Naive
Capitolo 1 – That’s so easy
Quell’estate
la metropoli era stata avvolta in una cappa di caldo infernale quasi più
potente di quelle che gli anni precedenti l’avevano assalita, innescando nei
numerosi abitanti il desiderio irrealizzabile di rifugiarsi nei propri
frigoriferi per sfuggire all’afa insopportabile. Quando una rara bava di vento
faceva la propria comparsa, era lotta all’ultimo sangue per gli studenti della
Renton High School che davano via a vere e proprie battaglie per accaparrarsi i
posti vicino alle finestra. Una volta che anche quella
brezza si fosse dileguata, i tanto bramati banchi sarebbero diventati oggetto
di repulsione, probabilmente perché tenere le finestre aperte per tutto il
resto della giornata alla ricerca di un po’ di fresco comportava anche il raggi del sole accecanti e bollenti, che durante i noiosi
corsi estivi di recupero erano il colpo di grazia per qualsiasi studente
lavativo che si rispetti. Eppure, mentre la voce dell’anziana professoressa di
chimica, anche lei arresasi davanti all’evidenza che anche quell’anno la scuola
avrebbe innalzato la media delle bocciature, c’era sempre qualche povero
sfigato che restava in balia del caldo per tutta la mattina. La scuola non
avrebbe certo alzato un dito per installare dei condizionatori d’aria, i soldi
per quelli erano stati spesi per un nuovo ufficio per il preside. Tanti altri
poveri studenti incapaci persino di rispondere ad un quesito di scuola
elementare avrebbero dovuto patire un mix micidiale di afa e noia scolastica:
inutile dire che, quella mattina d’Agosto, il posto vicino alla finestra era
toccato a Duff.
Il
russare di Slash divenne persino più forte della voce della vecchiaccia, che
non osava alzare lo sguardo dai suoi appunti ed era probabilmente sul punto di
raggiungere il suo allievo nel mondo dei sogni: Duff gettò veloce
un’occhiataccia all’ignara massa di ricci neri che copriva il banco al suo
fianco, prima di percorrere con lo sguardo l’intero perimetro della stanza. Era
ovvio a tutti che nessuno di loro sarebbero riuscito a prendere il diploma,
nemmeno con i corsi di recupero: Steven era intento nel costruire aeroplanini
di carta con le pagine di un quaderno su cui non aveva mai scritto, Maxie
fissava al vuoto davanti a sé aggiustandosi di tanto in tanto il reggiseno
senza curarsi dei presenti. Anche Michelle dormiva nel banco vicino all’amica,
probabilmente stremata da un’altra nottata di lavoro per lei, che probabilmente
da una settimana non tornava a casa. Gli altri erano più o meno ridotti come loro,
ragazzetti sfigati dei quali pochi erano presi in considerazione: probabilmente
quegli altri stronzi dei suoi compagni, Izzy e Axl, erano a dormire della
grossa dopo il casino della notte precedente nel magazzino, ad attenderli.
Quanto a Duff… beh, non aveva idea di cosa parlassero le formule che la
professoressa elencava con voce apatica: non aveva mai aperto il libro, e non
aveva intenzione di farlo in quel momento.
Quando sarebbe arrivato l’esame, avrebbero trovato una scorciatoia
giusto per avere qualcos’altro di cui lamentarsi, tanto nessuno dei loro
trucchi avrebbe funzionato.
Il
ragazzo spostò pigramente gli occhi sulle aiuole che circondavano la decadente
scuola pubblica, i fiori e l’erba rinsecchiti dal caldo che le ricoprivano
incartapecoriti. Il cancello arrugginito in fondo al viale di cemento armato
gli regalava la vista di una strada grigia ed assolata percorsa da macchine scassate ed erosa dallo smog, di certo non uno dei
migliori panorami. Il sole cominciava a farsi sentire sulla sua testa già
provata dagli eccessi di quelle ultime sere, mentre una fastidiosa emicrania
iniziava a martellare sulle sue tempie. Spostò un ciuffo biondo, rigorosamente
cotonato, da davanti i begli occhi verdi, infastidito da ciò che lo circondava,
prima fra tutti la sedia sul quale era seduto: troppo
bassa per la sua statura, come al solito. Nei pensieri si confondevano le note
dell’ultima canzone sfornata dal buon Izzy Stradlin, gli accordi che doveva
ripassare, le parole dei cori, le parti del ritornello che assolutamente
dovevano riprovare. Tutto si mischiava in un groviglio di fantasie che lo
portavano lentamente lontano da quel posto che lui considerava inutile, su un
palco di qualche locale o stadio famoso, circondato da fan urlanti che
acclamavano loro e la loro meravigliosa musica. Era inutile cercare di salvare
ancora la sua carriera accademica, tanto valeva fantasticare: tanto, non gli
serviva un diploma, un pezzo di carta stampata dove un paio di bacucchi
avrebbero scritto di lui come di un “membro civile della società”, quando lui
sapeva benissimo di essere poco più che un criminale. Non che gli desse
fastidio, anzi, era probabilmente la vita che sognava da quando, ragazzino,
appendeva i poster di Sid Vicious alle pareti della cameretta di Seattle. Poi Duff
sbadigliò sonoramente, senza essere minimamente preoccupato della maleducazione
di quel gesto, e tornò alla realtà: quanto mancava ancora prima che potessero
andare a casa?
