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Autore: Sophie Isabella Nikolaevna    06/12/2010    3 recensioni
Due cugini e due cugine, in tempi diversi, ma nello stesso luogo.
In mezzo ai campi dove il Sole tramonta color del fuoco. Fantasmi e antiche amicizie, ricordi nella musica e giornate di nebbia dimenticate.
Estati e autunni scanditi da presenze nascoste. Memorie di vecchie case.
NB: questa è una RACCOLTA. I capitoli NON seguono un ordine logico. Guardate i titoli e leggete semplicemente quello che vi ispira di più.
Genere: Dark, Horror, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: Incompiuta
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NON SI SCHERZA CON IL FUOCO

 

Finalmente giugno! I ragazzi, nelle scuole, non sono certo gli unici a sentirsi più leggeri quando l’anno scolastico finisce: anche noi professori abbiamo sempre avuto i nostri buoni motivi per tirare sospiri di sollievo. Io ad esempio per un po’ di tempo non avrei più dovuto avere a che fare con classi di mostri selvaggi a cui non importava niente di quello che provavo a spiegare e che mentre parlavo mi ignoravano tutt’altro che cordialmente: un inferno di cui, per fortuna, era giunta la fine. Ora mi aspettava un’altra quindicina di giorni a Bologna, la città dove insegnavo in un Liceo Classico, e poi avrei passato una (meritatissima) settimana di vacanza lontano dal caos della vita di tutti i giorni: sarei andato a trovare mio cugino Paolo nella casa di campagna dove quando eravamo bambini trascorrevamo le estati, e che ora era di sua proprietà. Si trattava di una grande abitazione divisa in due parti (in una avevo vissuto io con i miei genitori, nell’altra gli zii, Paolo e i nonni) poco distante dal paesino di Manzolino di Castelfranco Emilia, circondata da un enorme giardino che mio cugino curava amorevolmente.

Le prime due settimane di giugno, che mi separavano dalla casa di campagna, trascorsero lente e noiose nell’afa tipica della Pianura Padana, ma finalmente anche l’ultima domenica passò e il lunedì mattina presto (era una giornata limpida e luminosa) ero già in macchina con la valigia nel portabagagli pronto a partire. Il viaggio fu scorrevole e senza traffico e dopo un’ora parcheggiai l’auto  davanti al cancello del giardino di campagna. Quale sollievo provai nello scendere dalla vettura e sentire il cinguettio degli uccelli e l’odore dell’erba! Mi tornarono subito alla mente le immagini delle mie estati di bambino trascorse in quel posto: quanti ricordi!

Aprii il portone che conduceva alla “parte” di casa in cui per tradizione avevo sempre abitato ed entrai: l’interno era in penombra e piacevolmente fresco, i vecchi mobili perfettamente curati e le pareti tappezzate di quadri rappresentanti scene rurali che mia nonna aveva dipinto molti anni addietro. Appoggiai la valigia su una poltrona, l’avrei disfatta più tardi, e andai ad avvisare Paolo del mio arrivo. Feci il giro della casa arrivando alla sua “parte”. Da quel lato del giardino c’era uno stagno circondato da boschetti di bambù, salici, betulle e piccoli canali attraversati da ponticelli di legno. Era ancora in piedi la vecchia altalena su cui mio cugino ed io avevamo giocato in gioventù, a sinistra della quale stava il deposito degli attrezzi da giardino. Sul retro di questo erano il forno a legna, usato per cuocere le pizze, e l’albero di fichi sul quale nella mia infanzia mi ero arrampicato numerosissime volte. La “mia” parte di giardino invece era più semplice: c’erano un platano e un tiglio altissimi (un tempo anche un ippocastano che però era stato abbattuto) che dominavano i cespugli e gli alberi bassi delle aiuole; al centro esatto dell’insieme stava una vasca circolare; tramite un cancello poi si accedeva ad un vasto campo di noci in cui io e Paolo avevamo più volte costruito rifugi segreti.

