PART NINETEEN –
“ALONE”
Le ultime parole proferite dall’uomo col medaglione riecheggiarono nell’antro
per parecchi secondi, come se la sentenza in esse contenuta dovesse essere
udita non solamente da coloro che erano presenti, ma perfino dalla terra, dalla
roccia e da quant’altra cosa inanimata: testimoni mute, queste ultime, ma meno
precarie e forse più attendibili, dell’accordo appena suggellato.
Cologne scosse il capo, amareggiata.
“Ragazzo testardo…” pensò, involontariamente ad alta voce.
Mi consegnerò al Caos.
Hibiki ripeté mentalmente la frase di prima, convinto di non aver ancora
afferrato la realtà della situazione. Una cosa era sicura. Quel Ranma sapeva
come finire, immancabilmente, al centro dell’attenzione... Un momento più tardi,
il ragazzo con la bandana fu costretto ad impuntarsi con entrambe le suole sul
terreno, per non perdere di colpo l’equilibrio.
L’intera caverna aveva cominciato a vibrare, come se la pietra stessa fosse
stata destata dalla violenza del tono di Shingo e volesse ribellarsi, mentre
una parete sembrò sul punto di abbattersi sui presenti.
“C-che succede?! Non aveva appena detto che…” Ryoga non ebbe il tempo di finire
la frase. Non stava crollando. La parete s’inclinò, mostrando un’apertura in
alto, in direzione della luce esterna e formando, al tempo stesso, una comoda
strada in salita verso di questa.
“Prego!” Shingo invitò i presenti, con fare sarcastico. “E stai tranquillo, ho
appena liberato i tuoi amici dal mio influsso” disse al giovane Saotome.
“Cosa aspettate?! Andate tutti fuori di qui!” ordinò Ranma agli altri, con un
tono che non ammetteva repliche.
Akane si rivolse ad Obaba.
“Vecchina, cosa possiamo fare?!”
“Soltanto quello che ci è stato detto.” rispose, sconfortata, l’amazzone. “Il
consorte si è ormai impegnato e non possiamo più cambiare le cose.”
Era vero, pensò con amarezza Ryoga. Il danno ormai era stato compiuto, la sua
solita smania di protagonismo aveva condannato Ranma senza alcuna speranza. Una
parte di Hibiki sentì di odiare a morte il rivale di sempre, perché cosciente
che stava facendo soffrire Akane ancora una volta, anche se questa sarebbe
probabilmente stata l’ultima. Ma la ragione tornò in lui: e lo convinse che
bisognava innanzi tutto pensare agli altri.
“Vedo che Saotome non ha perso tempo.” commentò Cologne, osservando il panda
che, senza farsi pregare, si era già issato sulle possenti spalle i corpi di
Shampoo e Mousse e si affrettava verso l’aria aperta. Akane, dopo qualche
attimo di esitazione, prese con sé un’esanime Ucchan. Ryoga si decise ad
imitarli, ma si accorse quasi subito di avere il compito più ingrato: Asura non
solo vi somigliava, ma pesava pure quanto una statua sacra di quelle che si
trovavano nei templi; per ciò che riguardava Taro – beh, il giovane Hibiki era
sì molto forte, ma a tutto c’era un limite.
Poi l’idea. Notò che i corpi erano distesi vicino al muro antistante di pietra.
Sperò di avere ragione. Chiuse gli occhi per concentrarsi e centrare il giusto
punto di pressione: quindi premette il dito indice su una zona individuata
della roccia, ponendo attenzione a non esagerare e far crollare tutto lui, al
posto di Shingo. L’acqua zampillò dalla parete, investendo in pieno il mostro
dalla testa taurina e, ancora prima, il corpo rovente della divinità indiana.
Al contatto con quest’ultimo, evaporò all’istante. Quando, infine, la colonna
di fumo si diradò, i due erano tornati alle loro sembianze umane.
Sorrise appena, la vecchia, riconoscendo il Bakusai tenketsu, la tecnica
che lei stessa aveva insegnato a quel ragazzo tanto tempo prima. “Dunque, qua
dietro, c’è veramente una sorgente sotterranea!” disse.
“Già.” si limitò ad annuire lui. Ricordava bene. Taro, dopo il rifiuto suo e di
Mousse, aveva sfondato la roccia con un pugno, lasciandosi investire dall’acqua
per ottenere l’immediata trasformazione. Ecco perché sapeva. Hibiki issò
i due sulle proprie spalle e si avviò verso l’uscita, preceduto dall’anziana
amazzone, incrociando non senza alcun sussulto Akane: la quale aveva già
portato Ukyo al sicuro e, affacciatasi di nuovo verso l’interno, aveva
assistito a tutto con un’espressione indecifrabile. La stessa che aveva assunto
dalla dichiarazione di Ranma in poi, pensò Ryoga. Si era aspettato una reazione
ben diversa, perlomeno più attiva, dalla minore delle Tendo. Una cosa,
solo una cosa traspariva dal suo viso. L’esterno non la riguardava, per il
momento.
