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Autore: Keiko    28/08/2010    2 recensioni
New York era viva, pulsante, spietata e fottutamente luminosa, costellata di luci artificiali che la rendevano un cielo in terra.New York era finta dall’inizio alla fine, era una stronza rifatta che però non aveva copiato nessuno di già esistente ma si era creata da sola a propria immagine e somiglianza, con lo sporco e lo splendore che possono celarsi all’interno di ogni essere vivente.Per Frank Iero New York era un’essenza a parte, un’anima che racchiudeva quelle di coloro che decidevano di immolargli la propria come se fosse un idolo pagano.A New York offrivi la vita, lei ti dava la libertà che non avresti trovato da nessun’altra parte al mondo.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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A Sweet Revenge © [15/09/2008]
Disclaimer: I My chemical Romance (Mikey Way, Gerard Way, Frank Anthony Iero, Bob Bryar e Ray Toro nella loro ultima formazione), Jamia Nestor, Alicia Simmons e Lyn-Z (bassista dei Mindless Self Indulgence) sono persone realmente esistenti. I personaggi originali non sono ovviamente persone realmente esistenti, ma semplice frutto della mia immaginazione. La storia è frutto di una narrazione di PURA FANTASIA che mescola la mia visione di fan a eventi storicamente accaduti e rumors spulciati in rete, destinata al diletto e all'intrattenimento di altri fans. Non si persegue alcun intento diffamatorio o finalità lucrativa. Nessuna violazione dei diritti legalmente tutelati in merito alla musica ed alla personalità degli artisti succitati si ritiene dunque intesa.



Non era amore il loro, era semplicemente affetto fraterno.
Molto più di affetto fraterno, molto meno di amore: può esistere un sentimento simile?
Quando avevano deciso di fuggire rubando l’auto sgangherata di suo padre non si erano posti il problema di dove andare: l’importante era partire – o meglio, fuggire – e la meta non aveva importanza.
D’altra parte, finisci sempre per arrivare dove vorresti perché esiste un luogo che è tuo e che ti attende a braccia aperte solo per dirti “Benvenuto a casa”, perché per ogni luogo che ti va stretto come la maglia del tuo fratello minore è matematico ne esista un altro che invece ti calza a pennello.
Il loro era di certo New York.
“Se siamo idioti, Gee. Come cazzo pensi di riuscire ad andare da qualche parte ora?”
Frank l’aveva fissato con quei grandi occhi dal colore indefinito – e in quel momento erano di un verde cupo striato d’oro a causa dei raggi del sole sul terriccio rossastro – dando un calcio al copertone della ruota che girava a vuoto nell’aria.
“E’ andata bene che non ci siamo ammazzati, consoliamoci così. Che facciamo ora?”
A Gerard le highway erano sempre piaciute, gli davano un senso di libertà che lo costringevano ad essere euforico anche quando le cose non andavano proprio per il verso giusto. In quel senso – e per molti altri a dire il vero – era identico a suo fratello Mikey. Il suo adorabile e preziosissimo fratello, quello che per inciso aveva abbandonato a casa per scappare con il suo migliore amico.
Perché?
Il sogno della libertà andava prima assaporato e poi condiviso: se lui e Frank si fossero sbagliati, a casa ad attenderli ci sarebbero state rispettivamente una madre totalmente disinteressata e una genitrice ansiogena che pretendeva che il suo unico figlio fosse un modello di virtù.
Per quanto Frank potesse essere un figlio modello erano le idee a essere pericolosamente in bilico sul filo della scorrettezza morale, e per quanto Linda fosse adorabile e avesse fatto da madre anche all’amico scapestrato della sua disgraziata prole, era una donna che aveva cresciuto un adolescente in perfetta solitudine lasciandogli quindi un ampio margine di autodeterminazione.
Gerard fissava Frank con aria infastidita: odiava dover ammettere che in fondo erano nella merda, e probabilmente avrebbero dovuto navigarci per svariate miglia a giudicare dal cartello che indicava la distanza che li divideva dalla Grande Mela.
Way si era chiesto spesso perché New York avesse quell’appellativo tanto idiota, specie perché di coltivazioni di quel genere non se ne trovavano di certo e ricordava perfettamente di immaginarsi, quando era bambino, la metropoli come un’enorme mela rossa e lucidissima – invitante come solo le mele avvelenate della Matrigna di Biancaneve potevano essere – da cui faceva capolino un bruco verde dall’espressione simpatica che invitava i passanti a entrare nella propria dimora.
Di tutto ciò, gli era rimasto il desiderio di entrare in quell’abitazione bizzarra e visitarne i meandri, di scoprirne gli anfratti più segreti e sentirli totalmente suoi.
Era rimasta pure la luce abbagliante che faceva brillare i grattacieli come se fossero stelle a un soffio dal cielo, le vetrate su cui si riflettevano rimbalzando i raggi del sole, le vetrine delle boutique ricche di bagliori preziosi e le insegne al neon dei locali immersi nei vicoli sporchi.
Anche la patina più merdosa che poteva aleggiare su New York riusciva a brillare di vita propria grazie al sinonimo che racchiudeva in sé: libertà.
“Aspettiamo che passi qualcuno disposto a darci uno strappo, almeno potremo riuscire ad avvicinarci. E’ ancora presto, potremmo arrivare anche prima di sera.”
Seduti dietro l’auto distesa su due ruote, i due fissavano il terreno di sabbia bianchissima al di là del quale si estendeva una cordicella d’acqua bluastra e al di qua la highway verso New York.