Non
s’accorse subito del veicolo che faceva il suo ingresso nel viale della scuola,
forse proprio perché perso nel suo vaneggiamento personale su quante chitarre
basso avrebbe potuto comprare una volta famoso. Del resto, nella classe nessuno
si mosse al rombo basso del motore che faceva le fusa e pian piano si
avvicinava. La moto nera attirò il suo sguardo soltanto quando quello che era
diventato un piacevole rumore di sottofondo si fermò, uscendo così dal perfetto
insieme di elementi che consentivano il suo viaggio mentale. La prima
impressione, quando ancora il conducente era a bordo della moto, fu di
perplessità, dovuta più al fatto di trovarsi ancora nel mondo dei sogni che
altri: aguzzando la vista, Duff iniziò a notare particolari che lo lasciarono
piuttosto stupefatto. La moto, da corsa come si vedono nei film di agenti
segreti, era stata evidentemente tirata a lucido di fresco, la vernice nera che
la ricopriva quasi brillava al sole: quel veicolo trasudava fior di quattrini,
quelli che erano probabilmente stati spesi per comprare un gioiellino del
genere. Ma fu il motociclista a lasciarlo piuttosto basito: dopo una manovra
abile con cui infilò la moto sotto un grande albero, l’unico posto all’ombra,
proprio nel parcheggio riservato ai docenti, si guardò attorno attraverso il
casco dello stesso colore del mezzo, slacciandoselo lentamente. Ma c’era
qualcosa che non andava: non era certo il corpo che ci si sarebbe aspettato di
vedere a cavallo di una moto. Era forse un po’ troppo lontano perché Duff
captasse ogni singolo dettaglio della ragazza, ma bastarono pochi secondi
perché il suo cervello trasmettesse a tutto il corpo una singolare sensazione
di energia.
Smontata
dalla moto, la sconosciuta si sfilò il casco con movimenti studiati, vanesi,
sfoderando una lucente chioma di lunghi capelli rossi che agitò, portando il
casco fra le braccia. Duff si sporse verso la finestra, attirato dalla
curiosità che l’apparizione della rossa aveva destato in lui: la guardò
osservare l’ambiente attorno a sé, il parco deserto ed ingiallito, mettendo a
fuoco la sua figura ogni secondo più nitida. Era
evidente che il caldo era stata un scusa soddisfacente
per lasciare scoperte le lunghe gambe pallide, fasciate soltanto d’un paio di
stivali da motociclista e da dei pantaloncini di jeans sfilacciati, mentre i
capelli rossi ancora più lunghi di come se li era immaginati contornavano oltre
che un bel visetto anche un top nero che si modellava sulle sue forme gentili.
La ragazza, dopo aver evidentemente appurato d’essere sola nel parcheggio, si
chinò a sfilarsi con elegante noncuranza gli stivali di pelle prima di aprire
la sella della moto che celava il piccolo bagagliaio. Duff poté vederla
estrarre un paio di scarpe nere dal tacco pericolosamente alto, riponendo gli
stivali che aveva usato per andare in moto prima d’infilarle in fretta,
riparando i piedi dall’asfalto bollente. Recuperata una borsa sempre scura, la
sconosciuta uscì dal posto dove aveva parcheggiato il suo gioiellino, cosicché
i raggi del sole potessero illuminare la sua figura irta sui tacchi a spillo.
