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Autore: Akrois    21/08/2010    4 recensioni
Suo fratello non aveva capito dove stava andando o aveva fatto finta di non capire.
Fatto stava che nei giorni prima della partenza le sue già poche parole diventarono sempre meno, tanto che lui avrebbe voluto per lo meno sentirlo bestemmiare. Almeno avrebbe sentito la sua voce.
Suo fratello era un contadino analfabeta che non era mai uscito da Palermo e il concetto di “America” doveva essere una strana cosa nebulosa, un mostro senza braccia né occhi pronto a papparsi il suo sorridente fratellino.
Ma l’ultima cosa che gli disse (a parte quello “scrivimi, stronzo!” urlato dal molo mentre la nave partiva) se la ricorderà tutta la vita.
[America/N.Italia] [Prussia/Canada] [Anni 1910-1912]
Genere: Commedia, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Canada/Matthew Williams, Nord Italia/Feliciano Vargas, Prussia/Gilbert Beilschmidt
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Una valigia di cartone

 

 

 

Titolo: Una valigia di cartone

Titolo capitolo: 01

Personaggi: Feliciano Vargas (Italia Settentrionale). Alfred F. Jones (Stati Uniti d’America), Ludwig Beilschmidt (Germania), Gilbert Beilschmidt (Prussia), Matthew Williams (Canada)  [più comparse varie ed eventuali]

Rating: Rosso.

Generi: Boh. Introspettivo, sentimentale, storico, a tratti erotico. Allegria!

Avvertenze: AU, yaoi, OOC.

Note: Boh. Nulla. Ambientata nel 1910-1912. Immigrazione. Allegria!

No, sul serio, sono troppo pigra per scrivere delle note decenti.

Ah, il riferimento agli spagnoli è spiegabile così: mentre gli italiani dicono “per me la lingua X è arabo” i tedeschi usano dire di “capire spagnolo” quando non capiscono nulla di quello che l’altro sta dicendo. Ho immaginato che anche gli spagnoli non capiscano un gran che di tedesco.

Ah, questa storia avrà il vizio di divagare, parlare d’altro, girare intorno alle cose…

Sì, sono una scrittrice orrenda.

Ma mi leggete per questo, no?*-*

 

 

Ah, la scena di “è lontano il posto dove vai” è ispirata ad un testo proposto durante un concerto di Cristricchi.

 

(ci saranno di  sicuro degli errori di battitura. Se li vedete segnalatemeli. Segnalatemi qualunque errore, stronzata, boiata scritta, incasinamento storico, chiedetemi qualunque cosa. Ma sappiate che io so solo di non sapere una mazza di quello che vado a scrivere e sto attaccata su wikipedia tutto il giorno (o.o) ciò non mi fa molto onore, nonononono.)

[America/N.Italia] [Prussia/Canada]

 

 

 

 

 

01

 

 

 

 

Suo fratello non aveva capito dove stava andando o aveva fatto finta di non capire.

Fatto stava che nei giorni prima della partenza le sue già poche parole diventarono sempre meno, tanto che lui avrebbe voluto per lo meno sentirlo bestemmiare. Almeno avrebbe sentito la sua voce.

Suo fratello era un contadino analfabeta che non era mai uscito da Palermo e il concetto di “America” doveva essere una strana cosa nebulosa, un mostro senza braccia né occhi pronto a papparsi il suo sorridente fratellino.

Ma l’ultima cosa che gli disse (a parte quello “scrivimi, stronzo!” urlato dal molo mentre la nave partiva) se la ricorderà tutta la vita.

Era il giorno prima della partenza e il sole tingeva il cielo con tutti i colori del rosso e del rosa. Suo fratello era entrato in camera sua mentre lui chiudeva la valigia con lo spago e si era seduto sulla sedia accanto alla finestra.

Anche quella sedia se la ricorderà per sempre: suo fratello ci si sedeva sempre quando lui si ammalava. Passava tutta la notte seduto lì, a canticchiare a mezza voce qualche canzone in un siciliano stretto che sembrava il latino degli angeli.