“Potevamo effettivamente ammazzarci, Frank. Se fossimo morti, come cazzo avremmo fatto?”
“Non siamo morti, consolati con questo. Insomma, capita a tutti di finire fuori strada per schivare uno stupidissimo animale – non meglio identificato – rotolando su sé stessi per centinaia di metri. E’ nella norma.”
“Il tuo sarcasmo del cazzo non è adatto alla situazione.”
“Nemmeno la tua scarsa auto-ironia, Gee. Ad ogni modo, se fossimo morti non saprei… a me sarebbe piaciuto essere un fantasma.”
“Ma che schifo, è una palla la vita da fantasma.”
“E perché scusa? Puoi vedere quello che fanno le persone a te care quando non ci sei, puoi vedere quanto eri importante per loro, puoi percepire le cose in modo del tutto differente.”
“Secondo me è una cazzata. A parte il fatto che se le persone che spii – perché fai il guardone da fantasma, lo sai? – di te e della tua morte se ne sbattono ci rimani proprio di merda, ma poi come fai a dire che le cose le senti in modo diverso? Hai letto qualche guida su come diventare un fantasma modello per caso?”
Frank gli aveva risposto con un gestaccio mentre fissava la carrozzeria dell’auto arrugginita. La sua auto guidata da Gee ora ridotta a un rottame ambulante, perché dopo quattro capriole su sé stessa su di una morbida distesa di sabbia candida sarebbe stato utopistico credere il contrario e poco ma sicuro, la dolce Pansy aveva deciso di dormire lì le notti a venire.
“E a te, cosa sarebbe piaciuto diventare?”
“Nulla. Mi sarebbe bastato restarci secco sul colpo piuttosto che paralizzato. Pensa ad una vita in cui puoi parlare, udire, gustare, vedere, sfiorare e muovere ogni tuo singolo muscolo: è la normalità. Poi d’improvviso ti viene a mancare una sola di queste cose: come ti sentiresti? Non potresti emettere alcun suono – e allora, addio musica e stronzate -, non potresti udire quella degli altri o il casino sotto casa tua sino alle tre del mattino, non potresti mangiare le schifezze che adori tanto perché non ne riusciresti a cogliere il sapore oppure non potresti camminare o magari muovere una mano o un braccio o chissà che altro. Come ti sentiresti?”
Frank lo fissava senza fiatare, gli occhi leggermente dilatati in un’espressione vigile, intimorita quasi. Frank adorava Gerard al punto da conoscere ogni più piccola sfumatura del suo carattere eppure quei buchi neri che si dilatavano dalle sue parole nei momenti meno opportuni – e per un divertimento del destino, quando tutto attorno lasciava intendere un’allegria dirompente – lo coglievano sempre impreparato.
Gerard contrastava sempre l’allegria del mondo con la tenebra che aveva dentro, ma non sempre il buio racchiude la malevolenza: a volte, nasconde solo sofferenza.
“Mutilato?”
“Esatto. Io non vorrei mai sentirmi un peso o peggio, sentirmi pesanti il cuore o le parole che non vogliono uscire se non per gorgoglii sommessi privi di significato. Sarebbe come cessare di vivere solo per metà mentre per l’altra metà sarei un vegetale. Quindi preferire morire e tanti saluti al mondo.”
“Beh, dopo questi discorsi deprimenti con un mare da urlo a uno sputo da noi, andiamo ad aspettare questo cazzo di passaggio o no?”
Frank si era sollevato in piedi dando alcuni calci alla sabbia, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni a cercare l’accendino nel disperato tentativo di accendersi una sigaretta che non possedeva.
“Hai una sigaretta, vero?”
“Sei proprio idiota.”
“Le ho finite mentre guidavi la mia auto.”
“Il tuo macinino vorrai dire.”
Frank si era acceso la Marlboro, sbuffando una lunga alitata di fumo verso l’amico senza degnarlo di un’attenzione più che rilevante.
“La mia auto, dato che qualcuno di mia conoscenza guida come un ubriaco anche da sobrio.”
“Andiamo va’ o non arriveremo mai in tempo.”
“Pensa se troviamo un serial killer, Gee. Sarebbe proprio una fine del cazzo.”
“Guarda, per uno che vuole diventare un fantasma una morte atroce è il metodo più rapido per arrivare al risultato tanto desiderato.”
Camminare sotto il sole a picco del primo pomeriggio – su di una distesa di sabbia e terriccio che degradava in spiaggia parecchi chilometri più lontano da loro, nonostante il mare si vedesse anche da lì a causa del piccolo promontorio su cui si trovavano – in un’afosa giornata estiva sarebbe stata la morte cerebrale di chiunque, ma per Frank era semplicemente un modo come un altro per rompere le palle.
Seduti sul ciglio della strada l’uno accanto all’altro, Frank si era sfilato la maglietta attorcigliandola su sé stessa e sventolandola sulla propria testa come se fosse il lazzo di un cow boy, sollevando polvere tutt’intorno.
“Senti, la smetti? Mi arriva la sabbia negli occhi e non riesco a scrivere.”
Gee adorava scrivere, lo faceva sempre: scriveva canzoni che poi rifilava a Ray chiedendogli di comporgli qualche melodia sensata con la chitarra ma poi, il tutto si riduceva sempre a un nulla di fatto.
Cinque idioti che suonano per il solo gusto di ammazzare il tempo sono destinati a restare sempre chiusi nella propria topaia, senza aspirare a null’altro se non avere una vita normale, figli normali, mogli normali e una cazzo di lobotomizzazione normale.