Avvicinandomi alla porta della casa di mio cugino fui piuttosto sorpreso nel notarvi un biglietto attaccato con lo scotch. Diceva: “Caro Franco, scusami se mi sono assentato senza avvisarti. Come sai, mia moglie Margherita e nostra figlia sono ancora a Modena, e la bambina non è stata bene. Margherita mi ha chiesto per favore di aiutarla a badare a lei finché non guarisce. Non so quando sarò di ritorno, ma spero entro pochi giorni. Paolo”. Subito rientrai e telefonai a mio cugino per dirgli che avevo letto il biglietto, lui mi fece sapere che la bambina era già quasi guarita e che sicuramente sarebbe tornato il giorno dopo verso l’ora di pranzo.

Così, trascorsi la giornata in solitudine godendomi finalmente un po’ di vita all’aria aperta. Quando il sole smise di picchiare spietatamente mi incamminai per fare una passeggiata nei dintorni: imboccai la stradina asfaltata che costeggiava la casa e che quando ero bambino era stata una cavedagna, finchè non arrivai fad un boschetto che riconobbi all’istante: quante esplorazioni vi avevo fatto da piccolo! Abbandonai la stradina, che poco più avanti tornava ad essere una cavedagna (era stata asfaltata anni e anni addietro per costruirvi vicino una ferrovia, progetto che era poi sera stato abbandonato), e mi inoltrai nella vegetazione. La selva era composta da tanti tunnel di alberelli come lunghissime volte a botte verde smeraldo il cui pavimento era formato da terra, ramoscelli e foglie. Sulle pareti delle volte stavano, somiglianti a gemme e pietre preziose, i frutti degli alberi, il cui colore variava dal giallo limone al viola-blu passando per il rosso fuoco. Esattamente come era mia abitudine quando ero bambino, ne mangiai una gran quantità, e questo mi bastò come cena.

Dopo un tempo che mi sembrò brevissimo, anche se probabilmente era passata almeno mezz’ora, il tunnel finì e mi ritrovai davanti ad uno spettacolo mozzafiato: un campo arato si stendeva davanti a me e alla fine di questo si ergeva il rudere di un vecchio castello, molto più alto che largo, dalle torri merlate e diroccate, dietro al quale il sole tramontava dipingendo il cielo color pervinca con violente pennellate arancioni.

La prima domanda che mi venne in mente fu: come mai non l’avevo mai notato prima? Beh, probabilmente perché da bambino non ero mai riuscito ad arrivare alla fine del bosco, e con la foschia che in pianura c’è sempre all’orizzonte non avevo mai notato le torri in lontananza. Eppure mi era familiare…

Ma ora l’avevo davanti e ne ero quasi spaventato: mi ricordava tanto i castelli di cui avevo letto in gioventù, dentro i quali vivevano terribili spiriti, vampiri, fantasmi e via dicendo. E mi era sempre più familiare… Tornai alla cavedagna e decisi di avvicinarmi al rudere.

Come gli fui di fronte notai che l’anta del portone non c’era più e il fossato tipico dei castelli sembrava non esserci mai stato: avrei potuto entrare, se avessi voluto, ma mi limitai a dare un’occhiata da dove mi trovavo: soprattutto a quell’ora, sembrava proprio una dimora di spiriti, e dentro non si vedeva niente.

“Fantasmi!”, dissi a mezza voce, esattamente come avrei fatto da bambino. “Venite fuori! Voglio vedervi!”.

Subito dopo però risi di me stesso scutendo la testa: dov’era finito il professore di Storia e Filosofia con la testa sulle spalle? Visto che il sole era tramontato e entro breve avrebbe fatto buio, tornai indietro. Arrivato in casa subito salii al piano superiore e mi coricai, ma non mi addormentai subito perché un pensiero mi tormentava: ero sicuro di aver già visto prima il castello, ma non ricordavo quando.

I tre sogni che feci quella notte furono inquietanti e apparentemente privi di senso.

Nel primo mi trovavo nella mia parte della casa di campagna, affacciato alla finestra della mia stanza una mattina d’estate. Ero un bambino, e anche mio cugino, che da sotto mi invitava a scendere, lo era.

