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Autore: Alydia Rackham    30/08/2010    1 recensioni
Questa storia non appartiene a me ma a Alydia Rackham. L'intera storia di quello che successe a Peter e Sylar durante la loro prigionia dietro Il Muro-la loro lotta per mantenere la loro umanità e sanità mentale mentre realizzano che l'unica via d'uscita è attraverso la penitenza e il perdono.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Peter Petrelli, Sylar
Note: Traduzione | Avvertimenti: Spoiler!
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Non posseggo né Heroes né i suoi personaggi, questa storia non è mia è una traduzione dell’omonima storia di Alydia Rackham (potete trovarla su FanFiction. Net)                                                        

 

                                                                                                         Purgatorio

 

 

                                                “Luogo o stato di punizione dove in accordo con la dottrina Romano Cattolica le anime di coloro

                                                                    che muoiono nella grazie di Dio possono espiare peccati veniali o

                                                                         soddisfare la giustizia divina per la temporanea punizione da

                                                                                  scontare per rimettere i peccati mortali.”

 

                                                                                            -Webster’s Dictionary

 

Tempo. Premeva su di lui, eppure si stendeva innanzi e dietro di lui. Lo sentiva passare con ogni respiro. Ogni secondo rintoccava nella sua mente, secondi, minuti e ore perfettamente misurati. Il tempo era l’unico compagno di Sylar, l’unica altra entità che si muoveva ed agiva, cambiando il giorno in notte e viceversa. Poteva quasi sentire il suo orologio interno che parlava nel silenzio. Risuonava più forte di qualunque cosa, persino del suo cuore.

Eppure nulla cambiava.

Ogni giorno, l’imponente cielo rimaneva di un distante blu, punteggiato di passive nuvole. Il vento soffiava mollemente, quel tanto che bastava a causare un leggero pizzicotto sulla pelle. Gli edifici si innalzavano come monoliti, ma non crollavano mai. Nessun uccello cantava appollaiato su un alto ramo. Nessuno scoiattolo schiamazzava fra i rami degli alberi immobili. Assolutamente niente emanava un respiro in questo vasto, vuoto, inevitabile posto.

Eccetto lui.

All’inizio, aveva vagato per le strade come un forsennato, sfondando ogni singola porta―erano sempre aperte―per trovare stanze vuote, marciapiedi deserti e parcheggi vuoti. Aveva urlato tutti i nomi che conosceva, le urla che gli laceravano la gola e rimbombavano contro le imperdonabili superfici. Aveva artigliato i suoi capelli, ululato contro il sordo cielo, ed era alla fine collassato; aveva pianto così violentemente che era certo che il dolore nel petto lo avrebbe ucciso.

I suoi passi lo avevano condotto qui e là, alcune volte determinati, altre volte indifferenti, nello sforzo di scoprire qualche portone, qualche cancello, qualche tunnel che conducesse all’uscita e di nuovo nel mondo reale che ricordava. Ma con il passare dei giorni, e il silenzio che lo opprimeva, i suoi passi si fecero più lenti, e incominciò a girovagare in un unico quartiere. Alla fine, entrò in uno degli edifici di quel quartiere, e la quiete divenne ancora più completa quando il vento venne chiuso fuori.

Il suo orologio invisibile, che se ne stava in profondità in fondo alla sua gola, incominciò a ticchettare, più forte che nei suoi vagabondaggi. E lo scorrere del tempo lo colpì come le unghie vendicative che si era piantato nelle mani di recente. Un mese. Era rimasto lì per un mese.

Si era rintanato in un angolo, allora, tremante. La sua mente turbinava con eguali porzioni di velenoso odio e terrore. Non aveva potere qui. Era come un comune mortale. Eccetto che non aveva mangiato per un mese, nè dormito, e niente era accaduto al suo corpo. Non gli era nemmeno cresciuta la barba.

Aveva premuto le mani sul viso, cercando di respirare, e domandandosi allo stesso tempo se ne aveva davvero bisogno.

Era stato allora che aveva sentito un suono.

Tick, tick, tick.

Si era premuto una mano sul petto, domandandosi se stava impazzendo ancora di più. Ma no, quel suono non era dentro di lui. Si era alzato, aveva salito le scale ed era entrato in un’altra stanza.

