Ho
scritto questa OS per il contest di Natale di "Twilight
Fanfic Contests", meraviglioso forum ideato da Stupid
Lamb,
Lele
Cullen
e federob.
L'argomento
sul quale sviluppare la storia erano i Cullen e il Natale, e
questo è quello che ha partorito la mia testolina.
Ci
tenevo a farla leggere anche qui, sperando che nessuno si
addormenti a metà!
Grazie fin da
ora.
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È
la mattina del 22 dicembre.
Me lo ricorda il calendario
colorato appeso sopra il camino. Rosalie ha aperto tutte le
caselle ed ha mangiato i cioccolatini che contenevano, fino a
lasciare coperto il numero 23. È diventato il suo piccolo e
felice rituale mattutino: si sveglia, apre la casella del giorno e
mangia il cioccolatino con un solo boccone.
Sono sveglio da
parecchie ore, ma gli occhi bruciano ancora per il troppo sonno
arretrato.
Ho fatto due lavatrici ed ora i panni profumati
sono stesi davanti al camino. Davanti al focolare che ho acceso
io, accanto all'abete che ho decorato io, con l'aiuto di mia
sorella.
Ho messo in ordine le nostre camerette, ho rifatto i
letti con cura. I nostri, non quello di mamma perché lei
c'è ancora dentro, immersa tra le coperte, con la testa
nascosta sotto due cuscini.
Dopo aver dato una ripulita veloce
anche alla cucina, mi sono preso qualche minuto per riposarmi,
abbandonato sulla poltrona. Avvicino i piedi sempre gelati al
focolare, inspiro il profumo di detersivo, di pulito, di fatica.
Chiudo gli occhi ed abbandono la testa sull'imbottitura
morbida.
Sembra passata un'eternità, ed invece sono solo
tre mesi.
Tre mesi da quella sera, tre mesi dalle lacrime, tre
mesi dal cambiamento.
Avevo trascorso una giornata intera in
biblioteca, impegnato a ripassare le ultime cose prima di dover
affrontare il college. Mi ricordo di aver pedalato come un pazzo
per riuscire ad arrivare a casa in tempo per la cena. Perché
a casa nostra dovevamo essere puntuali, non era ammesso neanche un
minuto di ritardo. Perché è così che si fa in
ogni famiglia che si rispetti: si cena tutti insieme, tutti
sorridenti, tutti allegri, Com'è andata la giornata caro?,
Mi passi l'insalata?, Certo tesoro prendi anche un po' di patate.
Ma il sorriso in realtà era finto, era solo una
maschera che tutti dovevano attaccarsi alla faccia per far
contento il padre, il marito. Ed io quella maschera non avevo mai
avuto voglia di indossarla.
Una storia simile si ripeteva la
mattina, a colazione. Lo scambio dei buongiorno, mamma indaffarata
ai fornelli, mio padre che non ci rivolgeva neanche uno sguardo.
Ma non era questo l'importante, quello che contava era stare tutti
insieme e recitare al meglio la tua parte nella perfetta famiglia
da spot pubblicitario. Poco importava se gli unici a rivolgersi la
parola eravamo io e Rosalie, poco importava se nessuno vedesse la
faccia di Carlisle, sempre nascosta dietro il giornale spalancato.
E non importava nemmeno che mia madre avesse sempre lo sguardo
fisso sul piatto, con il respiro affannato e le mani che le
tremavano, terrorizzata dall'idea di dire la cosa sbagliata nel
momento ancora più sbagliato.
Ed io non riuscivo mai a
stare zitto, non riuscivo a non ribellarmi. Quell'enorme farsa mi
è sempre andata troppo stretta. Ho perso il conto di tutte
le volte in cui mio padre mi ha spedito in camera senza cena, per
poi sentire mamma che durante la notte saliva le scale in punta di
piedi per portarmi qualcosa da mangiare. Ho passato l'adolescenza
in punizione. Per aver parlato troppo, per aver preferito per
l'ennesima volta la schifosa verità all'insopportabile
recita, per aver lasciato a briglia sciolta quello che ormai era
diventato il mio compagno di giochi: il sarcasmo.
