamento alla
senatrice Amidala comprometta il tuo cammino.››
Le parole
sarebbero potute essere state pronunciate
da qualsiasi Jedi, e il pensiero fece quasi sorridere Anakin. Il suo
Maestro
definiva il suo matrimonio un semplice 'attaccamento': il dettaglio lo
sorprese
e lo riempì di un'onda nera di dispiacere. Provò, per la prima volta in
mesi,
una sensazione di profondo disagio.
‹‹Il tuo
desiderio di trascorrere del tempo con le
persone alle quali sei talmente attaccato è legittimo, mio giovane
apprendista,›› continuò l'imperatore, con un tono marginalmente più
conciliatorio, come se stesse istruendo un bambino, ‹‹ma devi
considerare la
carne della quale sei fatto, il tuo potere. Il tuo destino. È tutto
alla
portata della tua mano ma...›› Serrò le labbra per un momento, e i suoi
occhi,
nella gomma bianca e rugosa che era il suo viso sfigurato, parvero come
di
fuoco, ‹‹...ma ci vuole concentrazione, e studio continuo.
‹‹A volte è
difficile, Maestro.››
‹‹Non devi
lasciare che qualcosa, o qualcuno, ti
distragga. Ci sono emozioni che un uomo grande deve rifiutare, come la
pietà e
la compassione e l’eccessivo attaccamento. Sono emozioni da deboli. Mi
chiedo
se tu non lo abbia ancora capito. Allora capiscilo adesso: solo i forti
sopravvivono, solo i forti meritano di vivere, solo i forti meritano di
dominare i deboli. Un uomo forte controlla la passione e la usa per
diventare
più potente. Un uomo debole si fa controllare da essa. Hai molto da
imparare,
ma se segui la giusta strada un giorno sarai grande.››
Anakin annuì.
‹‹Hai il tuo
permesso, Vader. Ora va'.››
Anakin s'alzò
senza dire una parola e lasciò l'appartamento
dell'imperatore, sentendo gli occhi del suo Maestro ficcati sulla sua
schiena
come punte di bastoni aguzzi anche dopo che fu fuori dal suo campo
visivo.
Percorse al
ritroso le strade che aveva già visto
con il sottufficiale Lee, mentre alla confusione dentro di lui si
sostituiva un
sentimento misto e frustrante, amplificato solamente da quella coltre
fumosa
che gli entrava nei polmoni, come se il potere oscuro del suo Maestro
potesse
entrare dentro di lui dalle narici e mischiarsi con il suo spirito in
una
combinazione pestifera. Scene casuali della sua vita recente
s'affastellarono
nella sua mente come ricordi di un'altra vita, in cui poteva guardare
con
distacco ciò ch'era successo, e ogni volta che vedeva le proprie mani
colpire –
e come colpivano! - il fiato gli vorticava in petto come un piccolo
uragano che
gli toglieva il respiro. Era uno dei suoi soliti, strani attacchi - e
la sua
intensità era dettata soltanto dal nuovo vis-à-vis con quell'uomo,
l'uomo nel
quale nasceva e finiva tutto, e, forse, la prossima riunione con Padmé:
che era
sua moglie, e madre dei suoi figli, e non un semplice 'attaccamento'.
Ebbe il tempo
giusto di entrare nei suoi
appartamenti prima di finire ansimante contro la porta, inchiodato ad
essa
dalla vista improvvisa, violenta ed ipnotica, del tunnel
dell'iperspazio alla
grande finestra non oscurata della sua sala, analoga ma di dimensioni
inferiori
a quella imperiale. Dapprima cercò di schermare i propri occhi dalla
luce
abbagliante: appoggiò una mano agli occhi e s'accorse che gli bruciava
la
fronte. Immediatamente ritirò via la mano e girò il capo; solo la sua
guancia
era esposta alla luce e la schiena era ancora attaccata al portello.
Chiuse gli
occhi ansimando.
Sappi qual è
la tua strada. Sappi ciò di cosa sei fatto.
E in sé sentì
bruciare qualcosa che faceva paura,
senza nome e senza descrizione. Mai come in quel momento, nella stanza
buia
inondata dall’immensità caleidoscopica dell’altra dimensione, Anakin
sentì
d’essere qualcosa d’eccezionale che mai avrebbe trovato replica. Sentì
in
ognuna delle sue cellule di essere il Prescelto di una profezia
millenaria. E
per la prima volta nella sua vita lasciò che i suoi pensieri
scivolassero
laddove mai aveva osato lasciarsi scivolare: il suo misterioso
concepimento, il
padre che non c’era mai stato, il suo legame biologico, ben oltre
l’eccezionale, con
Sappi ciò di
cosa sei fatto.