Si era fermato. Era una stanza vuota con delle finestre, e un tavolo in un angolo. E su quel tavolo c’era un antico orologio da taschino.

Era balzato in avanti per raggiungerlo. Raccogliendo il piccolo, freddo pezzo metallico fra le sue mani tremanti, aveva chinato la testa e ascoltato.

Tick, tick, tick.

Quasi si rimise a piangere. Era in ritardo di un solo secondo. Soffocando e poi schiarendosi la gola, i suoi occhi avevano analizzato la stanza in cui si trovava cercando qualcosa con la quale poter aprire il retro di quell’orologio, ma un qualsiasi strumento non sarebbe bastato se voleva mantenerlo incolume. Mise a soqquadro la stanza ma non trovò niente. Attaccando la catena dell’orologio ad uno dei suoi bottoni neri, mise l’orologio in una tasca del suo cappotto ed uscì in cerca di un piccolo cacciavite.

L’estesa e ossessiva ricerca lo tenne occupato per giorni. Trovò molti strumenti, occhiali con lenti d’ingrandimento, cacciaviti, piccoli martelletti, strumenti per incidere ed anche gli attrezzi usati dal gioielliere. E trovò anche altri orologi da polso, da taschino e da muro. Li portò tutti nella piccola stanza col tavolo, e sedette, aggiustandoli tutti, anche quelli che apparivano mezzi rotti. Riempì la stanza di congegni mentre uno alla volta sincronizzava ogni orologio. Il tick, tick, tick diventava più forte con ogni riparazione, tutti univano la loro voce in un coro perfetto, come un’unica voce, mentre li metteva a posto, aggiustando i guasti, e ripristinando il loro scopo. Le sue mani lavoravano abilmente, la sua attenzione concentrata su di loro completamente.

E così, non perse mai la cognizione del tempo.

Passò un anno. Imparò a memoria ogni singolo angolo di questa triste, immutevole città mentre andava in cerca di orologi e sì, forse di un passaggio per uscire. Memorizzò le nuvole che si muovevano sempre nello stesso ordine, nella stessa direzione. Conosceva ogni albero, ogni pietra, ogni crepa nell’asfalto.

Un altro anno.

La sua intera stanza risuonava con un deciso tick, tick, tick. Amava quel suono. Il suo stesso cuore batteva a quel ritmo. Era quasi come se ci fosse stato qualcun altro con lui mentre lavorava.

Quasi.

Un terzo anno.

Non teneva conto dei giorni. Non ne aveva bisogno. Sapeva del passare del tempo, sentiva il suo stesso movimento. Ma la ragione per la quale era stato mandato qui scompariva. Il luogo e la sua esistenza in esso perse la confusione e il panico e si sistemò in una dolce, tragica monotonia. Al terzo mese del suo terzo anno, aveva dimenticato il suono della sua voce.

Al quinto, dimenticò il suo nome.

Alla sesta ora del suo quinto giorno del suo quarto anno, sedeva dietro quel tavolo, a lavorare su un orologio da polso. Era il terzo che aveva costruito a partire dalle parti inutili di altri orologi.

Tick, tick, tick.

La sua pulsazione batteva contro il ticchettio. La sentiva in gola, nel petto e nei polsi. Finì l’orologio. Gli lanciò un’occhiata, poi lo sistemò in cima ad una pila di altri.

Tick, tick, tick.

Sentì un suono. Congelò.

Tick, tick, tick.

Thud.

Era vibrato per il suolo, contro il suo petto. Perfettamente a ritmo col suo cuore.

Thud…Thud…Thud.

E poi una luce. Una luce che non vedeva, ma che gli penetrò la mente, giusto dietro l’angolo del suo occhio sinistro, fuori dal suo campo visivo. Una bianca, penetrante, piccola luce.

Si alzò, il cuore che batteva all’impazzata.

Qualcosa era cambiato.

 

Eccoci qua fatemi sapere se vi piace e per chi di voi sta aspettando Peter informo che farà la sua apparizione nel prossimo capitolo. Ditemi cosa ne pensate^^

  
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