Duff
non la perse di vista un secondo mentre con una camminata aggraziata si avviava
verso l’entrata della scuola, sempre più vicina: i tratti del suo volto si
delineavano sempre di più, giungendo alla mente del ragazzo
armonici. Non riuscì comunque a rifletterci su più di tanto, mentre
l’adrenalina per la comparsa di una nuova preda all’orizzonte prendeva il suo
cervello molto più d’una noiosa lezione di matematica. Non si diede la pena di
svegliare Slash, che al suo fianco ancora dormiva beato, né di chiedere il
permesso all’insegnante di uscire, limitandosi a mormorare un distratto “Vado
in bagno”. La vecchia non si sarebbe nemmeno accorta della sua assenza, senza
degnarlo di uno sguardo quando le passò proprio davanti diretto verso la porta:
il torpore dell’afa che aveva preso il resto della classe gli garantì la strada
spianata verso l’uscita. Probabilmente la ragazza sconosciuta doveva essere
appena entrata a scuola: Duff non perse tempo a domandarsi il motivo della sua
presenza, chi fosse o cosa le avrebbe detto, agendo d’impulso e dirigendosi
verso lo scale che lo avrebbero portato all’ingresso.
Di una cosa era sicuro al cento per cento: era una delle ragazze più carine che
avesse mai visto… e non era tipo da lasciarsi scappare un’occasione del genere.
L’atrio
era vuoto, quasi triste alla vista di chi ci entrava la prima volta, spoglio se
non per qualche sedia lungo la parete: probabilmente la sala gremita di
studenti confusionari e ridenti avrebbe fatto un altro effetto, eppure la
ragazza fu contenta lo stesso dell’eco dei suoi passi che rimbalzava sulle pareti bianco sporco. Gli spazi erano ampi, secondo i
canoni architettonici di qualsiasi scuola finanziata dallo Stato, ovvero il
genere di edificio che lei non aveva mai frequentato: abituata all’ostentazione
opulenta di ricchezza da parte delle scuola s’in dagli
arredamenti, il cambiamento non riscontrò contrasto in Adrien che, ferma per
pochi secondi all’ingresso, osservava annoiata ciò che la circondava. Le labbra
sottili erano piegate nel broncio regale che aveva assunto in Inghilterra, così
simile a quello della sua amica Met ed ormai quotidiano sul suo volto spruzzato
di efelidi. Nulla, nemmeno un semplice bidello che si fosse accorto dell’arrivo
della sua moto rombante: alla Kennedy o al King Edward l’accoglienza sarebbe
stata immediata e sicuramente calorosa, tutto sarebbe stato sbrigato alla
minima sillaba del suo cognome importante e famoso, e lei avrebbe regalato uno
dei suoi sorrisi abbaglianti al fortunato di turno perché tutto avesse termine
presto, molto presto. Certo, non era una circostanza normale: non si sarebbe
mai iscritta ad una scuola pubblica se non ci fosse stato un motivo preciso, e
quello che lei serbava nel suo cuore era bello grosso.
Alla
fine, non erano state tante le cose di cui aveva sentito nostalgia della California:
i suoi familiari, no di certo, la scuola nemmeno, quelle sanguisughe di cui
s’era attorniata a scuola neppure. Forse solo lo sferzare l’aria del casco che
copriva la sua testa mentre con la moto accelerava nella partenza era stato
motivo di tristezza: per il resto, aveva saputo adattarsi anche a Londra, agli
snob che la popolavano tanto quanto Los Angeles e che soccombevano al suo
fascino e alle sue parole studiate come tutti gli altri. Era stato tutto così
facile, anche quando era sembrato che il mondo stesse per crollarle addosso:
persino convincere Alan e Lisette a lasciarla iscriversi alla “scuola dei
plebei”, come la chiamavano loro usando termini medievali, era stato un gioco
da ragazzi. Ma in fondo, per lei era sempre tutto fin troppo facile, quando con
uno schiocco di dita ed uno sbattere di ciglia otteneva ciò che voleva senza
chiedere per favore. Era così facile. Afferrò un paio di opuscoli su droga ed
alcol abbandonati su un misero tavolino nei pressi
dell’enorme porta d’ingresso, mischiandoli con indifferenza prima di passare
oltre, senza il benché minimo motivo, senza interesse nei loro confronti.
Aggirarsi per una stanza così grande e allo stesso tempo così vuota era
insolitamente attraente, forse per l’abitudine di Adrien allo sfarzo onnipresente:
lei era lì, da qualche parte in quel miscuglio di stanze tutte uguali,
incastrata in uno corso di recupero. Non appena era
tornata a Los Angeles qualche giorno prima, Adrien le aveva telefonato per
mettersi d’accordo di trovarsi quel giorno a scuola, per la firma degli ultimi
moduli d’iscrizione. Ma nessuno sembrava farsi vivo fra quelle mura malamente
dipinte.