“Franco, vieni! Andiamo a vederlo o no, il castello degli spiriti?!”, mi urlava impaziente e tutto contento. In mano teneva una torcia e aveva il viso coperto da una strana maschera nera. Poi il sogno cambiò. Vedevo una giovane donna pallida e dall’aria triste guardare fuori da una finestra dai  vetri chiusi, sembrava star osservando qualcosa di molto interessante che stava svolgendosi all’esterno. Aveva il viso bianco e ovale, il naso dritto, gli occhi neri e stanchi e i capelli color ebano raccolti in una crocchia; la stanza in cui si trovava era arredata come usava nel ‘600, e la giovane sembrava una strana bambola dentro la sua casa. Infine il sogno cambiò di nuovo: questa volta mi trovavo nel giardino di Paolo, dietro all’altalena, guardavo verso i campi e il bosco e riuscivo a vedere il castello in lontananza. Il sole era basso e il tramonto stava per iniziare, tingendo il cielo d’oro e allungando le ombre. Il disco si trovava esattamente dietro al castello quindi la costruzione in controluce risultava tutta nera, eccetto però le finestre, che si accesero improvvisamente di un rosso sangue.

Mi svegliai la mattina presto chiedendomi se il primo sogno fosse in verità un ricordo rivisto dopo essere stato dimenticato per tanti anni. Dopo qualche ora arrivò Paolo. Parlammo di come avevamo passato i mesi invernali: io in quell’austero palazzo bolognese ora trasformato in liceo, a casa mia moglie che mentre non c’ero si vedeva segretamente con un suo affascinante collega e il divorzio che seguì; lui invece a Modena a dirigere un importante negozio di piante e arredamento con la fedelissima (dai tempi del liceo) moglie Margherita, promettente avvocato, e la figlia di quattro anni Ada alle prese con la scuola materna. Gli parlai della passeggiata che avevo fatto la sera prima e del castello, che oltre ad aver visto avevo anche sognato di notte.

“E in uno dei sogni”, dissi, “c’eravamo noi due da bambini che volevamo andare ad esplorarlo. Tu indossavi una stranissima maschera. È solo un sogno oppure…?”.

Mi aspettavo che mio cugino avrebbe riso o comunque detto che il mio inconscio faceva solo strani scherzi, invece mi rispose, serissimo:

“Come, non te lo ricordi? È accaduto davvero. Tu avevi nove anni e io otto, e io avevo sentito parlare da mia madre di un castello poco lontano da qui in cui le leggende del posto volevano che vivessero gli spiriti. Allora avevamo organizzato una spedizione per esplorarlo, proprio con la

torcia e le maschere, che abbiamo indossato per non farci riconoscere dagli spiriti. Poi ci siamo presi paura e non ci siamo più tornati… Proprio non te lo ricordi?”.

Sì, me lo ricordai. Mi riaffiorò tutto quanto alla mente: era un assolato giorno di luglio dell’anno 1982 e io e Paolo, bambini curiosi, volevamo scoprire cosa c’era veramente nel castello che stava dopo il bosco e i campi, in cui si narrava abitassero gli spiriti, e soprattutto il fantasma di una donna tenuta prigioniera lì dentro e uccisa dal suo rapitore, per un’atmosfera da “Barbablù”. La nostra spedizione doveva restare segreta, ma prima di avviarci chiedemmo consiglio alla fidatissima nonna.

“Farete meglio”, ci disse lei, “a mettervi delle maschere. Dovete sapere che gli spiriti non vogliono mai essere disturbati, e se hanno da dirci qualcosa sono loro a manifestarsi a noi. Se li si vuole chiamare per vederli bisogna per forza indossare delle maschere perché sennò loro, arrabbiati, un giorno esatto dopo essere stati chiamati, andranno dalla persona che li ha disturbati e la prenderanno con sé per sempre. Se invece si ha la maschera, gli spiriti saranno costretti a farsi vedere e non potranno tornare a prendere chi li ha cercati, perché non sanno chi è. Ma fate attenzione: anche quando si è fuori dal castello bisogna portare le maschere, perché gli spiriti possono affacciarsi alle finestre e vedere in faccia i loro visitatori per scoprirne l’identità”.