Lui le ascoltava dal suo lettuccio e sorrideva felice sotto le coperte. Suo fratello non aveva mai ammesso di cantare quelle canzoni vecchie più del nonno per farlo sentire meglio.

Ma stiamo divagando.

Dunque, suo fratello si era seduto su quella sedia e si era messo a guardare il cielo dietro al vetro mentre lui chiudeva la valigia.

Ricordava vividamente la sua voce che spezzava il silenzio e quelle parole – È lontano il posto dove vai.

Aveva pensato che fosse una domanda e stava già per dare la risposta, ma poi suo fratello si era alzato ed era uscito dalla stanza.

Allora aveva capito che Lovino non necessitava di una risposta, perché quella non era una domanda.

Lovino, il contadinozzo analfabeta mai uscito da Palermo, sapeva benissimo che la cosa grigia che presto si sarebbe inghiottita suo fratello era lontana, molto lontana.

E nei suoi occhi, Feliciano poteva leggere la rassegnazione di chi capisce di star stringendo fra le dita acqua o sabbia.

Lovino sapeva di non poter fermare suo fratello e che il suo stupido, sorridente, inutilmente felice fratellino se ne sarebbe andato. Sapeva di non poter più sentire la sua voce per chissà quanto tempo, di non poter neanche scrivere una lettera in cui sfogare tutto il suo dannatissimo dolore perché non sapeva scrivere.

Feliciano guardava la nebbia diradarsi lentamente davanti a se, gli occhi asciutti perché le lacrime le aveva piante tutte la notte prima. Era stato impossibile dormire, col viso impassibile e la voce monocorde di suo fratello che fluttuavano nella sua testa.

 

 

 

 

 

Feliciano quando era partito era orribilmente ottimista.

Si aspettava di trovare subito un lavoro, una casa, una famiglia. Magari anche un cane.

Insomma, come tanti lui sognava il “sogno americano” fatto realtà.

Invece lui si ritrovò come tanti in una bagnarola bucata come il suo colapasta, stretto alla valigia giorno e notte per paura dei furti, disperato fra i disperati.

E il brutto bello peggio meglio resto doveva ancora venire.

La casa non fu difficile da trovare. Prese in affitto una stanza letto nella casa di un vecchio mezzo sordo che voleva solo due o tre dollari a settimana (ad averli, quei due o tre dollari!) e un aiuto nelle pulizie.

Il lavoro fu un po’ tanto peggio.

Innanzi tutto per quelli come lui non c’era mai lavoro. Se c’era era umiliante, poco pagato, lurido e alienante.

Oppure dovevi chiedere la carità. Ma Feliciano aveva un certo orgoglio, anche se piccolino e senza voce e avrebbe preferito di gran lunga il triste lavoro al caritare.

Anche se in effetti, in una Nazione tronfia e gonfia di falsa e deprimente retorica cattolica chiedere la carità era facile. Molti di quei borghesucci puzzoni pensavano che bastasse lasciare un dollaro in un cappello lacero per far sparire agli occhi di Dio quegli abiti brillanti da arricchiti dell’ultima ora e tutte le ipocrisie e le coltellate nascoste sotto il panciotto.

In realtà Feliciano non aveva mai capito una mazza di tutto ciò che è scritto sopra, ma erano le cose che diceva spesso Gilbert, un immigrato dell’Impero Tedesco (Enorme Terra degli Enormi Crucchi per gli amici) che assieme al fratello si presentava con lui ogni mattina ai cancelli del cantiere navale.

Ora, il gioco era questo: quelli che volevano il lavoro si presentavano al cancello. Se stavi spiaccicato al cancello c’erano più possibilità che il capomastro ti vedesse e quindi più possibilità di avere un lavoro.

Per quel giorno. Di certo non si parlava di un lavoro fisso e ben pagato, ma erano pur sempre soldi e solo Dio poteva sapere quanto avesse bisogno di quei soldi.