-
Ehi – aveva sentito dei passi avvicinarsi e aveva voltato le spalle alla fonte
di quel rumore, fingendosi interessata dagli opuscoli che lei stessa aveva
mischiato per amor di teatralità. Erano passi svelti che coprirono la distanza
da quelle che aveva intravisto come scale e il punto in cui si trovava. – Serve
una mano? – la scusa più antica del mondo: Adrien era vagamente divertita dalla
voce maschile che le aveva posto quella domanda, senza essere sorpresa di non
riconoscere il timbro della persona che stava aspettando. Sfoderando la sua
adorabile espressione annoiata, curvò appena le labbra in un ghigno enigmatico,
volgendosi finalmente a guardare il suo interlocutore. Squadrandolo con
attenzione, solo una cosa le parve non combaciate nello schema perfetto che già
s’era prefissata, ovvero la sicurezza con il quale il
ragazzo la fissava in attesa di risposta. Carino, biondo, una pertica
nonostante i suoi tacchi indossati con facilità le donassero un’altezza più che
discreta, a prima vista il solito ragazzino che giocava a fare la rockstar: ne
aveva visti tanti come lui in giro, e li aveva mangiati tutti per colazione. –
Sì, sto cercando la segreteria. – mormorò in risposta con voce melliflua, lenta
e misurata, senza togliere dal faccino minuto quell’espressione di inesorabile
mistero che da iniziale maschera aveva fatto sua nel corso degli anni. La
mattina si prospettava divertente.
-
Se vuoi ti posso accompagnare – vista da vicino era tutto un altro effetto:
dopo la scatto improvviso che quasi l’aveva fatto cadere dalle scale ampie e
ripide, ritrovarsi davanti quella figura alta sottile l’aveva reso soddisfatto.
Ecco un’altra preda, un altro corpo da possedere come un trofeo davanti ai suoi
amici in preparazione ad una notte di sballo, in barba allo studio e alle
responsabilità. Era stato il momento in cui si era voltata a rendere tutto più
difficile: nulla apparentemente era cambiato nel suo corpo armonioso come
quello di tante altre. Ma quegli occhi lo stavano letteralmente incollando al
pavimento, gli impedivano di muoversi nel pendere dalle labbra rosee della
sconosciuta finché quella non avesse smesso di parlare. Ficcando le mani nelle
tasche degli aderenti pantaloni in pelle, riuscì ad opporsi al desiderio
assurdo di balbettare, ammiccando coraggiosamente dopo la proposta in apparenza
altruista: un’analisi più dettagliata non aveva rivelato nient’altro che una
delle solite fighette misteriose. Dopo essersi soffermato palesemente sul suo
corpo latteo con gli occhi verdi, si concentro sui dettagli del viso:
circondato da una cascata di capelli rossi vagamente stinti, era composto di
tratti particolari, caratteristici dell’Europa nordica. Gli zigomi erano alti,
dal taglio proprio sotto l’occhio che li rendeva graziosi, al centro un naso
lievemente all’insù decorato di poche lentiggini. La bocca era piena,
sottolineata da uno strato di matita chiara che si confondeva nell’insieme. –
Piacere, sono Duff – non tese la mano per presentarsi come persona educata,
limitandosi ad assumere un cipiglio sfrontato degno di un cantante di sua
conoscenza. Era bella come l’aveva vista fuori dalla finestra… ma l’effetto era
un altro, indescrivibilmente differente.
-
Piacere, Duff – la voce della ragazza era affabile, il suo corpo immobile senza
segno dei normali approcci tipici di una presentazione fra due conosciuti.
Conservava quell’aria quasi impassibile, come se sapesse cose di cui il ragazzo
non poteva avere la più pallida idea, che rendeva impossibili da comprendere i
pensieri che le passavano di testa in quel momento. Eppure, con quel il tono
disponibile con cui gli aveva risposto, sembrava aperta alle,
emh, nuove conoscenze. – Spiacente, ma non credo che tu sia la persona
da cui cerco un aiuto – beh, almeno la fregatura l’aveva individuata al primo
istante: erano quegli occhi a confonderlo, proprio come la sua prima
impressione gli aveva confermato. Circondati da uno spesso intreccio di matite nera e blu, erano di un’indefinibile colore tra il
grigio e l’azzurro che ricordava i cieli grigi del Nord… e ti confondevano: era
calamite che attiravano magnetiche la tua attenzione, distraendoti. Quasi era
stato impercettibile il cambio della voce, nonostante da un tono chiaramente
mieloso fosse passata ad un rifiuto della sua compagnia. – Ma questo non vuol
mica dire che non posso darti una mano – l’importante era non lasciar vedere
quanto quello strano gioco potesse prenderlo in contropiede. Il ragazzo sfoderò
uno dei suoi migliori sorrisi sghembi, senza distogliere lo sguardo da quello
della ragazza, o per lo meno dal suo corpo. Era come se fosse appena sbocciata
una guerra nascosta nelle loro menti, qualcosa che attraeva entrambi
spingendoli a sfruttare il massimo di sé stessi per vincere la battaglia.