Frank aveva la certezza che solo una sfuriata di Gerard avrebbe potuto far prendere al loro gruppo una piega diversa: non professionale, ma almeno credibile per loro.
Erano i primi a non prendersi sul serio, a trovarsi per provare le canzoni di Gee e dopo mezz’ora a guardare film horror alla tv bevendo birra e mangiando patatine accantonando in un angolo gli strumenti.
La musica c’era, loro la amavano, solo che erano troppo idioti per prenderla sul serio.
Se non sei il primo a credere in te stesso non puoi certo pretendere che lo facciano gli altri.
“I'll never let them, I'll never let them
I'll never let them hurt you now tonight
I'll never let them, I can't forget them
I'll never let them hurt you, I promise” (*)
Gerard aveva ignorato l’amico, ostinandosi a tenere il naso a pochi centimetri dalla propria moleskine.
“Sembri un pappagallo isterico: stai zitto cinque minuti?”
“Gee perché non canti anche tu? Ti farebbe bene e scaricheresti il nervosismo molto più che scrivendo pensieri deprimenti su quel libraccio nero portasfiga. Secondo me siamo in questa situazione per colpa di quel coso. Non è che l’hai comprata in qualche negozietto di dubbio gusto e ti hanno rifilato un’agenda stregata?”
“Ma vaffanculo Frankie. Spiegami perché devi sempre pensare a cose tanto idiote!”
“Chi te l’assicura che non sia così?”
“Il fatto l’abbia comprata alla Virgin e non da un cazzo di rigattiere?”
“Ah.”
Frank si era fissato le ginocchia lasciate scoperte dai jeans strappati, le braccia a penzoloni tra di esse e la maglietta stretta tra le dita.
“Gee mi sto annoiando, non passa nessuno di qui. Potremmo morire di stenti o che so io!”
“Ma perché tutte le più disparate e oscene tipologie di morte vengono in mente solo a te?”
“Troppi film e libri horror.”
“No, troppo scemo.”
In quel momento era stato un piccolo furgoncino a oltrepassare la curva e immettersi nel rettilineo di strada occupato dai due amici e Gerard si era prontamente sollevato in piedi richiedendo con gesti educati un passaggio, attirando alla meno peggio l’attenzione del camionista.
“Visto? E’ perché ho la faccia da bravo ragazzo e mi comporto da persona civile.”
“Io avrei tirato giù i pantaloni, al massimo si fermava qualche macchina carica di tipe.”
“Certo, e si sarebbero sicuramente cagate un nanetto come te. Accontentati di quel che ti offre la vita e sali, o a quest’ora con il tuo metodo avremmo solo trovato un camionista dai dubbi gusti sessuali.”
“Cos’hai contro i gay?”
“No, sono dubbi perché ci sei tu per protagonista. Saliamo prima che il nostro salvatore ci lasci a piedi.”
“Buongiorno, dove siete diretti ragazzi?”
“New York.”
“Vi lascio in periferia, è un problema per voi? Da lì i mezzi pubblici per arrivare dove volete sono facilissimi da reperire.”
“Oh, è perfetto!”
Gerard aveva rifilato una gomitata nei reni all’amico, intimandogli di tacere e sfoggiando un falsissimo sorriso a trentadue denti da bambino modello.
Frank si era così limitato ad accusare il colpo e fissare al di là del finestrino la costa sfrecciare rapida verso l’entroterra, sparire e lasciare spazio ai primi accenni di New York.
New York, cazzo.
La città più spaziale del mondo, il luogo dove avrebbe desiderato nascere, vivere e morire se solo avesse potuto scegliere un luogo. Lui adorava i posti incasinati, osservare la gente, passeggiare e sentirsi addosso gli sguardi distratti dei passanti, avvertire gli umori altrui scivolargli addosso ed entrargli dentro insieme all’aria che respirava.
New York era viva, pulsante, spietata e fottutamente luminosa, costellata di luci artificiali che la rendevano un cielo in terra.
New York era finta dall’inizio alla fine, era una stronza rifatta che però non aveva copiato nessuno di già esistente ma si era creata da sola a propria immagine e somiglianza, con lo sporco e lo splendore che possono celarsi all’interno di ogni essere vivente.
Per Frank Iero New York era un’essenza a parte, un’anima che racchiudeva quelle di coloro che decidevano di immolargli la propria come se fosse un idolo pagano.
A New York offrivi la vita, lei ti dava la libertà che non avresti trovato da nessun’altra parte al mondo.
“Come mai siete soli e appiedati in mezzo al nulla?”
“Oh, abbiamo avuto un’avaria al motore dell’auto e dobbiamo assolutamente raggiungere New York per cercare qualcuno che possa darci una mano per risistemare il tutto.”
Gerard si era limitato a guardare al di là del finestrino, senza prestare attenzione alle giustificazioni sceme del suo migliore amico, quello che ti salvava il culo con la sua proverbiale faccia da schiaffi e che per contro ti offriva una lealtà da cagnolino fidato.
Frank era il migliore amico del mondo e sarebbe stato proprio lui a tradirlo.
Gerard Way, colui che sempre faceva la parte del padrone e quando abbandoni un amico tanto fedele, cosa gli resta? La tristezza del peggiore dei tradimenti nello sguardo.
New York era all’orizzonte e si sentiva come pervaso dalla sensazione di dover scegliere in quell’istante l’esito di tutta la sua esistenza.