Così la mattina ci avviammo armati di torce, maschere e scorte per il pranzo. Il cammino si rivelò più lungo del previsto: il bosco infatti era più vasto di quello che credevamo, e le scorte che ci eravamo presi finirono prima che fossimo a metà tragitto. Quando arrivammo al castello indossammo le maschere per non farci riconoscere dagli spiriti e, emozionantissimi, entrammo. Dentro era buio pesto in confronto alla luce che ci eravamo lasciati alle spalle ma riuscimmo a distinguere un lungo e alto corridoio con le pareti coperte da grandi specchi alla fine del quale due enormi scale a chiocciola, una per salire e l’altra per scendere, si intrecciavano. I nostri riflessi negli specchi ci inquietavano perché, sebbene le uniche persone presenti fossimo noi, ci facevano sentire osservati da migliaia di strane figure mascherate, così corremmo fuori spaventati dopo pochi minuti.

Tornai alla realtà.

“Sono soltanto storie che la nonna raccontava per spaventarci”, dissi a Paolo, ma non senza un tremolio nella voce. La donna che avevo sognato. Affacciata alla finestra. Chi stava guardando?

“Fossi in te starei attento”, rispose lui, ma alla fine sorrise.

Ero deciso ad andare in fondo alla faccenda. Subito prima del tramonto (quando il cielo diventa dorato e le ombre si allungano), l’ora in cui il giorno prima ero stato nei pressi del castello, mi avviai verso il bosco e guardai oltre: riuscii a distinguere la costruzione in controluce. Sperai con tutto me stesso: no, no, no. La risposta, però, fu “sì”: dopo qualche secondo le finestre si accesero di rosso. Mi sentii ghiacciare. Corsi subito in casa di Paolo e lo chiamai a gran voce, ma senza ottenere risposta. Mi precipitai al piano di sopra e notai con orrore la porta del bagno chiusa e il rumore della doccia provenire dall’interno accompagnato dai gorgheggi in cui mio cugino, perfetto tenore, si cimentava.

“PAOLO!”, urlai, ma lui non mi sentì. Mi chiusi in camera sua e guardai dalla finestra: vidi di nuovo il castello, le vetrate ancora illuminate di rosso. In quel momento cominciò il tramonto vero e proprio: il rosso, lo stesso rosso fuoco delle finestre, invase il cielo, arrivò sul prato, entrò dalla finestra e dipinse con le sue tinte violente l’intera stanza, me compreso. L’unico altro colore della scena era il nero delle ombre, lunghe e taglienti. Osservai con attenzione il castello, il bosco, il giardino: nessuno spettro o roba simile stava venendo a prendermi. Stetti a controllare per qualche minuto, ma, sebbene le finestre del castello restassero rosse, non succedeva niente. Tirai un sospiro di sollievo: come avevo potuto essere così stupido da credere alla storia con cui mia nonna, anni addietro, aveva voluto spaventarmi? Mi voltai per uscire, ma la porta della stanza si aprì ed entrò una vecchietta. Stava ricurva, avvolta in uno scialle, il capo chino. Non mi preoccupai, anzi, volli parlarle, perché quella persona mi ricordava tanto la nonna, che non vedevo da diciotto anni.

“Si è persa, signora?”, chiesi gentilmente, “posso aiutarla?”.

La vecchia non rispose, si limitò ad alzare il viso, e finalmente la vidi in faccia.

Non so quali parole usare per descrivere l’agghiacciante ghigno che le distorceva i lineamenti. Gli occhi iniettati di sangue mi fissavano, folli e assassini. Mi paralizzai e, con la capacità i muovermi, improvvisamente persi l’udito, non sentendo così le parole che pronunciò quando aprì la bocca sdentata. Poi fu il tatto a svanire, quando mi accorsi di non sentire più il pavimento sotto ai piedi… Smisi di percepire l’odore della campagna e fui sicuro che se avessi avuto qualcosa in bocca non me ne sarei accorto. L’ultima che persi fu la vista.

 

Franco Palazzi fu dichiarato disperso tre giorni dopo, a dare l’allarme era stato il cugino. Le ricerche proseguirono per qualche mese, ma nessuno lo trovò, e il caso venne chiuso per sempre.

   
 
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