E Anakin
sentì di essere lo Spazio, quella base,
quel tavolo, tutto. Era quello suo Padre? L’immensità insostenibile
dell’Essere
e di tutto ciò che esisteva dentro di lui, fuori di lui, in tutte le
dimensioni, in tutte le realtà?
Un giorno
sarai grande.
Biliardi di
biliardi di vita brulicavano ovunque,
in migliaia di specie, in migliaia di razze, in migliaia di etnie, e le
culture
sfumavano l’una nell’altra in ogni pianeta, e si spandevano oltre i
confini
delle loro atmosfere come spore di piante affidate al vento. Fuori da
quella
base c’era migliaia di migliaia di pianeti civilizzati, e in ogni
emisfero
c’erano città, deserti, oceani, foreste e valli e montagne che
pulsavano di una
musica misteriosa (e lui era quella musica!). I pianeti formavano
sistemi che
orbitavano attorno a milioni di soli, di stelle; e c’erano ammassi e
nebule che
facevano innamorare e piangere quando apparivano all’orizzonte con i
loro
colori usciti dai sogni più sfrontati di un artista a decorare il buio
più cupo
e silenzioso; supernove che sembravano fiori sbocciati in un campo
notturno;
buchi neri tremendi dalle singolarità inesplorate che pulsavano e
facevano male
come colpi di una frusta invisibile.
Voleva tutto,
e non voleva niente. Sentiva in sé
l’insostenibile grandezza divina delle sue origini e l’insopportabile
effimerità del corpo in cui era rinchiuso. Nella sua brama di potere
che gli
strappava gli organi pezzo a pezzo si sentiva osceno e ridicolo. Un re
sbeffeggiato dalla sua nascita, un principe intrappolato per sempre
nelle vesti
di un insetto.
Le luci
lottarono per tenerlo prigioniero del loro
incanto, ma presto l’onda di esaltazione mistica di Anakin declinò e
infine
s’infranse contro gli scogli di sé stesso, del suo senso di colpa,
della sua
solitudine, della sua mortificazione; si scontrò con ciò che in lui non
era né
grande né meraviglioso ma misero e schifoso: le sue paure, le sue
insicurezze,
le sue inadeguatezze, i suoi crimini; e seppe di essere abietto.
La luce fu
insopportabile, e lui troppo debole. Si
lanciò contro la piastra dei comandi sul tavolo delle oloproiezioni,
premendo
alla cieca come se gli avessero gettato acido negli occhi e in qualche
modo
riuscì a far oscurare la grande finestra: lo spettacolo d’indaco, nero,
violetto e bianco spumeggiante terminò e Anakin rimase al buio.
S’accorse che
stava ansimando, e gli faceva male il
petto e gli prudeva la gola come se avesse corso per centinaia di
metri. Si ripiegò
sul tavolo e appoggiò la guancia calda sulla lastra fredda. Una bava
spessa gli
colò dalla bocca sul tavolo e sentì di essere prossimo al vomito.
La stanza si
riempì di volti muti. C’erano sempre
quei bambini in prima linea, sempre loro…Provò una cocente vergogna: le
guance
divennero di fuoco e le lacrime lava ad ustionargli le mani con cui si
tappava
gli occhi.
Al buio,
tormentato dai suoi demoni senza nome, si
sentì più solo e disperatamente perso di come si fosse mai sentito. Era
sporco
e disgustoso, in preda a mille conati senza mai riuscire a vomitare
tutta
quella melma di cui era pieno come un sacco.
Oh, era già
pazzo!
Tempo tredici
anni, l’investimento del Cancelliere
era diventata la bevanda pregiata nei calici dell’Imperatore: austero
ma
amabile, scevro da asprezze, con il più delicato retrogusto di legno
severo e,
forse, violette. Era un vino adeguato ai giorni trionfali.
Per prima
cosa, l’imperatore meditò sulle azioni da
intraprendere in Senato, convenendo con se stesso che i tempi erano
maturi per
la necessaria cernita già eseguita, ad esempio, tra le forze armate che
non
erano costituite dai cloni del cacciatore di taglie Jango Fett. Pensò
ai capi d’accusa,
agli ordini di cattura e ai costosi processi che avrebbe dovuto montare
per
risolvere favorevolmente quella questione. Si risolse di trattare la
questione
quando sarebbe arrivato a Coruscant.