Era stato Gilbert a spiegargli tutte quelle cose. E sebbene all’inizio Feliciano aveva timore di quell’uomo (specie per via di quegli occhi rossi un po’ smorti, come quelli di un coniglio bianco in punto di morte) alla fine aveva imparato ad apprezzare quel torrente di parole e quel ghigno sbilenco tutto denti, fra l'altro sempre sporchi di tabacco.

Anche suo fratello era simpatico, sebbene parlasse una volta al giorno. Si poteva dire che Ludwig aveva un tetto massimo di parole. Quel tetto era di circa  sei parole che Feliciano aveva riconosciuto in: mh, mhmh, , no, signore, ciao. Dopodiché c’era la legnata. In genere il destinatario del coppino a molla di Ludwig era il povero Gilbert, colpevole di avere una parlantina da suocera e una lingua da vipera (ma in fondo dov’era la differenza?) che gli piaceva usare specialmente sul povero fratello impossibilitato a rispondere per la scarsa conoscenza dell’inglese, ma che non lesinava occhiate in grado di appiccare il fuoco anche alla paglia bagnata e sussurri inintelligibili in tedesco che anche lo spagnolo più cretino di questa terra avrebbe riconosciuto come minacce.  Insomma, il povero Ludwig poteva essere anche ignorante, ma di sicuro non era scemo.

Quella mattina Feliciano si era presentato prima dell’alba, spiaccicando subito il viso fra le sbarre, cercando di non fare la faccia troppo disperata né troppo decisa (Gilbert Docet.) circa dieci minuti dopo era arrivato uno sbadigliante Gilbert, accompagnato da una sorta di sacco di jeans semovente sporco d'olio per motori che a un più attento esame si rivelò essere Ludwig avvolto in una salopette.

- Dovresti comprare degli abiti migliori a tuo fratello.- disse Feliciano prendendo il pezzo di pane che Gilbert gli stava porgendo – Un così bel ragazzo non dovrebbe somigliare a una borsa per gli attrezzi.

- Ah, dillo a lui!- sbottò Gilbert spezzando un terzo pezzo di pane e porgendolo poi al fratello – Io gli vorrei far mettere qualcosa di meglio, ma lui dice che è meglio spedire i soldi ai nostri genitori, che i vestiti sono cose poco importanti e cose così.- sbottò agitando una mano in direzione del fratello  che masticava pacificamente poco più in là.

Effettivamente Gilbert pareva tenerci molto al suo aspetto. Nonostante tutti i suoi abiti erano sempre puliti, sebbene fossero ogni giorno gli stessi e i capelli sotto il cappellaccio strappato erano sempre profumati e puliti, come se fossero ben decisi a mostrare al mondo cos’era il vero candore.

Dal canto suo, Feliciano ci teneva relativamente. Nella sua valigia aveva certamente più abiti dei due tedeschi, ma alla fine dei conti aveva un completo della festa e un completo da tutti i giorni. E quando dico tutti i giorni intendo proprio tutti, eh.

Mentre masticava il suo pane si guardò un polsino della camicia, notando come il filo bianco stesse lentamente abbandonando la stoffa e come un bottone se ne fosse andato da un pezzo verso lidi più tranquilli.

Che tragedia sarebbe stata per suo nonno vedere il suo adorato nipote conciato così: lui aveva sempre voluto che i loro abiti fossero perfetti, anche se poi non potevano mangiare per un paio di giorni.

Era una questione d’orgoglio, diceva.

Ma sia Feliciano che suo fratello preferivano di gran lunga mangiare un giorno in più che avere una camicia in più.

Comunque, torniamo al filo del capitolo (perché questo capitolo ha un filo logico?).

La gente intanto si affollava attorno a loro. Immigrati e americani più o meno sporchi, più o meno cenciosi, più o meno puzzolenti si aggrappavano al cancello, negli occhi la stessa identica speranza e nascosta nel fondo del cervello, la stessa identica disperazione pronta a fare capolino se quella speranza fosse stata delusa.

Feliciano più di una volta si era ritrovato a pensare che era quella la vera “integrazione”.

 

   
 
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