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Ognuno per sé
La fitta alla spalla
andava lentamente scemando, ma quella sensazione, tipica dell’animale
braccato, era ancora forte. Troppo forte. Si aspettava quasi di ritrovarsi
qualcuno alle spalle, magari con un ghigno sadico e una pistola in mano, e ogni
anfratto buio gli ricordava ciò che aveva fatto negli ultimi due mesi,
ciò che era, ciò da cui doveva fuggire.
Imprecò tra sé, sostenendosi la spalla e calpestando una
pozzanghera.
«Merda.»
Scosse la testa, scrollandosi di dosso le gocce di pioggia. Non poteva
permettersi quei pensieri. Doveva andare avanti, mettere quanta più
strada possibile tra sé e il vecchio fabbricato che era stato il loro
luogo di ritrovo e tutto ciò che avesse di più simile ad una casa.
Alzò lo sguardo, nell’oscurità fiocamente
illuminata dalle luci di emergenza di un locale infimo. Alla fine del vicolo
vide una palazzina un po’ malmessa. Un condominio. Esitò.
Un condominio. Sotto gli occhi di tutti. Dio, a cosa si era ridotto.
Ma al momento non aveva alternative. Dopotutto, in quel quartiere
nessuno lo conosceva. Non ancora, almeno.
Si frugò nelle tasche del lungo cappotto di pelle nera: soldi ne
aveva ancora, ma non sarebbero durati a lungo. Pazienza. Aveva bisogno di
fermarsi, di staccare.
Strinse i denti e, cercando di scuotersi dalla mente le ultime parole
di Larxene, continuò a percorrere il vicolo
sotto la pioggia battente.
«Dobbiamo
filare. Quello stronzo di Demyx ha cantato.»
Axel e Zexion sollevano le teste all’unisono. Larxene si chiude alle spalle la porta del vecchio deposito
in disuso e si fionda sul tavolaccio cui i due sono seduti. L’espressione
sconvolta del suo viso, così insolita per la sua perenne freddezza, fa
capire ad Axel tutta la gravità della
situazione.
Con gesti febbrili, la giovane posa bruscamente una borsa
sul piano del tavolo e inizia a riempirla con tutto ciò che le capita
sottomano. Rivolge loro uno sguardo inceneritore.
«Che cazzo avete da guardarmi come due idioti? Demyx ci ha traditi, l’avete afferrato il concetto?
Potrebbero essere qui a momenti! Volete darvi una mossa o no?»
Quelle ultime parole rendono tutto più definito.
Axel e Zexion scattano in piedi.
Accade mentre l’aiutano a recuperare quanto più
possibile: da qualche parte, sotto il rumore scrosciante della pioggia, risuona
una sirena.
Larxene geme, si
butta la borsa su una spalla e corre a sprangare dall’interno la porta
principale. Contemporaneamente Axel molla a Zexion la propria roba e va a sfondare con una spallata
l’uscita secondaria, quella che non usano mai. Perché mai ne hanno
avuto bisogno. Finora.
Il legno gli si infigge nella pelle, scavandosi
dolorosamente una strada nel tessuto leggero della maglietta. Non vi dà
peso; la porta è spalancata davanti a lui. Afferra al volo il cappotto appeso
appena più in là e inizia la corsa, ascoltando come da un mondo
di distanza i passi concitati di Zexion e Larxene alle sue spalle.
In fuga.
Fuori, la pioggia.
C’era finito dentro da due mesi, e ancora
– qualche volta – se ne chiedeva il motivo. Valeva davvero la pena
annullarsi in quel modo, ridursi a quell’essere niente?
No, non doveva pensarci:
ciò che contava ora era solo salvare la pelle, e al diavolo tutto il
resto, al diavolo gli altri due. Non aveva idea di che fine avessero fatto, e
neppure ci teneva. Se c’era una cosa che avesse capito, in quei due mesi,
era questa: in quel mondo, ognuno per sé.
L’uscio del
condominio si ergeva davanti a lui. Non c’era campanello. Nervoso,
cercando di dissimulare il turbamento, Axel
alzò il pugno e picchiò deciso sul legno quasi marcio.
Si aspettava che non venisse
nessuno; invece, dopo una breve attesa, lo spiraglio delle lettere si
aprì, rivelando due occhi di un colore che in quel buio non seppe
identificare.
«Chi diavolo
è a quest’ora?» biascicò una voce rachitica.