Raggiungere il sogno, toccare la vetta e sacrificare ciò che era necessario per arrivarvi: essere senza scrupoli al punto da abbandonare tutto per un fottuto sogno. Quanto si faceva schifo in quel momento non avrebbe saputo dirlo.

“Ed ora che facciamo?”
Gerard si era guardato attorno, scrutando la strada deserta che conduceva all’interno della Grande Mela: un tunnel illuminato a giorno, una highway che ti portava direttamente nella pancia della balena, come Jona.
“Ci facciamo una passeggiata, che dici?”
“Hai deciso cosa faremo quando saremo là dentro?”
“Ho deciso cosa farò io, tu?”
“Io ho una cosa che mi porterò a casa.”
Gee gli aveva lanciato un’occhiata di sottecchi senza aggiungere altro: Frank voleva ritornare a casa, lui voleva poter chiamare New York, “casa”.
Il pensiero di doversi separare da Frank gli faceva abbastanza paura – anzi, una paura folle a essere sinceri – ma al contempo questo lo irritava: se trovi qualcuno da cui dipendi emotivamente, non riuscirai mai a essere davvero indipendente e cercherai sempre qualcuno che possa scaldarti il cuore, anche a pagamento.
Gerard non voleva dipendere da nessuno, ma era inevitabile provare una stretta al cuore quando stavi mentendo al tuo migliore amico no?
“Allora io proporrei di dividerci e di ritrovarci in un determinato luogo domani mattina. Che dici?”
“E se succede qualcosa?”
“Non accadrà nulla, Frankie. E’ New York, non sarà mai peggio del Jersey.”
“Già.”
“Sei nervoso per caso?”
Frank dava calci al nulla, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni e le spalle leggermente incurvate in avanti: nulla a che vedere, insomma, con l’aria spavalda con cui cavalcava la vita ogni giorno.
“Pensieroso. Se New York ci cambia?”
“Meglio no?”
“No, dico se lo fa ma in peggio. Sai, come quando si dice che le persone che diventano famose poi si montano la testa e diventano estranee persino ai loro genitori? Ecco, una cosa così.”
“Guarda che una notte a New York non ci può cambiare così tanto.”
“Lo pensi tu questo, non ne hai la certezza però.”
Frank borbottava sempre quando qualcosa non lo convinceva, come se parlasse più tra sé e sé che non con il proprio interlocutore o forse, aveva già intuito quello che aveva in mente Gerard.
Secondo la sua visione distorta del mondo, il solo respirare l’aria di New York avrebbe potuto trasformarti in un mostro e forse era per quello che guardava il terreno su cui camminava, come se respirare polvere fosse meglio che respirare aria malsana.
Erano partiti con l’idea di fuggire a New York e restarci per sempre poi, forse anche a causa dell’incidente, avevano optato per una notte soltanto e poi forse, vi sarebbero ritornati per restarci. Gli Anni Settanta non erano felici per nessuno, erano la via di mezzo tra i ribelli Anni Sessanta e i ruggenti Anni Ottanta e a loro non restava che la placidità di un decennio fatto di noia quotidiana e una guerra fredda che li imbrigliava agli Stati Uniti.
La guerra in Vietnam era stata troppo lontana – e loro ancora troppo piccoli per utilizzarla come pretesto per fuggire da Belleville – e non c’era nulla se non New York e le sue mille luci invitanti da luna park, i grattacieli che si stagliavano verso il cielo, le piazze enormi, i parchi sconfinati, il tutto costruito su una scala anomala di unità di misura che ti faceva sentire sempre troppo piccolo.
New York era un gigante che doveva farti paura se restavi fuori dalle sue mura ma che se ti lasciava il libero accesso, ti accudiva come una madre amorevole.
“Beh direi che possiamo fermarci, che dici?”
Erano arrivati al primo grande incrocio di New York, troppo sporco per essere considerato parte del centro della città. Per una metropoli che in realtà era uno stato e ne aveva inglobati altri al proprio interno, era difficile definire poi i contorni dei propri confini, ma quello che volevano loro – il nocciolo di quella mela perfetta e succosa – avrebbero potuto trovarlo anche lì, nella periferia viva e violenta che ricordava il Jersey.
In qualche modo devi riuscire a trovare casa tua anche lontano da essa.
Tacitamente, senza dirsi nulla, il pensiero era lo stesso per entrambi: restiamo qui, tra i perdenti. Il mondo fuori fa troppa paura e noi non siamo ancora pronti per farci chiudere in faccia le porte scintillanti e profumate di pulito dei grandi hotel.
“Ci troviamo domani mattina in questa tavola calda?”
Gerard aveva indicato una bettola in cui una ragazza volteggiava tra i tavoli con la sensualità di una vecchia: perché le donne si ostinavano a voler nascondere sempre sé stesse? Che schifo.
“Allora siamo sicuri? Potremmo cercare un concerto da vedere, un locale in cui sbronzarci o…”
“Frank puoi anche ritornare a casa, non ti ho chiesto di seguirmi a tutti i costi.”
“Già. Buona fortuna Gee, ci vediamo all’alba per cui evita di ritardare come tuo solito.”
Gli aveva fatto un cenno con la mano e poi si era allontanato percorrendo un vicolo a caso tra quelli laterali alla tavola calda. Forse si sentiva ferito o tradito, forse voleva semplicemente allontanarsi da lui prima che fosse davvero troppo difficile riuscirci.