Del resto, la sua presenza fuori non pareva necessaria. Il signor Saotome si
era generosamente offerto di vegliare, lontano dal teatro di battaglia, sul
gruppetto ancora privo di sensi, di cui Cologne si era subito messa a
controllare le condizioni fisiche: nessuno di loro pareva gravemente ferito,
tranne Mousse che in ogni modo era fuori pericolo. Ryoga posò il proprio carico
davanti alla vecchia e si affrettò ad affiancarsi alla ragazza.
“Siamo rimasti soli.” la voce di Shingo rimbombava indisturbata, per una caverna
ormai pressoché deserta. “Io ho fatto la mia parte, adesso sta solo a te.”
Tese il braccio verso il ragazzo col codino.
Ranma volse gli occhi verso l’arto dell’interlocutore, con fermezza.
“Hai ragione, manterrò la mia promessa.”
Allungò la mano, dopo essersi sincerato che davvero non v’era più nessuno.
Pensò che era la prima volta che riusciva a toccare il tizio del medaglione,
finora inavvicinabile. Allungò la mano, dunque, e con un rapido scatto afferrò
il polso di Shingo. Rabbrividì, al contatto con la cute gelida di quello.
Tirandolo a terra, si diede lo slancio per scavalcarlo con un balzo e poi
correre, più veloce che poteva. Shingo si rialzò rapidamente, quasi divertito
dall’accaduto. Non si aspettava un comportamento tanto vigliacco. Del resto
doveva saperlo, l’aveva visto abbastanza volte in azione: aveva notato che, nei
momenti di difficoltà, quel Ranma Saotome ricorreva a certi mezzucci. Voleva
giocare ancora un po’? Forse era stata tutta una messinscena per prendersi
almeno la soddisfazione di atterrarlo? Non contava, l’importante era che
l’idiota aveva buttato al vento l’ultima possibilità di salvezza: a questo
punto, Shingo avrebbe estratto il ki che gli serviva dal suo corpo senza
vita. Gli dispiaceva perdere un giovane così abile, che sarebbe potuto divenire
facilmente un valido braccio destro, una volta caduto burattino nelle proprie
mani. Pazienza.
Alzò solo allora lo sguardo. E capì. Prima che l’individuo del medaglione
potesse fare qualunque cosa, Ranma si lanciò verso lo squarcio nella materia,
ancora aperto. E scomparve dalla sua vista.
“E’ stato di parola.”
Shingo si voltò, scorgendo dietro di sé Cologne, ritta sul nodoso bastone.
“Sei dunque tornata qua dentro, nonna?” accennò, con un sorriso.
“Aveva detto che si sarebbe consegnato al Caos, non a te!” continuò la vecchia.
“Oltre quel varco, è il Caos: dunque ha tenuto fede al suo giuramento.”
“Capisco, uno stupido gioco di parole.” mormorò l’altro, con fare indolente,
ponendo una mano a sostegno del proprio mento.
L’amazzone cercò letteralmente di penetrarlo, con lo sguardo.
“I tuoi piani sono saltati: avevi bisogno dell’aura di Ranma e ora l’hai persa
per sempre!” giudicò, decidendo di scoprire le carte con la speranza di
suscitare in lui almeno una qualche reazione di stizza. Eppure l’uomo dai
capelli col riflesso del platino continuava a non sembrare minimamente turbato.
Una volta varcato l’ingresso,
restò temporaneamente privo di ogni cognizione. Niente di quel che vedeva e
percepiva aveva un aspetto appena simile alla realtà che sempre aveva visto e
percepito. Non era buio, ma nemmeno luce. A dire il vero, non si trovava
nemmeno in grado di stabilirlo. Nessun sopra, né un sotto. Stava come
galleggiando in un qualcosa d’indistinto, indescrivibile proprio perché era –
anzi, non era nulla di somigliante a ciò che l’esperienza gli aveva
insegnato a riconoscere. La porta da cui era entrato, quello squarcio che costituiva
l’ennesima esibizione da parte di Shingo del suo potere di forgiare l’energia,
fu l’unico punto di riferimento che permise a Ranma, in concreto, di non
impazzire a quel primo impatto con qualcosa di così estraneo ai propri sensi.