-
Allora potevi indicarla subito, invece di perdere tempo a pavoneggiarti – i
suoi atteggiamenti delicati formavano un ossimoro con l’attacco celato dalla
sua frase, mentre con un gesto rapido spostava i lunghi capelli su una spalla
scoprendo il collo da cigno. Duff la guardava perplesso, in attesa della
prossima mossa di quell’enigma di ragazza, senza nemmeno accorgersi di come
l’avesse gabbato non rivelandogli il suo nome: contemporaneamente, era quasi
ammaliato dalle movenze di quello strano personaggio, senza riuscire a
prevederne le mosse. – Fatti perdonare e risparmiami una noiosa ricerca… -
miagolò tornando all’affabilità con cui s’era rivolta a lui inizialmente,
confondendolo sempre di più. Quale fosse l’obbiettivo della sconosciuta, Duff
non riusciva a capirlo: passava da un estremo all’altro, da un apparente
rifiuto ad un tentativo di corteggiamento camuffato, senza dargli tempo di
scegliere in cosa credere. La osservò torvo per lo stato in cui l’aveva fatto
piombare per interminabili secondi, mentre lei rispondeva a quegli occhi verdi
con lo stesso sorriso che aveva mantenuto da quanto, spavaldo, l’aveva
chiamata. Sembrava innocua, rifugiata in quel faccino adorabile che si
ritrovava… sembrava, insomma, quell’espressione improvvisamente calma e
disponibile era così carina. – Beh, magari possiamo trovare un compromesso –
sul volto di Duff si aprì un nuovo sorriso, sicuro di sé come quando quella
conversazione era nata: le sue spalle erano di nuovo rilassate, quella ragazza
sempre più attraente nel mistero di cui era vestita.
-
Del tipo? – aveva abboccato: era tutto bastato su poche semplici regole che i
maschi non erano mai stati in grado di leggere nelle smaliziate donne come lei,
troppo furbe per scoprire così le proprie carte. Lascia che annusi l’osso, poi
toglilo di scatto quando tenta di morderlo, e vedrai che ogni povero cagnetto
bramerà il suo pasto sempre di più. Assunto un nuovo atteggiamento, da docile a
diffidente a suadente come una gatta selvatica, Adrien lo guardò sbattendo
accuratamente le lunghe ciglia: in fondo, erano tutti uguali, così schiavi dei
loro ormoni. – Sai… suono in una band, siamo molto bravi… Stasera diamo una
festa, facciamo un paio di prove e poi viene su un sacco di gente, sono pieni
di roba… ti va di venire? Sarebbe… divertente – certo, era uno schiavo dei propri ormoni molto carino: alto, snello, una folta
chioma di capelli biondi dall’aria ossigenata quanto quelli di una Barbie,
un’andatura da musicista inconfondibile e dei lineamenti felini quasi femminei,
affascinanti. Le sopracciglia erano inarcate, il cipiglio sul suo viso
inconfondibile: i doppi sensi in quell’invito apparentemente normale andavano
colti con furbizia, cercati nell’espressione che aveva assunto. Adrien non
accennò ad un cambiamento della maschera del suo volto, limitandosi a fissarlo
intensamente come se fosse stata un’adolescente qualsiasi ardente per un colpo
di fulmine. Era così facile: certo che sarebbe stato divertente. – Dove
sarebbero queste… prove? – più che prove, era il preludio di un rave party coi
fiocchi.
Afferrando
un volantino qualsiasi, senza nemmeno degnare di uno sguardo le avvertenze
sull’uso di droghe pesanti in giovane età, Duff si fece passare una penna che
la sconosciuta estrasse dalla propria borsa. Impossibile confondere
l’espressione soddisfatta di chi riesce sempre a fare un centro perfetto – Se
poi non ci trovi, questo è il numero di telefono… non so come potrà esserti
utile, visto che la connessione l’ha messa su un nostro amico della centrale
elettrica e spesso salta, però vale la pena tentare -. Era quasi incredibile
come, ebbro del furore di una nuova conquista, non si fosse nemmeno accorto di
come non sapesse assolutamente nulla, nemmeno il nome della bella ragazza che aveva
di fronte. Lei gli sorrise intascando l’opuscolo che
il ragazzo le porse, dopo averci scribacchiato sopra un paio di parole in
calligrafia disordinata. Se aveva per un momento pensato che quella sconosciuta
avesse potuto dargli picche su due piedi, s’era evidentemente sbagliato: tutti
loro, nessuno escluso, godevano di un fascino che attirava le ragazze come
calamite. Altro che fusione di nomi, Guns N’Roses celava ben altre motivazioni:
erano armi letale che spaccavano cuori, infrangevano
sogni, vivevano in mondo che permetteva loro il divertimento sfrenato in barba
ai sentimenti delle donne che avevano la sfortuna d’incappare nella loro
strada. Lasciandosi dietro il profumo del fiore spinoso che meglio li
rappresentava.
