Una
valigia di cartone
Titolo: Una valigia di cartone
Titolo capitolo: 01
Personaggi: Feliciano Vargas (Italia Settentrionale). Alfred F. Jones
(Stati Uniti d’America), Ludwig
Beilschmidt (Germania), Gilbert
Beilschmidt (Prussia), Matthew
Williams (Canada) [più comparse varie ed eventuali]
Rating: Rosso.
Generi: Boh. Introspettivo,
sentimentale, storico, a tratti erotico. Allegria!
Avvertenze: AU, yaoi, OOC.
Note: Boh. Nulla. Ambientata nel
1910-1912. Immigrazione. Allegria!
No, sul
serio, sono troppo pigra per scrivere delle note decenti.
Ah, il
riferimento agli spagnoli è spiegabile così: mentre gli italiani
dicono “per me la lingua X è arabo” i tedeschi usano dire di
“capire spagnolo” quando non capiscono nulla di quello che
l’altro sta dicendo. Ho immaginato che anche gli spagnoli non capiscano
un gran che di tedesco.
Ah,
questa storia avrà il vizio di divagare, parlare d’altro, girare
intorno alle cose…
Sì,
sono una scrittrice orrenda.
Ma mi
leggete per questo, no?*-*
Ah, la
scena di “è lontano il posto dove vai” è ispirata ad
un testo proposto durante un concerto di Cristricchi.
(ci
saranno di sicuro degli errori di
battitura. Se li vedete segnalatemeli. Segnalatemi qualunque errore, stronzata,
boiata scritta, incasinamento storico, chiedetemi qualunque cosa. Ma sappiate
che io so solo di non sapere una mazza di quello che vado a scrivere e sto
attaccata su wikipedia tutto il giorno (o.o) ciò non mi fa molto onore,
nonononono.)
[America/N.Italia]
[Prussia/Canada]
01
Suo
fratello non aveva capito dove stava andando o aveva fatto finta di non capire.
Fatto
stava che nei giorni prima della partenza le sue già poche parole
diventarono sempre meno, tanto che lui avrebbe voluto per lo meno sentirlo
bestemmiare. Almeno avrebbe sentito la sua voce.
Suo
fratello era un contadino analfabeta che non era mai uscito da Palermo e il
concetto di “America” doveva essere una strana cosa nebulosa, un
mostro senza braccia né occhi pronto a papparsi il suo sorridente
fratellino.
Ma l’ultima
cosa che gli disse (a parte quello “scrivimi, stronzo!” urlato dal
molo mentre la nave partiva) se la ricorderà tutta la vita.
Era il
giorno prima della partenza e il sole tingeva il cielo con tutti i colori del
rosso e del rosa. Suo fratello era entrato in camera sua mentre lui chiudeva la
valigia con lo spago e si era seduto sulla sedia accanto alla finestra.
Anche
quella sedia se la ricorderà per sempre: suo fratello ci si sedeva
sempre quando lui si ammalava. Passava tutta la notte seduto lì, a
canticchiare a mezza voce qualche canzone in un siciliano stretto che sembrava
il latino degli angeli.
Lui le
ascoltava dal suo lettuccio e sorrideva felice sotto le coperte. Suo fratello
non aveva mai ammesso di cantare quelle canzoni vecchie più del nonno
per farlo sentire meglio.
Ma
stiamo divagando.
Dunque,
suo fratello si era seduto su quella sedia e si era messo a guardare il cielo
dietro al vetro mentre lui chiudeva la valigia.
Ricordava
vividamente la sua voce che spezzava il silenzio e quelle parole –
È lontano il posto dove vai.
Aveva
pensato che fosse una domanda e stava già per dare la risposta, ma poi
suo fratello si era alzato ed era uscito dalla stanza.
Allora
aveva capito che Lovino non necessitava di una risposta, perché quella
non era una domanda.
Lovino,
il contadinozzo analfabeta mai uscito da Palermo, sapeva benissimo che la cosa
grigia che presto si sarebbe inghiottita suo fratello era lontana, molto
lontana.
E nei
suoi occhi, Feliciano poteva leggere la rassegnazione di chi capisce di star
stringendo fra le dita acqua o sabbia.
Lovino
sapeva di non poter fermare suo fratello e che il suo stupido, sorridente,
inutilmente felice fratellino se ne sarebbe andato. Sapeva di non poter
più sentire la sua voce per chissà quanto tempo, di non poter
neanche scrivere una lettera in cui sfogare tutto il suo dannatissimo dolore
perché non sapeva scrivere.
Feliciano
guardava la nebbia diradarsi lentamente davanti a se, gli occhi asciutti
perché le lacrime le aveva piante tutte la notte prima. Era stato
impossibile dormire, col viso impassibile e la voce monocorde di suo fratello
che fluttuavano nella sua testa.
Feliciano
quando era partito era orribilmente ottimista.
Si
aspettava di trovare subito un lavoro, una casa, una famiglia. Magari anche un
cane.
Insomma,
come tanti lui sognava il “sogno americano” fatto realtà.
Invece
lui si ritrovò come tanti in una bagnarola bucata come il suo colapasta,
stretto alla valigia giorno e notte per paura dei furti, disperato fra i
disperati.
E il brutto
bello peggio meglio resto doveva ancora venire.
La casa
non fu difficile da trovare. Prese in affitto una stanza letto nella casa di un
vecchio mezzo sordo che voleva solo due o tre dollari a settimana (ad averli,
quei due o tre dollari!) e un aiuto nelle pulizie.
Il
lavoro fu un po’ tanto peggio.
Innanzi
tutto per quelli come lui non c’era mai lavoro. Se c’era era
umiliante, poco pagato, lurido e alienante.