Lo smarrimento non durò troppo, ad ogni modo. Poco a poco l’ambiente attorno al
giovane col codino andò acquistando una forma, come se fosse la sua mente
stessa a costruirsi uno scenario in qualche maniera familiare, modificando la
realtà circostante. Una realtà informe, ma plasmabile. Così doveva essere
stata, immaginò il giovane Saotome pensando alla leggenda raccontatagli dalla
vecchia, anche prima che le divinità scegliessero l’Ordine. Il ragazzo con la
treccia smise di galleggiare, i piedi avvertirono qualcosa di solido e
pianeggiante e lui prese a camminare lentamente, verso la direzione più lontana
rispetto all’entrata. Il ritorno era ancora possibile. Lo sapeva bene. Eppure,
questa volta, tornare era l’ultimo dei suoi pensieri.
Ne era convinto. Finalmente aveva compiuto la cosa giusta. Non era passato
dalla parte di Shingo e allo stesso tempo gli altri erano in salvo. Non poteva
fare di più.
E pensare che fino a pochi minuti prima… Si era illuso di essere necessario, al
suo mondo, invece aveva causato l’ennesimo pandemonio. Shingo aveva detto bene,
lui apparteneva al Caos e Caos avrebbe sempre portato. L’aveva già portato,
anche nell’universo parallelo. Qualunque cosa lui facesse, si rivoltava
immancabilmente per il verso errato. E ci andavano di mezzo tutti.
Basta pensare!… La confusione stava facendosi strada anche nella sua testa; e
forse non era solo per via del suo vizio di rimuginare. Avvertendo le forze
venirgli meno, aveva intuito quale sarebbe stato ora il suo destino. La lotta
contro Shingo lo aveva spossato, ma sapeva che non era solo questo… Inutile
continuare a scervellarsi. Tanto, non ne era già più in grado. Respirava
affannosamente. Capiva sempre meno, ma la cosa importante era che gli altri
erano in salvo… Questo bastò ad acquietarlo. A riportargli finalmente un po’ di
serenità.
Per un istante appena. Dopodichè si voltò ancora in direzione del varco, come
per dare un ultimo saluto a ciò che era stato. E la vide. E tutto andò
all’aria.
*Akane!*
La minore delle Tendo giaceva svenuta, non troppo lontano da lui, con tra le
mani qualcosa che sembrava una fune simile a quelle usate da Mousse. L’aveva
seguito. La carne era pallidissima, segno che la sua energia vitale era quasi
azzerata. Presto lei sarebbe… No! Non poteva finire così! Cosa poteva fare?! Istintivamente
Ranma andò verso la fidanzata e la raccolse a sé, quindi fece appello alla sua
memoria. Solo una possibilità.
*La tecnica della vecchia!*
La mossa che Obaba aveva usato con il cinesino era ancora piuttosto vivida nel
ragazzo col codino: e lui possedeva una rapidità innata nell’apprendere nuove
tecniche, dopo averle osservate anche una sola volta. Pregò che andasse così
pure allora. Tentando di ricordare le posizioni dei punti nevralgici premuti
dall’amazzone, cinse con le braccia la vita di Akane. Sorrise appena dentro di
sé, ma con malcelata amarezza, pensando di sfuggita a quante volte l’aveva
definita larga. Avvertendo la debolezza crescere in lui, assodò di stare
riuscendo a trasferirle la propria energia.
La vide riprendersi, poco a poco. E riaprire gli occhi, anche se in maniera non
del tutto cosciente.
“Ran…ma…”
Funzionava! L’incubo di rivivere Jusen andò poco a poco dissolvendosi.
L’agitazione scemò nel giovane con la casacca cinese. Improvvisamente comprese
che ciò che lei aveva mormorato con un filo di voce era il proprio nome. Le
vecchie abitudini erano dure a cancellarsi ed egli non poté non provare un
pizzico di piacere nel constatare che in quel momento era al centro dei suoi
pens…
“Stu…pido… Ran…”
Come non detto. Del resto, non aveva fatto ancora nemmeno in tempo a figurarsi
di quale natura potessero essere, questi pensieri. Magari il maschiaccio stava
sognando di picchiarlo. Probabile.
Notò, intanto, che lo sguardo di Akane stava come squadrandolo da cima a fondo,
acquistando sempre più lucidità e passando lentamente dal suo volto al busto e
via scendendo, finché non si posò sulle sue mani… la cui posa non era cambiata
da prima… Ranma si rese infatti conto, in quel momento, di non aver minimamente
allentato la presa.
“No-non è – come pensi!” balbettò, in preda all’agitazione. Valutò che adesso
era lui, quello in pericolo di vita. Se Ryoga aveva equivocato l’atteggiamento
di Obaba, non vedeva il motivo per cui la fidanzata non avrebbe dovuto fare
altrettanto.