Quindi,
ripensò alla situazione del suo apprendista
e del suo matrimonio con la senatrice Amidala. Non aveva dubbi che
lasciare in
vita l’ex-senatrice costituiva un fattore di rischio per quella
raffinata
costruzione che era il suo successo, ma ad ogni modo sarebbe stato
semplice
liberarsi di lei e di almeno uno dei due bambini, se non di entrambi.
Da quando
erano nati i giovani Skywalker, infatti, lo aveva colto un improvviso
languore:
il sospetto, la curiosità, del potenziale dei due infanti. Le
prospettive erano
allettanti, ma vi erano rischi connessi che l’imperatore non sapeva
ancora di
voler affrontare.
Ad ogni modo,
con la morte della moglie, il suo
apprendista gli sarebbe stato fedele interamente.
Tuttavia,
c’era stato un buon motivo per aspettare.
Far assassinare la donna all’improvviso avrebbe probabilmente causato
nel suo
apprendista una sciocca depressione o qualche simile reazione
controproducente,
se non un attaccamento maggiore al ricordo della defunta. Sarebbe
invece stato
maggiormente produttivo ed utile cercare la maniera – o indurla - di
rendere
Darth Vader più o meno direttamente partecipe nella morte della sua
donna, così
da scatenare in lui tutte quelle emozioni negative di cui un Sith si
nutriva.
Ma non c’era da aver grande fretta. L’occasione si sarebbe presentata
al
momento giusto, e lui, l’imperatore, l’avrebbe colta.
Era
sicuramente un maestro nel cogliere le
occasioni favorevoli, o, meglio, a farle verificare.
Non era stato
forse lui solo a far verificare la
grande vendetta dei Sith?
Per mille
anni i Sith, di Maestro in apprendista,
avevano studiato le ragioni della loro caduta e allo stesso tempo
avevano
intessuto il piano della vittoria: a lui, Palpatine, era spettato
tirare le
fila, e oh, quale meravigliosa trama ne era uscita!
La
rivelazione gli era arrivata lentamente, come
durante il sonno, tanto che poi non avrebbe potuto distinguere un prima
o un
dopo il possesso di quella nozione che, dopo molti anni, lo avrebbe
portato al
potere supremo; era una rivelazione semplice: la maniera per vincere i
Jedi era
non farli comportare da Jedi.
Ricordare la
sua impresa era sempre qualcosa di
gradito, anche al rischio di indulgere nella vanità.
I Jedi li
aveva sparsi per
Skywalker non
sarebbe stato necessario: la vendetta
dei Sith si sarebbe svolta con o senza la sua partecipazione, ma era
stato
quasi divertente veder scivolare dalla presa dei Jedi il loro Prescelto.
Un Prescelto
che era arrivato tra le loro braccia
in maniera fortuita, senza che avessero dovuto cercarlo. Aveva dieci,
nato da
una schiava su un pianeta dell’Orlo Esterno controllato dal crimine
organizzato, e aveva un potere eccezionale che li aveva confusi e
impauriti.
Non si erano fidati di lui fin dall’inizio, Palpatine lo sapeva. Aveva
sentito
nel corso degli anni i lamenti del ragazzo quando ricordava la prima
umiliazione
che gli avevano inflitto. Parlava del Concilio riunito attorno a lui,
delle
loro domande e dei loro esami; e poi parlava dei loro occhi freddi e
delle loro
voci impietose e di come si era posto la domanda cruciale: dov’è la
compassione
che predicano di avere? Il giovane era arrivato ben vicino ai motivi
della
disfatta. E così i Jedi avevano il loro Prescelto, ma non quello che
s’erano
aspettati, né quello che avevano desiderato. Stolti!, che avevano
creduto di
poter decidere secondo i loro termini ciò che
Quando il
giovane Skywalker aveva chiesto aiuto,
l’unico ad averlo ascoltato era stato lui, il Cancelliere.