A scuola sono
sempre stato in disparte, perso in un mondo che non apparteneva a
nessuno se non a me. Ero il ragazzo solitario, quello con il libro
in mano e i capelli spettinati. Ed andava bene così.
Sono
sempre riuscito a trovare un equilibrio fra tutte le cose che mi
interessavano. Ed in questo equilibrio ci facevo entrare anche le
ragazze. I primi anni le cose non andavano benissimo, i pochi
appuntamenti che riuscivo ad ottenere li rovinavo al massimo alla
seconda uscita, senza neanche riuscire a capire dove avessi
sbagliato. Ma poi sono cresciuto, ed il mio corpo con me. Non mi
dovevo più sforzare per far colpo, per attirare uno
sguardo, per avvicinare una ragazza. Mi bastava essere quello che
ero, stare in disparte dov'ero sempre stato, e le ragazze
arrivavano da sole. Non ero costretto a trascinarmi a feste idiote
per rimorchiare, mi bastava sfoderare un sorriso sghembo, passarmi
una mano tra i capelli 'di un colore che non avevano mai visto
fino ad allora', al massimo aggiungere quant'ero bravo a
destreggiare le mie dita anche sui tasti di un pianoforte. Ed il
gioco era fatto.
Le quattro mura di casa traboccavano di
problemi e quando ne uscivo non volevo ulteriori complicazioni.
Solo cose semplici, nessun rompicapo sentimentale. Solo parole
dritte al punto, nessun romanticismo. Solo scopate, nessun
amore.
Ma tutto l'equilibrio è stato spazzato via quella
sera, nel momento in cui ho aperto la porta di casa ed ho trovato
mia madre accasciata sul divano, con le mani tra i capelli. Sono
corso ad abbracciarla, straziato dal suo dolore e terrorizzato
dall'idea di scoprire cosa fosse successo. Singhiozzava parole
senza senso, io continuavo a ripeterle di calmarsi. Dov'è
Rose? le chiedevo preoccupato, ma lei non aveva la forza di
parlare. Dopo qualche bicchiere d'acqua e cascate di lacrime, mi
ha confessato disperata che nostro padre se n'era andato. Era
tornato dal lavoro e, borbottando le sue solite parole tanto
inutili quanto ipocrite, aveva fatto i bagagli per non tornare mai
più. Aveva deciso di lasciare la sua moglie perfetta e la
sua famiglia da pubblicità così, come un vigliacco.
Il vigliacco che in fondo era sempre stato.
In quel momento
scese le scale la piccola Rosalie, che a sette anni era costretta
a vedere sua madre a pezzi tenuta insieme soltanto dalle braccia
di suo fratello.
È stata quella la prima volta di una
lunga serie in cui tutto quello che volevo era solo tapparle occhi
e orecchie ed evitarle di vedere e sentire tutte quelle urla e
quelle lacrime. Ma non potevo. Allora mi sono limitato a
stringerla, e tra le mie braccia ho fatto posto ad entrambe le
donne della mia vita.
Con le labbra premute sui capelli
profumati di Rosalie ed una mano sulla spalla di mia madre, mi
sono quasi vergognato quando mi sono accorto che io non avevo
bisogno di essere consolato. Io non stavo male, non ero distrutto,
non avevo voglia di piangere.
Io ero sollevato.
Carlisle se
n'era andato, portandosi via le sue idee del cazzo, e forse per
noi la vita sarebbe migliorata, forse avremmo trovato una felicità
tutta nostra, fatta di risate sguaiate e cene consumate sul divano
alle nove di sera.
Ad un tratto ricordai mia madre, vista con i
miei occhi di bambino. Quando ancora sorrideva, scherzava,
correva. Passava interi pomeriggi a dipingere con suo figlio sulle
ginocchia, canticchiando canzoni d'amore, aspettando con
trepidazione il ritorno a casa del suo uomo. Ma quell'uomo negli
anni è cambiato, è stato risucchiato dai soldi, dal
lavoro, dalla sua merdosa clinica. E la mamma frizzante e piena di
vita che conoscevo è sparita. Il tempo e il matrimonio le
hanno portato via tanti piccoli pezzettini di lei, fino a lasciare
soltanto un involucro, triste e vuoto. Ed io speravo che quella
donna sempre entusiasta e sorridente potesse tornare, come se non
se ne fosse mai andata.