In effetti, non ebbe la stessa buona sorte dell’ultima volta che si era trovato
in una situazione simile. Lo schiaffo arrivò inesorabile. Sfiorandosi con una
mano la guancia in fiamme, Ranma mollò finalmente la stretta e si allontanò ad
una certa distanza. Tornò quindi a guardare verso di lei. Sembrava che la
reazione di Akane fosse già terminata.
La fidanzata aveva ripreso a fissarlo in volto, con un’espressione come
compunta. Ma non pareva che fosse per il loro contatto di un momento prima.
Almeno, non solo per quello.
Ryoga Hibiki si guardò ancora
una volta la mano destra, il pugno chiuso. Quindi, impose a se stesso di
mantenere la calma. Non era il momento di mettersi a piangere istericamente,
quello. Non era il momento di gridare nella propria mente frasi disperate senza
senso. Anche se erano esattamente le cose che stava facendo.
Akane era scomparsa proprio sotto il suo naso. Avevano osservato insieme,
dall’ingresso che dava al sottosuolo, Ranma e Shingo che confabulavano, ormai
rimasti soli. Sia lui che Akane speravano in segreto che il giovane col codino
avesse ancora in serbo qualcosa. Non era il tipo da arrendersi così facilmente.
Quindi l’avevano visto entrare nel varco. Cosa stava accadendo? Il primo
pensiero fu che non ne sarebbe più uscito. Sicuramente Akane aveva condiviso
quel presentimento, dato che, approfittando di Obaba che era entrata ed aveva
catturato l’attenzione di Shingo, aveva deciso di agire anche lei.
Aveva preso la sua mano – proprio la mano destra – sussurrandogli parole che il
suo cervello non fu in grado di connettere di primo acchito, e per lo stupore
provocato dal gesto di Ranma e per via del fatto che i sensi gli si erano come
annebbiati, al contatto con le mani di Akane.
Deficiente! Ecco cos’era. Se non si fosse perso nelle sue fole d’amore, adesso
Akane sarebbe stata ancora con lui. La mente gli aveva comunicato, in ritardo,
il significato delle cose che gli aveva detto. Era il cuore, che si rifiutava
di accettare che a ciò potesse venire attribuito un senso. Perché l’unico senso
possibile era quello che lui meno poteva accettare.
Aveva infine lasciato il suo polso. Ed era entrata. Mentre lui era rimasto
fermo ed imbambolato, incapace di fare qualunque cosa, lei era entrata nella
caverna. Aveva corso verso il punto dove era sparito Ranma. Si era infilata, a
sua volta, nel varco. Anche l’adolescente con la bandana sulla fronte aveva
cominciato a procedere, ordinando alle gambe disubbidienti di riprendersi dal
trauma del momento e di portarlo da Akane. Ma era troppo tardi.
Adesso Ryoga si trovava davanti al varco. Obaba, pur senza abbandonare la
propria posizione e continuando dunque a fronteggiare Shingo, gli aveva gridato
qualcosa riguardo ad un pericolo mortale insito nel passare quella misteriosa
soglia. Lui non si era arrestato, però, per dare ascolto alla vecchia. Il palmo
della mano gli stava quasi sanguinando, tanta era la forza con cui Ryoga
serrava il pugno. Ma non poteva fare altrimenti. Non poteva seguirla. Un
momento prima di sparire dalla sua vista, lei lo aveva pregato, tra l’altro, di
rimanere lì. E gli parve che la salvezza di Akane sarebbe dipesa dal vigore
della propria stretta.
La minore delle Tendo cercò di
riprendersi. Che cosa era successo? Ricordava di essere entrata in quella
specie di squarcio. E poi – era divenuto tutto così confuso. Dopo pochi passi,
aveva sentito le forze come venirle meno. La cosa immediatamente successiva che
ricordava era lo sguardo di
(Ran…ma…)
Uno sguardo intenso, preoccupato forse. E lei si trovava tra le sue braccia. Di
nuovo… come quella volta… Adesso era tutto chiaro, stava sognando. Sognava
ancora una volta gli avvenimenti del monte Hooh. Era plausibile, del resto.
L’esperienza vissuta in Cina era stata piuttosto scioccante, senza ombra di
dubbio, anche se credeva di essersi ormai assuefatta a simili situazioni, viste
le esperienze passate.
