I tuoi occhi diamantini sono stravolti dall’orrore della prigionia in cui ti trovi senza sapere come hai fatto ad arrivarci.
Non vuoi morire, non vuoi abbandonare l’illustre vita che così faticosamente hai raggiunto.
Il tuo vestito di cristalli sta annegando con te in quella pece vischiosa che ha già risucchiato le tue gambe, mentre invano ancora tenti di divincolarti, di liberarti dal giogo che vuole sopprimerti con ogni mezzo, a qualsiasi costo.
Invochi aiuto con ogni briciola di voce che ti è rimasta, senza sapere che altro fare.
Osservi disgustata la superficie nera che ha appena inghiottito il tuo bacino, ma continui a combattere.
«Non può finire così, non deve. Perché? Perché!? Ho raggiunto la fama, ho il successo! Perché a me?!».
Continui a muoverti, a tirare, tanto che le catene arrivano a scorticare i tuoi avambracci fino a sanguinare, ma del dolore non t’importa niente, purché tu guadagni la libertà.
In fondo, sai bene che non può toccare a te: hai solo ingannato te stessa e chi ti circondava per raggiungere la posizione che ora ricopri senza più alcuno scrupolo morale, ma solo egoistico desiderio.
Non dovresti essere tu a morire, no...?
La pece ormai quasi ti sovrasta. Il tuo corpo è quasi tutto sommerso, i tuoi rubini insozzati, i tuoi capelli adorni di zaffiri invischiati irreversibilmente. Aneli l’aria come se fosse il più prezioso bene mai esistito.
«Sei così patetica...».
Ti svegli, un bagno di sudore freddo ti imperla la pelle, la camicia da notte dorata aderente al corpo.
Era solo un incubo.
«Cara, perché ti sei svegliata?»
«Amore, ho fatto un incubo».
E nel voltarsi verso il marito, i tuoi occhi si sgranano incontrando un’ombra dalle fattezze bestiali e due occhi di brace che impugna un coltello.
Nuove catene ti immobilizzano, mentre nell’estremo attimo, invochi inutilmente la pietà del tuo infernale aguzzino.