Quando tutto è a dimensione di gigante non puoi fare altro che aggrapparti ai tuoi simili per contrastare un poco quel senso di alienazione, perché tutto sembra pronto per schiacciarti con un semplice passo.

Non si erano detti cosa avrebbero fatto una volta giunti a New York: rassicurata Linda sulla certezza che non si sarebbero separati mai, avevano convinto la madre di Frank a farli partire.
Per il campeggio, ovviamente.
New York era troppo forte e crudele perché il povero, piccolo Frankie potesse mettervi piede.
Cazzate.
Lui desiderava New York come avrebbe potuto desiderare una donna ed anzi, la donna in questione, nemmeno lo prendeva in considerazione.
Lui era un perdente, Gerard era un perdente, Mikey era un perdente. Come cazzo fai a prendere in considerazione un tizio che come miglior amicizia influente poteva esibirti il barista dell’autogrill sulla highway?
Frank Iero era stato così costretto a rivedere da zero la sua tecnica di approccio con Gina ovvero, puntare a Jamia Nestor. In genere le donne ti considerano maggiormente se sei interessato alla loro amica – non aveva valutato ci fosse anche il complemento “del cuore” ma tant’è, Frank non prendeva mai in considerazione tutti i fattori in causa – quindi aveva dirottato le proprie attenzioni sull’altra con cui aveva in comune, almeno in apparenza, la passione per la musica.
Certo, rimorchiare Gina – o Jamia – con qualche concerto idiota fatto dalla sua band, anzi dalla band di Gerard, equivaleva a decidere di fottersi definitivamente le già nulle possibilità.
Perché doveva soffrire per una tizia che non lo filava minimamente?
Probabilmente per puro spirito sadico.
New York non aveva mai finito di brulicare di vita e rigurgitare persone per la strada, come se non dormisse mai. Non si era nemmeno reso conto che camminando, si era spinto probabilmente molto vicino ad una delle zone residenziali e si era bruscamente arrestato, fissando quella perfezione tutta americana di aiuole geometriche e casette dai tetti spioventi, tutte uguali e lineari nella loro uguaglianza.
Anche lì, c’era un pezzo di Belleville e non lo sapevano.
Frank avrebbe preferito ignorare una cosa simile comunque, perché passeggiare per quel tranquillo quartiere gli dava l’assurda sensazione di camminare in un luogo familiare e New York non doveva essere ospitale, ma stronza.
Se fosse stata dolce, amorevole, delicata non sarebbe più stata New York, perché le mele migliori sono quelle più lucenti. Poi, in genere, sono pure quelle avvelenate ma che importanza ha, quando al tatto e alla vista paiono rubini?
“Oh, scusa.”
Qualcosa – o meglio, qualcuno – l’aveva urtato finendogli praticamente tra le braccia.
Era una tipa dall’aria distratta stretta in una divisa scolastica da liceo privato, la giacca perfettamente stirata e la gonna dalle pieghe simmetriche e perfette troppo corta perché lei non vi avesse passato una rapida cucita verso l’alto, e Frank l’aveva fissata piuttosto spaesato e confuso.
Non si aspettava un viso così pulito lì in mezzo o meglio, non se lo aspettava così sincero.
Da un quartiere costruito ad arte si aspettava abitanti finti, non il ritratto della spontaneità che lo fissava con un certo imbarazzo.
“Ehm… ti ho fatto male?”
“No, piuttosto ti sei fatta male tu?”
“No, figurati. Sono la solita distratta. Non vivi qui, vero?”
“Sono solo di passaggio, stavo cercando un tatuatore.”
Lei l’aveva fissato accigliata, come se la richiesta fosse abbastanza stramba.
“Hai sbagliato strada allora. Il più vicino lo trovi a due isolati da qui, però è eccezionale.”
“Davvero?”
“Si, l’ho provato direttamente.”
Aveva sollevato un polsino della camicia che lasciava intravedere un braccialetto di perle di corallo a tre giri, sotto cui poteva notare in modo indistinto una frase di un acceso rosso che si confondeva con la maglia del gioiello, probabilmente ricordo dell’estate passata al mare.
Frank l’aveva fissato euforico: aveva trovato una tipa carina che gli aveva pure rifilato il nome di un tatuatore. Lui da New York voleva portarsi a casa qualcosa che gli rimanesse sulla pelle per sempre, non solo una serie di emozioni amplificate dall’aura da gigante che aleggiava su tutta la città.
Lei continuava a fissarlo incuriosita, un po’ scettica forse, mentre lui se ne restava in mezzo alla strada come un idiota senza spiaccicare parola.
“Ehi, tutto okay?”
Sembrava fatto.
“Hai da fare? Perché credo che potrei perdermi, non ho molto senso dell’orientamento e…”
“Mia madre mi uccide se faccio tardi, ma posso accompagnarti sino al primo incrocio. Poi da lì devi proseguire sempre dritto per cui è impossibile che ti sbagli.”
Aveva fatto dietro front su sé stessa senza prestare realmente attenzione al fatto che lui la seguisse o meno, e si era diretta in modo spedito verso la prima laterale del quartiere.
“Quanti anni hai?”
“Diciassette, e tu? Non sei di New York vero? Hai l’accetto del… Jersey?”
“Diciotto. Conosci qualcuno laggiù?”
“I miei sono divorziati e mio padre vive da quelle parti. Ho visto parecchi concerti in quella zona, a livello musicale è persino più ricca di New York.”
“Ti piace la musica del Jersey?”