Eppure non era un sogno spiacevole, anzi. Avvertiva il calore di lui come
diffondersi fin dentro l’anima. Però c’era qualcosa di diverso. Non distingueva
i contorni dell’ambiente circostante. Ma forse la cosa era naturale, dato che i
sogni non sono mai precisi nei particolari. Anche riguardo quell’altro
dettaglio… Lui piangeva, la volta precedente. Le lacrime scivolavano calde dai
suoi occhi sul proprio viso ancora rigido, come tutto il resto, mentre le sussurrava
parole che lei non aveva mai udito, per bocca di lui, da quando si erano
conosciuti. E… la cosa più importante, le diceva infine che la amava – o forse
questa era già una mera immaginazione. Poco importava, tanto avrebbe presto
rinnegato tutto, parola per parola! Già si rivedeva in abito da sposa, mentre
lo
(Stu…pido… Ran…)
negava con tutte le sue forze, tanto per cambiare!… Decise che era il momento
di svegliarsi. Aveva sognato fin troppo.
Si scosse abbastanza per osservarlo agitarsi improvvisamente e balbettare frasi
sconnesse, prima di allentare la presa. Abbassò gli occhi e si rese conto di
trovarsi sul serio tra le sue braccia. Non si trattava di un sogno. Almeno, non
la parte dell’abbraccio. Era già rinvenuta. Da un pezzo.
Dunque l’aveva stretta sul serio a sé? Del resto, non sarebbe stata la prima
volta che succedeva; e Akane credeva di avere ormai imparato a non lasciarsi
trasportare così facilmente da strane idee, specie se si trattava di lui.
Inoltre, quasi immediatamente la terzogenita di casa Tendo ricordò la posa di
Obaba nei confronti di Mousse, identica. Capì. Fu, dunque, questione di due
secondi. Peccato che lo schiaffo fosse partito a metà del primo… Peccato? In
realtà non ne era nemmeno troppo pentita.
Ciò che, invece, continuava a non capire era cosa le fosse successo. Questo,
non riusciva a ricordarlo. Perché si era sentita così debole?… Un’altra cosa,
non capiva. Lui era ancora immobile. Aveva terminato già da un po’ di
farfugliare e sbracciarsi. Si era allontanato ad una certa distanza. Il rossore
sul proprio viso – forse per lo schiaffo, forse perché alla fin fine aveva
avuto almeno la decenza di imbarazzarsi, per quell’atteggiamento così equivoco,
il pervertito – era scomparso già da un po’. Sembrava aver recuperato la
calma. Anche troppa. Perché rimaneva lì? Non aveva intenzione di tornare?
Possibile che non avesse qualcosa in mente, una qualche idea per contrastare
Shingo? Lo guardò intensamente, non trovando in lui niente di simile. Eppure
non poteva crederlo. Non poteva credere che Ranma, poco prima, davanti a loro
tutti, si fosse arreso veramente!
Che faceva? Avrebbe pagato non sapeva cosa per vederlo scuotersi.
Un momento più tardi, avrebbe scoperto quanto questo desiderio costasse caro.
“Cretina!” sbraitò improvvisamente lui, troncando il silenzio. “Cosa pensavi di
fare?!”
Akane lo fissò meravigliata. Ma perché, poi, tanto stupore? La prima parola che
le avrebbe rivolto non poteva che essere l’ennesimo insulto! E con che domanda
idiota, se ne usciva!
“Come cosa?!” replicò. “Sono venuta ad aiutarti! Credevo che…”
“Credevi male!” la zittì con violenza. “L’ho forse chiesto, il tuo aiuto? Di
che t’impicci?! Qui me la cavo benissimo da solo!”
Il solito presuntuoso. Arrogante e superbo fino all’inverosimile!… Solo che quel
tono… il suo di solito era molto più leggero e canzonatorio…
“Mi sembrava di essere stato chiaro, già prima!” Ranma ormai stava gridando,
lei intese che stava facendo sul serio. “Non ho alcun bisogno di te! VATTENE
VIA!”
Akane sgranò gli occhi. L’aveva detto davvero? Dunque la considerava solo un
impiccio? Per un momento, sperò di avere frainteso tutto. Ma sapeva che non era
così. Si rialzò in piedi a rilento. Vacillò appena, senza accorgersene. Abbassò
lo sguardo, ormai incapace di sostenere il suo.
Si sentì così sciocca. Così maledettamente sciocca! Il sentimento che già
l’aveva tormentata, da quando Ranma aveva iniziato ad affrontare Shingo, era
riemerso facendosi preponderante.
Inutile. Era stata completamente inutile.