-
Signorina Miller – una voce profonda risuonò nel corridoio qualche secondo dopo
che la ragazza ebbe infilato l’indirizzo nella borsa nera, interrompendo quello
strano gioco di sguardo che fra loro generava energia. Una donna dai vaporosi
capelli color del rame, vestita di un impeccabile completo grigio, era appena
comparsa da chissà quale corridoio, avanzando verso di loro reggendo fra le
braccia una pila di cartelline dall’aria minacciosa. Trasudava la severità con il quale molto probabilmente insegnava, invecchiando quelli
che non potevano essere più di quarant’anni nonostante la bellezza del suo
volto austero. – La stavo aspettando. McKagan, non dovresti essere a recupero
di chimica? – domandò con voce secca, il tono che non ammetteva repliche. Ci si
sarebbe aspettato di vedere quella donna in qualche famosa scuola privata a
bacchettare futuri manager e dirigenti, di certo non in una mediocre scuola
pubblica come quella. Robin Keenan, la donna dall’oscuro passato, ecco come la
chiamavano i suoi studenti dopo ogni dura lezione sugli innumerevoli poeti che
la professoressa conosceva a menadito. Era arrivata alla Renton circa un anno
prima iniziando a dettar legge a studenti ed insegnanti, che la temevano per
via delle sue tante lauree e del timore che incuteva a tutti, nessuno escluso.
Giravano voci sul motivo della sua assunzione in un istituto così scadente, una
meno vera dell’altro. – Emh, sì, signora… Beh, ciao – Duff non si fece pregare,
girò sui tacchi concedendosi un’ultima occhiata alla bella sconosciuta,
soddisfatto e desideroso di andare il più lontano possibile dalla
professoressa. Peccato, sarebbe stata un gran pezzo di
donna… beh, ormai non importava più di tanto. Non sarebbe andato in bianco,
quella notte.
-
Si sieda, signor McKagan – la classe era quasi esattamente come l’aveva
lasciata, immersa in quella noia mortale di calore da cui era scappato. Solo,
Slash sembrava essersi destato dal torpore di cui era rimasto vittima,
limitandosi a fissare un punto indeterminato nel muro, sopra la spalla della
vecchia professoressa che abbozzò un tentativo di farsi rispettare verso il
ragazzo in piedi, che riprese il proprio posto senza badarle. Non riusciva a
togliersi dalla faccia un sorrisetto ebete di vittoria, lo sapeva: qualcuno dei
suoi amici aveva già notato quel suo strano atteggiamento. – Beh…? – Steven,
che sedava nel banco davanti al loro, s’era già voltato in attesa di novità
elettrizzanti, senza ovviamente curarsi del tono della voce troppo alto.
Nessuno avrebbe avuto la forza di riprenderlo. – Ah, ma è successo qualcosa? –
Duff sbuffò davanti allo stato confusionale del suo compagno di banco, che non
era in grado di guardare negli occhi a causa della folta chioma di ricci che
copriva una buona porzione di viso. Maxie, accortasi dell’improvvisa riunione
dei tre ragazzi, fissava insistentemente dalla loro parte, scostando
regolarmente il ciuffo biondo platino dagli occhi: inutile, Duff non avrebbe
parlato della bella sconosciuta all’amica. Non intendeva farsi fregare la
ragazza da una lesbica. – Ho rimorchiato una rossa da paura, stronzo! –
annunciò beffardo, prendendo indirettamente in giro Slash rimarcando come
l’amico avrebbe potuto far conquiste allo stesso modo se fosse stato un po’ più
sveglio.