Ma mi sbagliavo. Niente è
migliorato, è soltanto cominciato un altro orribile
capitolo della nostra vita. Un capitolo che mi ha costretto a
caricarmi sulle spalle una casa e una famiglia, a fare i compiti
insieme alla mia sorellina ed a ripetere le tabelline con lei. Mi
ha costretto ad imparare come si fa una lavatrice, come si pagano
le bollette e come si cucina un pasto per tre persone, che di
solito restavano in due.
Tutto questo perché lei non ce
la fa. Esme, mia madre. Da quella sera non ha più smesso di
piangere, non ha più smesso di disperarsi, ha solo cambiato
posto dove farlo. Dal divano si è trascinata nel letto e ci
è rimasta per giorni, settimane, mesi. Si è tolta la
maschera che indossava quando mio padre era qui, ma nel frattempo
si era scordata come si fa a sorridere, ad accarezzare tua figlia,
ad abbracciare tuo figlio. Si ricorda soltanto quanto le piace la
vodka e non fa altro per tutto il giorno. Si attacca alla
bottiglia, dorme, piange, torna alla bottiglia. Esce di casa
soltanto quando la sua migliore compagnia si svuota ed io le urlo
contro che nemmeno morto vado a comprargliela. Ecco, in quelle
occasioni si sforza, si mette un giaccone sopra il pigiama ed esce
nel mondo, per tornare a casa solo qualche minuto dopo, con una
bottiglia piena stretta tra le mani.
Non è servito a
niente scuoterla, sgridarla, ripeterle che deve farsi aiutare, che
non si può scordare di essere una madre. Non è
servito a niente nemmeno abbracciarla, coccolarla, consolarla.
Non
serve a niente, tutto resta uguale: io con il suo vomito da lavare
dal pavimento.
Lo sguardo si posa sull'orologio che porto
al polso e all'improvviso i ricordi vengono spazzati via dalla
paura di fare tardi: devo andare a prendere Rose a scuola.
Afferro il cappotto e le chiavi del lucchetto della bicicletta
(Sì, una bicicletta...
perché naturalmente mio padre si è portato via
l'unica macchina che avevamo). La stessa bici con cui l'ho portata
a scuola a settembre, il primo giorno del nuovo anno scolastico.
Quella mattina era una piccola forza della natura, con il suo
zaino rosso sulle spalle e le guance arrossate dall'emozione. Si è
rifiutata categoricamente di salire sul seggiolino attaccato al
manubrio, me l'ha fatto smontare e mi ha costretto a portarla
sulla canna 'perché i grandi fanno così'.
Sorrido
a quel ricordo e comincio a pedalare.
Mi appoggio al grande
cancello di ferro battuto proprio mentre sento suonare la
campanella. Pochi secondi dopo il piazzale si riempe di un enorme
sciame di bambini che escono correndo dal portone di legno scuro.
Tra tutte quelle piccole teste cerco Rose e riesco a notarla
perché è l'unica a non correre. Sta animatamente
parlando con un suo amichetto, gesticola con foga, si sistema i
lunghi capelli biondi dietro le orecchie. La guardo e non posso
fare a meno di sorridere. Mi meraviglia ogni volta, ogni giorno.
Con la sua spontaneità, la sua sincerità, la sua
vivacità... tutto concentrato nella dolcezza di una bambina
di sette anni. Appena mi scorge, in mezzo a tutti i genitori, la
bocca le si spalanca in un sorriso largo quanto un abbraccio. Alza
subito la sua piccola mano e la agita per salutarmi.
Ecco qual
è la mia forza, ecco cos'è che mi salva
dall'impazzire: quel meraviglioso sorriso.
Mi si avvicina ed io
la prendo subito in braccio, sentendo le sue mani morbide
circondarmi il collo. Le scompiglio i capelli, che lei si affretta
a riordinare con le dita.
"Allora, principessa? Com'è
andato l'ultimo giorno di scuola prima delle vacanze?"
"Tutto
bene, come sempre." Abbassa lo sguardo, giocando con lo
scollo a V della mia maglietta.