Il loro bugigattolo di stato sfornava punk, punk e ancora punk. Trovare una tipa che ne capiva qualcosa senza avere una cresta rosa in testa ma lunghi capelli di un acceso rosso arruffati in morbide onde, era un miracolo.
Anzi, un chiaro segnale che New York lo godesse come poche altre persone in giro: era un predestinato a vivere lì, forse.
“Beh, che c’è di strano? Mio padre non ama che vada ai concerti ma fuggo ugualmente da casa sua quando c’è qualcosa che mi interessa. La convivenza non è mai il massimo con il genitore che non vedi mai.”
“Anche i miei genitori sono divorziati, ma io li amo incondizionatamente entrambi.”
“Sono fortunati. E sei fortunato anche tu. Significa che sono persone eccezionali nonostante ti abbiano diviso a metà il cuore. Eccoci arrivati. Da qui prosegui sempre dritto, ad un certo punto sulla sinistra troverai una tavola calda che si chiama Panters. E’ il covo della squadra di football del mio liceo, per cui ti conviene girare al largo da quegli idioti. Superala e volta nel vicolo subito successivo e lì, ritrovi lo studio di Kat. Lei è favolosa e carina da morire, farà quel che vuoi.”
Frank si era ostinato a rimanere in silenzio ma fu proprio quando gli aveva abbozzato un sorriso per congedarsi in modo educato da lui che seguendo l’impulso che l’aveva trascinato sino a New York, l’aveva baciata stringendo tra le proprie le mani della ragazza.
“Grazie.”
“Ehi! Ma cosa diavolo ti salta in mente?”
Lei stizzita gli aveva gridato dietro qualcosa ma lui aveva smesso di udire quella voce non appena aveva appoggiato le proprie labbra sulle sue, pervaso dalla certezza di aver afferrato al volo la dolcezza del sorriso di una sconosciuta che l’aveva condotto sulla strada del suo sogno indelebile.
Frank Iero si sentiva come se avesse sul serio il fato stretto tra le proprie mani, euforico all’idea di aver fatto qualcosa per cui mai avrebbe trovato il coraggio in una situazione diversa. Per esempio, non ce l’avrebbe mai fatta a baciare Gina per farle capire quanto era innamorato di lei.
Ma poi era davvero innamorato o era l’inseguimento dell’ennesimo sogno impossibile a rendere una stupida gara un amore immortale?
Aveva bruscamente arrestato la sua corsa proprio su quel punto, come se la certezza di non aver capito un cazzo della propria vita gli avesse otturato ogni neurone libero.
Non aveva ancora deciso cosa farsi tatuare, ma in quel momento quel bacio stupido e privo di significato si era trasformato nel manifesto di ciò che avrebbe voluto essere: uno che non indietreggiava mai, uno di quelli che il destino se lo costruivano da sé.

Vagare per una New York pullulante di vita da solo faceva uno strano effetto. Forse era vero che le avventure andavano sempre vissute con gli amici, ma Gerard era deciso a non ritornare mai più a Belleville.
Non si aspettava che New York fosse magnanima con lui, tutt’altro: si aspettava calci nei reni e pugni in faccia, ed era proprio per quel motivo che Mikey e Frank sarebbero arrivati dopo, quando tutto era già stato ripulito dal sangue e dalla merda.
Aveva visto Frank dirigersi verso quello che probabilmente doveva essere il centro nevralgico della metropoli, prendendo automaticamente la strada opposta.
Lontani e soli, con il desiderio di essere liberi anche dai legami più essenziali perché a volte occorreva disfarsi anche del cordone ombelicale di rapporti vitali per trovare la propria strada.
Lo colpì sopra ogni cosa, la grande mela luminosa dell’insegna che richiamava clienti in un locale davvero minuscolo.
Era quella la sua mela scintillante?
Gli pareva un richiamo, un segno del destino o anche solo la serie di sassolini candidi lasciati da Pollicino per ritrovare la strada di casa.
C’era puzzo di piscio e vomito lì fuori, e i bidoni della spazzatura ribaltati in mezzo alla strada ne aumentavano il fetore, ma quella luce di un rosso incandescente lo chiamava, ipnotico come il canto di una sirena.
Il locale era lo specchio perfetto del degrado che vi era all’esterno, traboccante di giovani che ondeggiavano al ritmo di musica punk che Gerard non aveva mai udito, forse perché troppo differente da quella del Jersey.
Si era seduto al bancone ordinando una birra: poteva permetterselo solo da pochi mesi, eppure gli pareva fosse una delle poche cose al mondo che sapevano dargli un po’ di piacere, oltre alla musica.
C’era qualcosa lì dentro a metterlo a disagio. Se ne accorse quando iniziò a pervaderlo un senso di inquietudine come se… se qualcuno lo stesse studiando, ed eccoli lì, due occhi neri come la pece – talmente scuri da potervi scorgere dentro la luce – intenti a seguirlo in modo vigile.
Gerard non ci sapeva fare con le donne e poi, una sconosciuta che ti fissava a quel modo arrivava persino ad irritarti se tutto quello che desideravi era ascoltare buona musica e trovare un letto che ti accogliesse nelle notti a venire.
“Non sei di queste parti, vero?”
Voce acuta ed occhi di tenebra.
“Da cosa lo capisci?”
“Da come ti guardi intorno, sembri un bambino che viene portato per la prima volta allo zoo. Sei carino.”
Nessuna era mai stata così con lui, ma quando ti considerano un perdente è normale che le ragazze ti evitino e tutto quello che era riuscito a mugugnare in risposta, era stato chiedere al barista una birra per la sconosciuta.