-
E dove? Alla macchinetta del caffè? – domandò sarcastico il biondo, per poi scoppiare
in una risata sguainata insieme a Slash, guadagnando contemporaneamente
un’occhiata assassina da parte del loro amico ed una infastidita
dalla professoressa, che imperterrita spiegava. Sì, sarebbero stati bocciati
tutti. – Ma va, deficiente! Non rideresti tanto se… Ma vedrai, stasera, che
sventola che ho rimorchiato! – mugugnò Duff, senza lasciarsi abbattere dalle
battute più che normali di quei due amici, alle quali si sarebbero aggiunti i
commenti di Izzy ed Axl una volta fatto ritorno a quel buco dove convivevano tutti insieme. I due ragazzi vicino a lui continuarono a
prenderlo in giro sempre più debolmente, vista la sicurezza che l’amico
ostentava in volto: Maxie continuava ad osservarli cercando di carpire pezzi di
conversazione, ottenendo solo un paio di sorrisi beffardi da parte di Duff. La
ragazza aveva svegliato in qualche modo Michelle, forse alle
ricerca di un aiuto in quella missione di spionaggio: la bruna dai tratti
messicani che le era seduta accanto non sembrava dar segno di voler collaborare,
sbadigliando ad intervalli regolari. Per un momento, fra le risatine di Steven
e Slash, il ragazzo si chiese dove avesse passato la notte precedente: forse
incastrata in qualche ostello di periferia, forse a casa di qualche amico
spacciatore… di sicuro non era tornata a casa da suo padre. Quella settimana,
aveva già fatto la sua comparsa abituale nel buco di appartamento di quel
pivello.
-
No, ma sul serio… dove l’hai trovata sta rossa da paura? – dall’espressione
seria e soddisfatta di Duff, Steven doveva aver capito che l’amico non stava
giocando loro qualche scherzo di pessimo gusto: improvvisamente, dopo il primo
scoppio di l’ilarità, sia lui che il bell’addormentato
si fecero attenti alle parole del ragazzo, che continuava a sorridere soddisfatto.
Se c’era una cosa che li mandava in fibrillazione più della musica spacca
timpani che smerciavano fra piccoli locali e il loro magazzino, era l’apertura
della caccia alla nuova bellezza di turno… ed era sottointeso che il fortunato
scelto dalla preda in questione avrebbe poi passato il divertimento agli amici.
– Hai presente la moto di prima? – non appena i due annuirono, Duff disegnò a
mezz’aria il contorno di curve mozzafiato con le lunghe dita, il genere di
corpo che apprezzavano di più. – Te lo dico io, da star male… in ogni caso, ah
detto che passa dalle nostre parti stasera… sai che intendo – ammiccando in
maniera da lasciar poco spazio all’immaginazione degli amici, le poche parole
di Duff vennero accolti da esclamazioni entusiaste, mentre tutto ciò che
avrebbero dovuto sapere sulla composizione degli elementi andava disperso
nell’afa dell’aula. Ormai le ragazze, come tutti i presenti che s’erano accorti
della conversazione fra i tre nell’angolo della stanza, venendo a conoscenza
dell’ennesima conquista di quei ragazzini gasati: solo il rombo di una moto
vicina li distrasse dal celebrare il proprio successo. Fecero in tempo solo a
scorgere un lampo di capelli rossi prima che la sconosciuta sfrecciasse verso
il cancello e si addentrasse nella giungla di macchine: dopo un iniziale
momento dedicato ai tentativi di avvistare ancora la moto nera che si dileguava
nel traffico, Duff sorrise, indicando il punto in cui la sua conquista era
scomparsa.
-
Beh, come cazzo hai detto che si chiamava? – probabilmente anche se non avesse
aggiunto la tipica parolaccia rafforzativa, l’effetto devastante sarebbe stato
lo stesso: Duff spalancò gli occhi stupefatto dall’assenza di
quell’informazione nella sua mente. Si era presentati sì, lui aveva detto il
suo nome… ma lei aveva esordito con uno suadente
“piacere”, con quel suo comportamento da gatta morta. E ovviamente, la priorità
del ragazzo non era certo stata venire a conoscenza di qualcosa di scontato,
banale come il nome, totalmente inutile per la missione con la quale aveva
abbandonato i corsi di recupero. – Ba… be… te… - iniziò a balbettare le prime
sillabe che gli balenarono in mente, tenendo gli occhi fissi sul cancello. –
Che cazzo…? – incominciò Slash, sporgendosi verso l’amico come per sentire
meglio una ripetizione del nome della fantomatica ragazza, desideroso almeno di
fingere che ciò gli interessasse. Qualche secondo dopo, la mano di Steven calò
sul capo ricciuto del ragazzo, assestandogli una poderosa manata che lasciò che
qualche bestemmia scappasse dalla bocca del povero chitarrista. – Babette,
ignorante! Sarà straniera… è così? – il tono della voce del batterista era
esattamente quello di chi la sapeva lunga su molti fatti: ignorava le proteste
scurrili di Slash, che ancora massaggiava il punto in cui l’aveva colpito, in
attesa della conferma di Duff sulle origini della ragazza misteriosa. Ma il
ragazzo non lo stava più ascoltando, la mente lontana sui progetti della sera,
su una vittoria che già pregustava come di fronte ad un lauto banchetto: il volto
della sconosciuta, di Babette, non accennava a levare le tende dai suoi
pensieri.