"Abbiamo fatto questo,"
apre una mano e mi mostra il regalino per le famiglie che fanno
preparare ai bambini ogni anno. È un piccolo abete di
ceramica, colorato con le tempere. "È molto più
bello l'albero che abbiamo fatto noi a casa, vero Edward?" mi
chiede sorridendo.
Ho fatto di tutto per prepararle un bel
Natale, ho comprato tutte le decorazioni che le piacevano, l'ho
sollevata per farle mettere la punta sull'albero. Voglio che ami
il Natale, non voglio che lo detesti come ho sempre fatto io.
"È
molto bello anche questo, Rose!"
Poi si rabbuia, il
sorriso sparisce e sussurra "Ci dovevo scrivere dietro i nomi
dei componenti della mia famiglia... io non sapevo cosa scrivere."
L'ultima parola la sento a malapena.
Con il cuore stracolmo di
tenerezza, volto subito l'alberino che stringo in una mano.
Ha
scritto Mamma, Edward, io.
"Va
benissimo così, mostriciattolo. Puoi scrivere quello che
vuoi!" e le stampo un bacio sulla guancia.
Mi sento
strattonare i jeans con forza e abbasso lo sguardo, trovando una
testa coperta di capelli a spazzola, neri come la pece.
"Mia
mamma ancora non è arrivata" borbotta timidamente il
bambino.
"Non ti preoccupare Emm, l'aspettiamo con te"
si intromette Rose, che ha già ritrovato tutta la sua
allegria. "vero, Edward?"
"Certo, certo"
provo a tranquillizzare entrambi i bambini.
"Possiamo
andare a giocare mentre aspettiamo la sua mamma?" mi chiede
mia sorella con un sorriso.
Io non so cosa risponderle. È
una delle classiche situazioni, che mi si presentano ogni giorno,
in cui vorrei dirle soltanto E io che ne
so?. Ma sta a me decidere perché
sono l'unico a cui può chiederlo.
Guardo il piccolo
parco giochi al centro del giardino della scuola: ci sono già
altri bambini, posso comunque tenerla d'occhio e non mi dispiace
rimanere qui per qualche altro minuto.
"Ok, va
bene."
"Siiiiiii!" urlano in coro i due
bambini.
"Ma non possiamo fare tanto tardi perché
prima di andare a lavoro devo preparare il pranzo per te e mamma,
capito Rose?" Ma lei sta già correndo verso
l'altalena, marcata stretta dal suo amico.
Poi collego il
nomignolo di quel bambino ad un episodio che mi ha raccontato
qualche giorno fa, così la rincorro, la fermo e le
bisbiglio: "Non è quell'Emmett che vuole diventare il
tuo fidanzato, vero?"
"Edwaaaaaard, zittoooo!"
strilla. Si copre la faccia con le mani e continua a
correre.
Sbuffo e mi rialzo lentamente, infilando le mani nelle
tasche dei jeans.
E, proprio mentre vago con lo sguardo per
cercare una panchina su cui sedermi, la vedo.
La mia
ossessione, l'unica pazzia che mi concedo, il motivo per cui
venire a prendere Rose a scuola non mi pesa neanche un po':
Isabella Swan, la maestra.
È appoggiata al portone della
scuola, con le braccia intorno ai fianchi per proteggersi dal
freddo, osserva i suoi studenti che abbracciano i genitori.
Indossa una camicetta bianca, un golfino di lana ed una gonna
a vita alta che le lascia scoperte le ginocchia. Ai piedi indossa
un paio di scarpe con il tacco alto.
Come sempre, lascio che la
mia mente malata immagini tutto quello che non riesco a vedere: il
reggiseno che indossa sotto la camicetta, il reggicalze nascosto
dalla gonna, il collo liscio e profumato coperto dal colletto
bianco. Sento l'uccello indurirsi, imprigionato nei
jeans.
Isabella si avvicina ad una mamma, che le dice qualcosa
che non riesco a capire. Lei sorride, guarda con tenerezza il
bambino aggrappato alla gamba della madre e gli fa una carezza
prima che si allontanino. E poi il suo sguardo cambia perché
si intreccia con quello dell'unico ragazzo presente nel piazzale,
che se la sta mangiando con gli occhi.
Succede sempre così,
ogni mattina: i nostri occhi si cercano e sono sempre pronti a
trovarsi.