Oppure
dovevi chiedere la carità. Ma Feliciano aveva un certo orgoglio, anche
se piccolino e senza voce e avrebbe preferito di gran lunga il triste lavoro al
caritare.
Anche se
in effetti, in una Nazione tronfia e gonfia di falsa e deprimente retorica
cattolica chiedere la carità era facile. Molti di quei borghesucci
puzzoni pensavano che bastasse lasciare un dollaro in un cappello lacero per
far sparire agli occhi di Dio quegli abiti brillanti da arricchiti
dell’ultima ora e tutte le ipocrisie e le coltellate nascoste sotto il
panciotto.
In
realtà Feliciano non aveva mai capito una mazza di tutto ciò che
è scritto sopra, ma erano le cose che diceva spesso Gilbert, un
immigrato dell’Impero Tedesco (Enorme
Terra degli Enormi Crucchi per gli amici) che assieme al fratello si
presentava con lui ogni mattina ai cancelli del cantiere navale.
Ora, il
gioco era questo: quelli che volevano il lavoro si presentavano al cancello. Se
stavi spiaccicato al cancello c’erano più possibilità che
il capomastro ti vedesse e quindi più possibilità di avere un
lavoro.
Per quel
giorno. Di certo non si parlava di un lavoro fisso e ben pagato, ma erano pur
sempre soldi e solo Dio poteva sapere quanto avesse bisogno di quei soldi.
Era
stato Gilbert a spiegargli tutte quelle cose. E sebbene all’inizio
Feliciano aveva timore di quell’uomo (specie per via di quegli occhi
rossi un po’ smorti, come quelli di un coniglio bianco in punto di morte)
alla fine aveva imparato ad apprezzare quel torrente di parole e quel ghigno
sbilenco tutto denti, fra l'altro sempre sporchi di tabacco.
Anche
suo fratello era simpatico, sebbene parlasse una volta al giorno. Si poteva dire
che Ludwig aveva un tetto massimo di parole. Quel tetto era di circa sei parole che Feliciano aveva
riconosciuto in: mh, mhmh, sì, no, signore, ciao. Dopodiché c’era la legnata. In genere il
destinatario del coppino a molla di
Ludwig era il povero Gilbert, colpevole di avere una parlantina da suocera e
una lingua da vipera (ma in fondo dov’era la differenza?) che gli piaceva
usare specialmente sul povero fratello impossibilitato a rispondere per la
scarsa conoscenza dell’inglese, ma che non lesinava occhiate in grado di
appiccare il fuoco anche alla paglia bagnata e sussurri inintelligibili in
tedesco che anche lo spagnolo più cretino di questa terra avrebbe
riconosciuto come minacce. Insomma,
il povero Ludwig poteva essere anche ignorante, ma di sicuro non era scemo.
Quella
mattina Feliciano si era presentato prima dell’alba, spiaccicando subito
il viso fra le sbarre, cercando di non fare la faccia troppo disperata
né troppo decisa (Gilbert Docet.) circa dieci minuti dopo era arrivato
uno sbadigliante Gilbert, accompagnato da una sorta di sacco di jeans semovente
sporco d'olio per motori che a un più attento esame si rivelò
essere Ludwig avvolto in una salopette.
-
Dovresti comprare degli abiti migliori a tuo fratello.- disse Feliciano
prendendo il pezzo di pane che Gilbert gli stava porgendo – Un
così bel ragazzo non dovrebbe somigliare a una borsa per gli attrezzi.
- Ah,
dillo a lui!- sbottò Gilbert spezzando un terzo pezzo di pane e
porgendolo poi al fratello – Io gli vorrei far mettere qualcosa di meglio,
ma lui dice che è meglio spedire i soldi ai nostri genitori, che i
vestiti sono cose poco importanti e cose così.- sbottò agitando
una mano in direzione del fratello
che masticava pacificamente poco più in là.
Effettivamente
Gilbert pareva tenerci molto al suo aspetto. Nonostante tutti i suoi abiti
erano sempre puliti, sebbene fossero ogni giorno gli stessi e i capelli sotto
il cappellaccio strappato erano sempre profumati e puliti, come se fossero ben
decisi a mostrare al mondo cos’era il vero candore.
Dal
canto suo, Feliciano ci teneva relativamente. Nella sua valigia aveva
certamente più abiti dei due tedeschi, ma alla fine dei conti aveva un
completo della festa e un completo da tutti i giorni. E quando dico tutti i
giorni intendo proprio tutti, eh.
Mentre
masticava il suo pane si guardò un polsino della camicia, notando come
il filo bianco stesse lentamente abbandonando la stoffa e come un bottone se ne
fosse andato da un pezzo verso lidi più tranquilli.
Che
tragedia sarebbe stata per suo nonno vedere il suo adorato nipote conciato
così: lui aveva sempre voluto che i loro abiti fossero perfetti, anche
se poi non potevano mangiare per un paio di giorni.
Era una
questione d’orgoglio, diceva.
Ma sia
Feliciano che suo fratello preferivano di gran lunga mangiare un giorno in
più che avere una camicia in più.
Comunque,
torniamo al filo del capitolo (perché questo capitolo ha un filo
logico?).
La gente
intanto si affollava attorno a loro. Immigrati e americani più o meno
sporchi, più o meno cenciosi, più o meno puzzolenti si
aggrappavano al cancello, negli occhi la stessa identica speranza e nascosta
nel fondo del cervello, la stessa identica disperazione pronta a fare capolino
se quella speranza fosse stata delusa.
Feliciano
più di una volta si era ritrovato a pensare che era quella la vera
“integrazione”.