Axel si sforzò di
sogghignare. «È così che trattate i vostri potenziali
clienti, in questo postaccio?»
Lo spiraglio si
richiuse, e l’uomo aprì la porta. Era un vecchio dai lunghi
capelli argentati, avvolto in una vestaglia nera, il cui sguardo lo
scrutò da capo a piedi. Axel non batté
ciglio.
«E saresti tu il potenziale cliente, moccioso?»
«Proprio io. Mi
serve un appartamento.»
Il vecchio sorrise
maligno.
«Arrivi nel cuore
della notte, come un pipistrello, senza neppure un bagaglio, e chiedi un
appartamento» commentò. «Molto originale, davvero. Halloween
è arrivato in anticipo quest’anno?»
Axel tolse la mano dalla
spalla. Non voleva dargli anche la soddisfazione di mostrargli che era quasi
ferito. Inarcò un sopracciglio.
«Se non sbaglio,
lei non può rifiutare un appartamento ad una persona disposta a
pagare.»
«Pagare!» Il
vecchio rise, sguaiato e malevolo. Il suo sguardo si fece scaltro. «Ce li
hai i soldi, almeno?»
«Quanto?»
«Trentamila per un
mese.»
Axel ingoiò una
risposta pungente. Era poco meno di tutto ciò che aveva con sé.
Decise di fare buon viso a cattivo gioco: probabilmente di lì a un mese
avrebbe già trovato il modo di lasciare la città.
Annuì. Come
conferma, affondò di nuovo la mano nella tasca del cappotto fradicio e
ne estrasse un insieme di banconote gualcite, augurandosi di non lasciar
trasparire dalla propria espressione la verità sul modo in cui ne era
venuto in possesso.
Gli occhi del vecchio si
ridussero a due fessure.
«Bene.
C’è ancora posto.»
«Sei
stato bravo, pivellino.»
Axel si
trattiene dallo sbuffare. Meglio non prendersi troppe libertà col cocco
del capo, e tenere la testa bassa.
Demyx gli
rivolge un sogghigno sbruffone mentre gli tende una parte dell’incasso.
«La tua ricompensa. Ovvio che sarà più...
consistente, quando sarai definitivamente uno di noi.»
Axel intasca il
denaro senza un fiato. Poi si alza ed esce dal deposito senza voltarsi
indietro, con la necessità impellente di allontanarsi da se stesso, di
fuggire e non pensare.
Chi l’avrebbe mai detto che proprio il cocco del capo li avrebbe pugnalati
tutti alle spalle? Fottutissimo bastardo, voltafaccia del cazzo. O forse era
solo che aveva capito che stava affogando in quella merda di vita, e si era
fatto un qualche esame di coscienza che gli avrebbe poi salvato il culo? Se era
così, non poteva davvero biasimarlo: quella vita era una merda...
«Qui.»
La voce del portinaio lo
scosse dai suoi pensieri. Si ritrovò sulla soglia di un appartamento
semplice, squallido quanto appariva l’esterno del condominio. Carta da
parati scrostata, muri spogli e polvere ovunque. Annuì vagamente; andava
più che bene per i suoi standard.
Il vecchio controllò
ancora una volta l’acconto che si era fatto consegnare e finì con
il cacciarselo in una tasca della vestaglia.
«D’accordo,
il resto a fine mese, e tieni ben chiaro che ti sto facendo un favore.» Si
voltò, rincamminandosi giù per le scale, e continuò a
parlare senza guardarlo. «Ah, sì... Mi chiamo Vexen.
Per qualsiasi cosa chiedi a me. Buonanotte.»
Senza rispondere, Axel si chiuse la porta dell’appartamento 2B alle
spalle e attraversò un soggiorno ed una cucina disastrati
dall’abbandono. Raggiunse la camera da letto, e qui andò
direttamente a gettarsi su un materasso duro e spoglio, dall’odore non
molto promettente. Era comunque un netto miglioramento rispetto al vecchio
capannone.
Si tolse il cappotto,
ignorandone lo sgocciolio sul pavimento, e lo lanciò in un angolo. Si
toccò cautamente la spalla: ormai era solo un po’ indolenzita per
la forza del colpo.
Passò ancora
qualche minuto prima che si sentisse abbastanza tranquillo da stendersi sul
letto.
Solo allora, immobile
nel buio di quella stanza, nel silenzio rotto solo dalla pioggia sul tetto, si
concesse un sospiro di sollievo.