Non aveva mosso un muscolo per fermare Shampoo, quando l’amazzone era passata
nella sua direzione. Non che Ukyo ci fosse riuscita, ma forse in due qualcosa
in più si poteva fare. Ed invece si era lasciata impietrire da uno stupido
terrore. Proprio lei! Non era tutto. Aveva compreso la situazione solo
all’ultimo momento: l’amazzone stava per attaccare Ranma e lei l’aveva capito
quando ormai era troppo tardi. E comunque… Anche se l’avesse compreso in tempo,
cosa sarebbe cambiato?
Tutto quello che era stata in grado di fare, lei? Urlare il suo nome. Che
novità! E questo non l’aveva aiutato, anzi. Ranma aveva subito malamente il
primo colpo, senza difendersi in alcun modo. Akane aveva un’orribile
sensazione, a tal proposito. Era stato per lei. Lei stessa l’aveva
probabilmente distratto in maniera fatale, col suo grido. Ranma aveva rischiato
molto. E tutto questo era solo per colpa sua.
Vero.
Lo era, in fin dei conti. Era un impiccio.
Dopotutto, questa storia non era cominciata forse con Ranma costretto a
giungere in suo soccorso? Perché lei si era lasciata ingannare da quelle due…
Pensò vagamente che temeva da tempo, nell’inconscio, che un giorno le avrebbe
detto quelle parole. Quante volte, si era già verificata una situazione simile?
L’ultima di queste, a Jusendo, la sorgente delle Fonti Maledette, Ranma aveva
dovuto perfino sacrificare la Nannichuan, per procurarle l’acqua allo
scopo di salvarle la vita. E l’intera disavventura in Cina sarebbe stata molto
più semplice per tutti, se solo quella Kima non l’avesse fatta suo ostaggio.
“Quindi è così.” mormorò con fare calmo, sollevando il volto. “Hai ragione, sono
stata solo una sciocca a preoccuparmi!” disse, sorridendo.
Come aveva potuto pensare che Ranma non stesse preparando qualcosa? Il punto
era che, ovviamente, lei non poteva essere prevista nel suo piano.
“Che sciocca, eh?” proseguì, tornando a guardarsi le scarpe. “E’ ovvio. Non
potevi certo avere bisogno… di me.”
Non la voleva tra i piedi? Era logico. Eppure – eppure! Perché quello stupido
ci aveva messo tanto?! Questo si chiedeva, mentre sentiva la rabbia salire in
lei e permeare ogni antro del proprio corpo. D’altronde, cosa c’era di
sbagliato nel ragionamento? Lui era uno dei più forti artisti marziali e lei…
non poteva certo pensare di raggiungere il suo livello, senza tutine della
forza od oggetti magici di questo genere. L’aveva sempre derisa, a riguardo.
Sicuramente Shampoo e Ukyo, al posto di lei, avrebbero potuto fornirgli un
aiuto molto più gradito.
Le cose stavano così, ovvio. Ma allora… Perché finora non aveva mai manifestato
apertamente la volontà di liberarsi del loro fidanzamento?! Perché per tutto
quel tempo aveva lasciato che lei si potesse illud… Stupido Ranma! Stupido
stupido stupido stupido Ranma!
Rialzò il viso, tornando a guardarlo in faccia un’ultima volta con i propri
lineamenti corrotti da questi pensieri. Quindi si voltò. E cominciò a correre.
Correre correre correre, mentre gocce disubbidienti d’acqua salata prendevano
ad annebbiarle la vista. Correre – e non pensare. Non pensare più.
Riaprì gli occhi. Vide
l’immenso e nient’altro e si lasciò inondare d’azzurro. Nel proprio campo
visivo, solamente la pace, la serenità dell’infinito della volta eterea. Il
cielo era sempre lo stesso. Uguale, in Giappone come nel suo villaggio. Il
cielo stava lì e basta. Non cambiava mai. Quel medesimo cielo che aveva
assistito ai suoi allenamenti di amazzone, quando ancora era una bambina
felicemente incerta del domani, si trovava ancora presente adesso a porgerle il
conforto che cercava. Il cielo, l’unica certezza rimasta.
Le altre erano crollate, una per una.
Le regole delle donne di polso erano diventate carta straccia. Ranma ragazza
l’aveva sconfitta, eppure lei non l’aveva uccisa. Ranma ragazzo l’aveva
sconfitta, eppure lui non la amava.