E il tempo era volato in un battito di ciglia.
Avevano parlato – di nulla in realtà -, avevano bevuto – sino a vedere le luci amplificate -, avevano ballato – sino ad avere il fiato corto e stroncato in gola come se avessero fatto l’amore -, ed avevano riso.
Soprattutto quello, come se la libertà fosse passare una serata con una sconosciuta che riesce a metterti a tuo agio senza nemmeno chiederti come ti chiami.
Lei l’aveva trascinato poi sui divanetti laterali al palco ormai lasciato vuoto dai gruppi della serata, il petto che si alzava e si abbassava in modo violento sotto la maglietta, e la mano rovente che non si staccava dalla sua.
Gerard captava solo quel tocco, osservava il petto e ne vedeva il cuore al di sotto battere impazzito per fuggire dalla gabbia d’osso in cui era costretto.
“Sei carino.”
Gliel’aveva ripetuto spostando lo sguardo su di lui, sorridendo con le guance accaldate e il trucco colato.
Era bella in quel ritratto selvaggio da musa punk, bellissima.
Poi, era stato il cambio violento della colonna sonora della serata a mostrargli un susseguirsi di fatti troppo veloci perché riuscisse a coglierli realmente, ad assaporarli e goderne a pieno.
La bocca lucida di rossetto color fragola sulla sua, lingue intrecciate e sapore di birra, lei seduta cavalcioni sopra di lui e le dita di un cantante inesperto che si infilavano sotto una gonna troppo corta per essere considerata un indumento vero.
Il bacino di lei che premeva contro il suo e le dita leggere che armeggiavano con la zip dei pantaloni erano la cosa più viva che avvertisse in quel momento, e lo sentiva in modo del tutto passivo nonostante fosse eccitato come mai prima di allora.
Le labbra di lei continuavano a premere sulla sua bocca, insistenti, e Gerard non riusciva ad arginare la passionalità con cui quella sconosciuta lo costringeva al divanetto.
Non era solo passione, era rabbia.
E quello non era chiaramente amore, ma sesso.
Gerard Way aveva avuto una sola donna sino ad allora, una che poi l’aveva scaricato dopo il ballo di fine anno: allora perché una sconosciuta bellissima lo stava utilizzando come la propria valvola di sfogo?
C’era qualcosa in lui che combatteva per non arrivare sino in fondo, per non sentirsi poi vuoto e totalmente stupido, ma dall’altra parte, il suo corpo assecondava ogni capriccio di quella metà che gli sedeva sopra e che sinuosa, si muoveva con la delicatezza di un felino.
“Lo vuoi davvero?”
Gli aveva passato una mano tra i capelli scuri e di rimando, lui aveva fatto la stessa cosa.
Era una sensazione piacevole e dolce, come se a passare tra le sue dita fosse acqua purissima.
“Non lo chiede l’uomo di solito?”
“Sono solo cazzate queste. Ma sembri… teso.”
Gli parlava sfiorandogli continuamente le labbra con le proprie, ogni parola un sospiro che gli entrava in gola.
Impazzito, ecco cos’era.
Totalmente folle di una sconosciuta che lo condotto all’esasperazione attraverso l’attesa, con la mente in lotta con il corpo per non cedere.
Se non avesse giocato con lui sino a quel punto, probabilmente avrebbe resistito ma arrivato al limite estremo, agognava quel piacere che solo una donna sa darti quando sono mesi che non hai nulla se non la compagnia di te stesso chiuso nel cesso di casa tua.
“Sei pazza.”
“Anche tu.”
Gli aveva sorriso, infilando la mano dentro i pantaloni, carezzando quel lato di lui che lo metteva in un certo senso, a disagio.
Se ti considerano uno sfigato non hai molta stima di te stesso sotto ogni punto di vista, figurarsi quello sessuale.
Sotto di lei e poi dentro di lei, era stato tutto troppo caotico e confuso perché si accorgesse realmente di ciò che stava avvenendo.
Esisteva davvero un piacere così grande da ottenebrarti il cervello, e lui nemmeno lo sapeva.
Prima di lei.
Prima di loro e una notte del cazzo nella città più sbagliata e proibita del pianeta.
Gerard baciava la curva di quel collo sottile che seguiva la schiena inarcata dal piacere, stringeva tra le dita ciocche di capelli profumate senza perdere mai di vista quell’esplosione violenta che gli aveva alleggerito il corpo dalla tensione, come se ogni muscolo potesse essere dotato di vita propria e guidarlo in una violentissima danza con una sconosciuta.
Una che non avrebbe rivisto mai più.
Una che non avrebbe desiderato rivedere, perché per lui non avrebbe mai dovuto esistere il sesso senza amore.
A quel pensiero, quando ormai era palese ci fosse davvero poco a separarlo dall’orgasmo, lei era sfuggita da quell’alcova d’amore, tormentandolo con le dita sottili.
Probabilmente avrebbe per sempre ricordato il tocco rovente di quelle dita estranee su di sé come già lo aveva avvertito sulla propria mano, e avrebbe ricordato un corpo caldo e caritatevole a offrirgli la scopata migliore della sua vita in cambio di niente.
Anzi, di possesso.
Era tutto quello che c’era stato oltre ad un desiderio fomentato da due corpi giovanissimi che volevano solo imparare dall’altro.
“Sei bellissima.”
Gliel’aveva mormorato a fior di labbra e lei aveva sorriso, illuminandosi come non era accaduto mai sino a quel momento. Lei voleva sentirsi proprio così: bella, con le guance accaldate e la mano macchiata di un liquido biancastro che non gli apparteneva.