-
Che cosa voleva? – pochi minuti prima, Adrien, a sua insaputa appena
ribattezzata Babette, se la rideva sotto i baffi seguendo il ticchettio delle
lucide scarpette della professoressa Robin Keenan
lungo un corridoio banale, privo di qualsiasi tipo di decorazione. Quasi non
sentì la voce della donna porle quella domanda sospettosa, tanto stentava a
trattenere una risata cristallina per quel nuovo giochetto. Non aveva la benché
minima intenzione di recarsi a casa di quattro ragazzini che fingevano di
essere le nuove rockstar, e nemmeno di rivedere quell’adorabile biondino che
aveva appena abbindolato. La città era piena di altri posti dove passare notti
di fuoco, e il ritorno in quella discarica che chiamavano scuola sarebbe stato
ancora più divertente se ad attenderla c’era già un cuoricino spezzato. –
Niente… Mi aveva scambiato per un’altra – inventò in fretta una risposta con la
freddezza tipica dei bugiardi professionisti, varcando la soglia della stanza
che la rigida donna le aveva indicato. Lo stanzino era la lugubre sede di una
vecchia fotocopiatrice ammassata insieme a pile di vecchi documenti in un
angolo: una finestrella capitata lì quasi per caso lasciava che la luce
penetrasse nello stanzino insieme al caldo asfissiante. Potevano essere
dovunque, tranne che in una quantomeno decente segreteria. – C’è per caso
qualcuno che ti spia, Robe? Hai sempre avuto tendenze estremistiche per quanto
riguarda la discrezione! – la donna davanti a lei sembrava aver iniziato a
respirare normalmente soltanto nell’istante in cui chiuse dietro di lei la
porta della stanza, girando due volte la chiave nella serratura.
-
Sul serio, potrebbero pensare che tu ti stia trasformando in una psicopatica e
che in questo momento tu mi stia tenendo in ostaggio… specie se il tuo datore
di lavoro è simile al vecchio Igor! – mentre prendeva posto proprio sulla
fotocopiatrice chiusa con un elegante balzo, parlando con il tono di voce
affascinante con cui l’aveva conosciuta, Robin Keenan si lasciò sfuggire una risatina nervosa alle battutine con cui la ragazza
l’aveva accolta. Gettò le cartelline a terra come se fossero qualcosa di
sporco, disgustoso, prima di raggiungere la rossa che ancora la fissava con
quell’enigmatico sorrisetto stampato in volto, quasi a volerla sfidare. Sì,
Adrien sfidava sempre tutti, senza fare distinzioni: aveva voglia di dimostrare
di essere al di sopra di quegli inetti mediocri borghesi che la circondavano.
Forse era stato proprio quello, il loro punto d’unione: mentre la osservava
prendere un pacchetto di sigarette dall’eterna borsa nera, la donna cominciò a
pensare di avere di fronte uno strano miraggio, tanto era il tempo passato dal
loro ultimo incontro. Accettando la nicotina che le veniva offerta con gesti
noncuranti, abituali, sorrise, finalmente sicura di un altro punto della sua
vita ricongiunto con gli altri. – Sono contenta che tu sia tornata. -.
Ehi,
l’avevo detto che sarei tornata presto! Mantengo sempre le promesse! Bene, ecco
che una nuova storia prende forma… non sono sicura della piega che potrebbe
prendere, dovrebbe essere più breve della mia precedente
“Love will tear us apart”, ma anche quella
doveva essere una storia di quindici capitoli -.- perciò si vedrà! Intanto
ringrazio ancora tutte le persone che hanno seguito le disavventure di Naz e
che avranno la pazienza di leggere quelle di Adrien/Babette! Spero che questo
primo capitolo non sia uno schifo xD fatemi sapere!
La storia inizia nel 1984, Adrien e Linda hanno 18 anni, Duff e Maxie 20,
Steven, Slash e Michelle 19, Axl ed Izzy 22, Robin 39. Alcuni dei personaggi li
vedrete nei prossimi capitoli, io intanto metto le foto
J Devo premettere che, per persone come
Michelle e Linda, ho preso ispirazione da persone che hanno influito veramente
nella vita dei Guns: comunque ciò che scrivo è puramente frutto della mia
immaginazione, ogni riferimento a fatti o persone reali è puramente casuale. So che non è andata esattamente così, che in realtà Duff non ha fatto le superiori a Los Angeles... diciamo che ho cambiato un pochino il normale corso degli eventi! Il nome della scuola è un omaggio al mitico Renton di "Trainspotting" ;) Enjoy
Adrien: One
Michelle: One
Maxie: One
Linda:
One
Robin:
One
See
ya!