E adesso – adesso Shampoo aveva infranto anche quel poco che restava di saldo
nel suo onore. Aveva agito all’insaputa della propria bisnonna. Aveva usato
mezzi indegni. Sapeva di avere perso per sempre il suo rispetto – il rispetto
dell’unica parente che le era rimasta sempre accanto, da quando aveva lasciato
il villaggio natio…
No. Non era vero, questo. Girò appena la testa su un fianco. Poté scorgerlo con
la coda dell’occhio, ma era sicura, già prima di vederlo, che lui era lì,
accanto a lei come sempre. L’altra propria certezza. Insieme al cielo. Solo che
il cielo non faceva parte del suo mondo, vegliava su di lei ma non era con
lei. Mousse sì, Mousse era con lei e fin da quando erano bambini. Stupido
Mousse. Non l’avrebbe mai lasciata sola, anche se sapeva benissimo che lei
amava Ranma. Povero sciocco Mousse, sempre uguale a se stesso.
Questo la riportò alle ansie del presente. Si trovava all’aperto, era evidente.
E libera. Niente vocine in testa. Quella sorta di incantesimo era stato
spezzato. Ciò poteva forse significare che l’essere diabolico che l’aveva
ingannata era stato sconfitto? Ma non riusciva ad essere così ottimista.
“Shampoo.”
La sua voce. Una voce che aveva pronunciato quel nome infinite volte, per lo
più col tono sofferto di chi è consapevole che l’altra persona non risponderà
mai al richiamo. Ma adesso poteva avvertire qualcosa di diverso. Il suono era
flebile, spezzato. Shampoo si ricordò soltanto allora di averlo ferito. E
duramente. E non solo con le parole. Ricordò ogni cosa. Questa volta, non volle
scacciare le memorie che riaffioravano. Inutile, il rimpianto. Quella breve ma
tormentatissima esperienza le aveva lasciato, forse, un insegnamento: poteva
guardare unicamente avanti.
Finì di girarsi, piano. Fino ad incontrare, da ultimo, le sue iridi: rivolte,
ancora una volta, verso di lei. “Mousse, tu…” lo guardò intensamente.
“Tu sai dov’è Lanma?” Mousse scosse appena il capo, piegando il labbro in una
smorfia simile ad un sorriso. Non si aspettava niente di diverso. Sapeva che
sarebbe stata la prima cosa che gli avrebbe chiesto. Ma faceva male lo stesso.
Quando l’aveva vista, in
principio, sorridergli in un modo così falso, il suo primo istinto era stato
quello di assumere una posizione di difesa, ben sapendo che un simile
atteggiamento da parte della fidanzata era, solitamente, il presagio di una
reazione molto violenta. La situazione era, però, ancora più grave di
come se l’era figurata: e lo comprese un istante più tardi. Precisamente, nel
momento in cui Akane aveva riabbassato lo sguardo, con fare remissivo. Aveva
pensato che la causa potesse essere la momentanea debolezza. Ma non era così. E
Ranma in fondo lo aveva capito fin da subito, anche se in cuor suo aveva
sperato, sino all’evidenza dei fatti, nel contrario.
Perché mai le cose stavano precipitando a tal punto? Ridicolo. Dopo tutto ciò
che si era ripromesso quel giorno, al parco, nell’altra realtà… Dopo aver
assistito all’idiota del senpai che si approfittava di lei, le mancava di
rispetto, la faceva piangere… In quel momento, Ranma aveva sinceramente desiderato
tornare – tornare a prima di Yakuzai, ricominciare daccapo, stare nella luce
con lei e non mascherarsi, come al solito, nell’ombra delle menzogne e delle
incomprensioni.
E cosa aveva fatto? Le aveva mentito. Di nuovo. L’ultima bugia, certo. Ma anche
la più amara.
Akane era rimasta qualche secondo con il capo chino, a nasconderle il volto,
aiutata in ciò anche dall’ombra circostante che avvolgeva ogni cosa. Il giovane
con la treccia aveva immaginato che stesse piangendo. Non questo! Non voleva
farla piangere. Il pianto di una donna lo metteva, da sempre, nel panico più
totale: era stato allenato da suo padre a saper fronteggiare tutte le
situazioni, ma questa, evidentemente, non era stata prevista nel programma
d’addestramento. Quando, poi, a piangere era lei… e soprattutto, quando a farla
piangere era lui… di nuovo… dopo tutto ciò che si era ripromesso quel giorno…
Istintivamente si era avvicinato alla fidanzata. Per rimanere spiazzato ancora
una volta. Lei aveva rialzato la testa con un improvviso scatto, per fulminarlo
con un’espressione che non avrebbe mai dimenticato. Uno sguardo carico di
rancore, almeno così gli parve. Ma non era la solita reazione rabbiosa cui
aveva fatto ormai l’abitudine. C’era qualcosa di più profondo. E… possibile?
Forse era un’illusione creata dalla penombra. Forse si trattava del proprio
senso di colpa, che gli faceva percepire cose che non c’erano. Eppure… eppure,
in quello sguardo, gli pareva di aver scorto un sentimento di odio.