E dannatamente desiderata.
Aveva adagiato il viso nell’incavo del suo collo, ansante.
Cos’era tutto quello che gli ruotava attorno?
Un sogno realizzato e quando la notte finisce, il sogno termina con essa.
New York era stata il suo sogno proibito per anni e gli aveva offerto qualcosa che non avrebbe mai creduto di poter avere: una donna che lo desiderava perché non lo conosceva affatto, perché se avesse intravisto ciò che aveva dentro, sarebbe fuggita come tutte le altre.
In quel momento si sentiva patetico e perdente.
Ancora una volta fottuto dalla vita: perché per quelli come lui il piacere era sempre una cosa a parte, un conto che doveva richiedere sempre privo di amore.
Perché entrambe le cose, era destinato a non averle mai.

Era già trascorsa da un pezzo l’alba quando Gerard si era presentato al cospetto di Frank.
“Oh, sei arrivato.”
“Lo sapevi?”
“Sapevo che non saresti arrivato. Ti avrei aspettato sino a mezzogiorno poi, quando la fame mi avrebbe ucciso, me ne sarei andato senza di te.”
“Com’è andata?”
“New York ti uccide ma ti fa sentire fottutamente libero. Vale la pena morire per una donna come lei. Guarda qui.”
Si era sollevato la maglietta mostrando alla base de collo, una scritta che recava tre semplici parole: keep the faith.
“E questo cosa significa?”
“Che dobbiamo saper prendere al volo le opportunità ed essere sempre ottimisti. Me ne sono accorto dopo aver baciato una sconosciuta, che non sono innamorato di Gina.”
“Quindi sei innamorato di una sconosciuta?”
“No, sono innamorato della concezione che ho dell’amore. Questo mi fotterà per i giorni a venire. E tu, soddisfatto della tua nottata?”
“Sono innamorato della mia concezione di amore, di New York e di vita. Mi fotterò prima di te.”
“Senti, ma l’hai sentito il casino che arriva dai locali? Questa musica fa proprio schifo. Sai che ti dico? Stanno aspettando noi.”
“Frank non sparare cazzate, lo sappiamo tutti che continueremo a cazzeggiare fingendo di fare musica.”
“Invece faremo sul serio, e sai perché? Perché voglio poter suonare a New York portando in questa città il Jersey.”
“Andiamo, vuoi fare l’utopista anche sulla musica?”
“No, affatto. La tizia che ho conosciuto…”
“Baciato.”
“Baciato e conosciuto, okay? Quella. Viene nel Jersey a trovare suo padre e dice che il nostro punk e quello di New York sono totalmente differenti. Io voglio che New York si inginocchi al New Jersey.”
“Sei folle.”
“Non ho mai detto di essere a posto.”
Gerard gli aveva passato un braccio sulle spalle incamminandosi verso la periferia della città.
“Ancora autostop? Io preferirei l’autobus, Gee.”
“Allora tanto vale che aspettiamo qui.”
“Già. Sai quante cose dovremo raccontare a Mikey?”
“Ci odierà per non averlo portato temo.”
“Io credo che ci ringrazierà per non avergli infranto un sogno. I sogni sono meravigliosi sino a quando restano tali, Gee.”
Non poteva dargli torto.
Una volta che la bolla dorata in cui New York veleggiava nei loro sogni aveva lasciato il posto alla patina meno splendente dell’età adulta – quella segnata da una notte infausta in cui avevano deciso di chiudere per sempre il conto aperto con l’adolescenza -, non restava che prendere la propria rivincita facendo ciò Frank considerava il naturale contro altare della loro crescita: piegare un’intera città al loro volere, come se fossero pifferai magici costretti a salvare un’intera popolazione dall’unicità in cui era chiusa per mostrare che fuori, esisteva un mondo meno brillante se visto dall’esterno, ma decine di volte più vero.
E meno corrotto.
Meno sporco.
Non che avessero aspettative di paradiso sulla Grande Mela, semplicemente non si aspettavano fosse tanto falsa e ipocrita da offrirti ciò che volevi su di un piatto d’argento senza che tu muovessi un dito per ottenerlo.
Che gusto c’era nel vincere una sfida senza combattere?
New York restava comunque magica: una città che riusciva a realizzare il tuo più recondito desiderio senza che tu faccessi niente doveva per forza essere dotata di una volontà propria per assecondarti come una puttana.
O una fata madrina travestita da troia, perché New York ti scaricava con la stessa facilità con cui ti amava per qualcuno decisamente migliore di te alla prima occasione.




Note dell’autrice. La sconosciuta con cui passa la notte Gerard è Katmandu, una delle sue ex (quella che di fatto, gli procurava la droga). Il tatuaggio della sconosciuta che incontra Frank è il medesimo che ha lui sul polso, recante la frase “I wish a were a ghost”. Pansy era il nome della chitarra preferita di Frank, prima che un tecnico di MTV gliela rompesse prima di una serata live.
(*) Il testo è la parte finale della canzone “Vampires Will Never Hurt You”, ovviamente dei My Chemical Romance.
La storia si è classificata al primo posto del contest "Dall'immagine alla storia", indetto da Lisachan sul forum di EFP. Storia partecipante "I Dreamed The Brilliant Big Apple For A Long Time". Fandom: My Chemical Romance. 1° posto. Il giudice è stato Lady_Marmalade. 
   
 
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