Ripensandoci,
l’istruzione dei Jedi su Skywalker
non era stata del tutto fallimentare. Durante le loro molte
conversazioni il
suo apprendista era sembrato sinceramente convinto dei precetti dei
Jedi, e
orgoglioso fino al midollo di far parte dell’Ordine. Non aveva dubbi
che senza
il proprio input Skywalker sarebbe stato felice di continuare la sua
esistenza
tra i Jedi, pur sopportando i loro oltraggi. Fino all’ultimo,
dopotutto, il
giovane s’era comportato da vero Jedi: aveva denunciato la presenza di
un Sith
a capo della Repubblica, e, per l’ennesima volta, gli era stato detto
di
rimanere indietro.
L’imperatore,
a volte, si chiedeva se Windu non
avesse provato, oltre a dare sfogo all’evidente sete di potere che
pasceva nel
cuore, di usurpare il ruolo di Skywalker nell’antica profezia. Chissà
se s’era
spinto fino a quel punto.
Ma ciò non
importava. Era più interessante notare,
ad esempio, come Skywalker si fosse dimostrato un Jedi davvero fino a
un minuto
prima di essere nominato Sith. Aveva ricordato al suo Maestro il
diritto ad un
giusto processo del Cancelliere, vecchio e disarmato, e aveva
incontrato di
nuovo un rifiuto; quando ormai disperava – e che disperazione, vedere
la chiave
della salvezza della propria moglie sul punto di essere ammazzato! –
ecco che
aveva fatto ciò che più caratteristico di un Jedi ci potesse essere:
difendere
un indifeso.
Oh, tutta
quella storia era di una deliziosa ironia!
E ora sentiva
un cupo turbinio provenire dal suo
apprendista, un grido soffocato, una lacerazione nel tessuto stesso
della
Forza. Sentiva il suo conflitto e il suo dolore, e conosceva
perfettamente tutte
le esaltanti sfumature che lo stavano facendo a pezzi. Riusciva ad
immaginarlo
in mezzo a spasmi soffocati, mentre veniva inghiottito da ciò che c’era
di cupo
nel suo animo.
Finì il suo
vino.
Sorrise.
__________
La cosa
più interessante è questa
totale confusione su chi siano davvero i buoni, e su chi i cattivi. Non
credo di
sbagliarmi, se considero l'imperatore l'unico davvero malvagio in
questa
vicenda ... ma gli altri? Sono, in fondo, solo delle vittime. Vittime
delle
proprie passioni, che un male più grande ha sfruttato per i propri
scopi. Si
può considerare un esempio di questa terribile verità anche l'ufficiale
Lee, in
un certo senso. Sembra così convinto che l'impero porterà solo luce per
E
arriviamo, ancora una volta, ad
Anakin. Anakin che sente comunque forte il fascino del potere,
amplificato fino
a limiti impensabili dalla nuova potenza dell'Impero. Anakin che guarda
con
disprezzo mal celato il suo nuovo mentore, sfidandolo come lui sfida il
suo
allievo. Anakin che si sente, infine, deluso dal comportamento comunque
limitante di Palpatine, che sminuisce il suo amore per Padmé come
qualunque
Jedi avrebbe fatto. E poi Anakin, che sa che il potere è a portata di
mano, ma
sa di essersi macchiato per sempre, di essere indegno, di essere
perseguitato
dai suoi ricordi. E quest'angoscia, amplificata dall'immagine
straziante dei
bambini che ha trucidato, lo porta ancora una volta al limite della
ragione. Un
tormento, insomma, che è difficile da comprendere appieno, ma ancora di
più da
trattare: un tormento reale, di un'anima buona corrotta dall'oscurità,
che si
ribella, nonostante tutto, ai suoi gesti, e che ancora può provare
senso di
colpa.
Ma la cosa
più terribile di questo gran
tormento è che è stato completamente previsto e voluto da Palpatine.
Che non
aspettava altro. Che brinda alla sua vittoria con il vino più pregiato,
calcolando la completa resa del suo allievo e la morte di sua moglie e
dei suoi
figli. Ancora una volta, l'ombra alimenta i suoi cupi piani, che sanno
solo di
morte della libertà, di dittatura, e di completa perdizione per il
Prescelto.
Insomma,
un capitolo perfettamente
riuscito. Hai davvero trasmesso tantissimo, e credo che tu sia riuscita
ad
analizzare bene anche un personaggio complicato come Palpatine, impresa
di per
sé quasi impensabile. Bravissima, non vedo l'ora di leggere il seguito!
Magari
posso sperare in un nuovo incontro tra Anakin e Padmé? :)
Alla
prossima, Padme Undomiel ^^