Quindi la vide dargli le spalle e correre via.
Verso il varco.
Lontano da lui.
Shingo scorse il fuoco indomito
e ardente che si celava dietro le grigie pupille di un corpicino, il quale solo
apparentemente era smunto dal trascorrere inesorabile del tempo. Ma non ebbe
problemi a contrastarlo col gelo delle sue iridi inespressive.
“Una teoria veramente interessante, la tua.” disse all’interlocutrice. “Poniamo
che i fatti stiano così, nonnina. Adesso Saotome mi avrebbe giocato, almeno
questa la sua intenzione.”
L’amazzone sospirò. Aveva ottenuto qualcosa, dopotutto. L’attenzione
dell’interlocutore era rivolta esclusivamente su di lei, tanto che l’uomo del
medaglione sembrava ignorare del tutto Ryoga e Akane. Quei ragazzini s’erano
cacciati in un grosso guaio. Cologne si decise a replicare, per continuare a
tenerlo distratto.
“Ed invece il consorte ha fatto il tuo, di gioco, inconsapevolmente.”
“Allora lo sapevi.” sogghignò. “Fra pochi minuti, la sua aura verrà
spontaneamente a me. Mentre lui è già spacciato.”
Se
soltanto avesse saputo la verità…! Ma non poteva permetterlo in alcun modo.
Aveva voglia di prendersi a pugni. Ma perché, poi?! Non aveva colpa, si disse.
Era stato solo affinché lei non ci andasse di mezzo.
Lui avrebbe potuto ingegnarsi qualcosa di più ortodosso, questo lo riconobbe.
Aveva comunque conseguito il suo scopo, pensò. Se Akane avesse scoperto il
pericolo racchiuso in quella specie di limbo in cui si trovavano, certamente
non l’avrebbe lasciato da solo. Si sarebbe, perlomeno, intestardita a portarlo
via da lì, rischiando di finire per condividere la sua sorte. Ranma si disse
che aveva fatto ciò che doveva fare. Doveva farla arrabbiare, farle perdere la
lucidità necessaria per comprendere la situazione. In questo era un esperto.
Infatti, c’era riuscito. Era la cosa giusta, si ripeté come per convincersene,
mentre le ultime forze lo abbandonavano. Aveva perso molta energia, con la
tecnica amazzone.
Inoltre non badava più a trattenere la propria aura, avvalendosi degli anni
d’allenamenti da artista marziale, come aveva fatto fino a poco prima. Si era
presto reso conto, infatti, che la propria energia andava rapidamente
disperdendosi nel Disordine d’attorno.
Pensò di avere intuito quello che intendeva Shingo, quando gli aveva parlato
del pericolo di questo passaggio tra le dimensioni. La sua energia vitale lo
stava abbandonando, dal momento preciso in cui lui aveva varcato il passaggio.
La stessa cosa che era successa ad Akane, poco dopo. Con la differenza che lei
era meno allenata e aveva così perso la propria molto più velocemente. Per
questo, doveva andarsene subito.
Era sicuro che l’aura trasferita alla fidanzata le avrebbe permesso di
raggiungere l’uscita di quel non-posto senza problemi. Alzò ancora lo
sguardo e la vide di spalle, in lontananza, che si appressava di fretta alla
soglia del varco. Poi Ranma cadde sulle proprie ginocchia, stremato. Tutto
stava per finire.
Eppure era la cosa giusta.
La cosa giusta.
L’ultima immagine che il cuore rievocò, prima di perdere contatto con la
realtà, fu però lo sguardo di Akane pieno di rancore… Non quello!
Già una volta che era stato sul punto di mollare, sul monte Horai, l’aveva
vista. Il suo volto era addolorato e le palpebre lasciavano partire silenziose
lacrime di tristezza e rimprovero, perché lui non manteneva la promessa di
tornare con l’aspetto maschile e abbandonava la lotta: si era riscosso, allora,
dandole della piagnucolona e rialzandosi per concludere lo scontro con Herb.
Lei gli aveva dato la voglia di continuare.
Così come, adesso, al contrario, il suo sguardo pieno di rancore si
sovrapponeva ad ogni ricordo e non liberava un attimo i propri pensieri,
invogliandolo a piantare tutto. Il terrore che lei lo potesse odiare
s’impadronì completamente di lui, cosicché concentrò le poche energie in
un’unica azione.
“Scusami…” mormorò al vuoto, con l’ultimo residuo di forza.
Poi fu di nuovo l’oscurità. Più profonda di quella che lo avvolgeva
fisicamente. Era solo, ancora una volta. Lasciata andare ogni sicurezza, perse
infine conoscenza.