Arrossisce immediatamente, abbassa la testa con uno
scatto, come se volesse scacciare un pensiero. Io ne approfitto e
mi avvicino.
"Salve, signorina Swan." Lei è
imbarazzata, io no.
"Ciao, Edward." risponde, dopo
aver schiarito la voce.
"Le va di farmi compagnia?"
chiedo, sfacciato come il mio sguardo.
"Smettila, ti ho
già detto mille volte di non darmi del lei!"
"Mi
scusi." insisto, alzando un angolo della bocca.
Le strappo
un sorriso, che le scopre i denti bianchi e perfetti. Vedo le
guance imporporarsi sempre di più, gli occhi color
cioccolata si illuminano. Ed ogni volta che la vedo brillare mi
sembra un regalo, una piccola conquista.
Una ciocca di capelli
le scivola davanti agli occhi ed io, con un riflesso pronto,
allungo la mano e gliela sposto dietro l'orecchio. Nel momento
esatto in cui la tocco un brivido mi percorre la schiena.
Un'emozione forte che però non riesce a distrarmi dai jeans
che diventano sempre più stretti e fastidiosi. Lei si
allontana di un passo, intimorita dalla mia iniziativa.
Si
guarda intorno, controlla che nessuno ci stia osservando. È
nervosa, si morde il labbro inferiore. Un movimento che butta
benzina sul mio fuoco perché non fa altro che farmi notare
le sue meravigliose labbra carnose.
Vorrei avvicinarmi di
nuovo, ma mi ferma la paura di esagerare. Finora ci siamo sempre
scambiati qualche parola, ci siamo punzecchiati, provocati. Le ho
rubato un'informazione dopo l'altra, conservandole come se
potessero scappare. Ho scoperto che non è fidanzata, che ha
venticinque anni, che è in città da sola perché
la sua famiglia vive lontano. Parole sussurrate, sorrisi nascosti
dalla timidezza, domande azzardate, ma niente contatto. Ci
sfioriamo a malapena, lei non si avvicina mai abbastanza. E tutte
le volte io impazzisco. Pazzia mischiata alla paura che sia tutto
un gran bel film girato nella mia mente deviata.
"Io
lavoro alla RoadHouse, la tavola calda in centro." azzardo,
senza smettere di sorriderle. "Faccio pranzo, cena e quando
posso lavoro fino a tardi. Lì non saresti costretta a
guardarti intorno con la paura che qualcuno ti stia osservando. Ed
io con il grembiule sono uno spettacolo da non perdere." Le
rubo un altro sorriso, un'altra piccola conquista. "Passi
stasera?"
Mentre io prego che mi dica sì senza
pensarci neanche due volte, lei scuote la testa, lasciandosi
sfuggire un sospiro.
"Sei tremendo." dice fra sé
e sé, evitando i miei occhi.
"Lo so. Vieni?"
Mi
scruta con il suo sguardo luminoso e i suoi pensieri indecifrabili
e, mentre indietreggia verso il portone, bisbiglia: "Ci
penserò."
La vedo sparire e qualche secondo dopo
si dissolve anche il rumore dei suoi tacchi.
Io torno ad
osservare mia sorella, che sta ordinando ad Emmett di spingere
l'altalena più forte, ed intanto comincio a pensare a cosa
posso tirar fuori dal frigorifero per mettere insieme un pranzo
decente.
***
Mezzanotte del 23 dicembre ed
io sto ancora lavorando.
Non è stata una serata troppo
impegnativa: pochi clienti, poche ordinazioni, poche distrazioni.
Il Natale è sempre più vicino e la gente inizia a
preferire l'atmosfera intima ed accogliente delle loro case ad una
tavola calda piena di sconosciuti. Di solito a quest'ora sono
sempre indaffarato tra drink e spuntini notturni, ma oggi posso
già cominciare a riordinare tavoli e sedie.
Jacob Black,
il proprietario del locale da quando suo padre Billy è
venuto a mancare, esce dal magazzino tenendosi il cappotto su una
spalla.
"Cullen, stasera ti è andata bene!"
grida nella mia direzione, con una voce sottile sproporzionata al
suo corpo ingombrante. "Appena finisci di pulire puoi andare
a casa, sei libero! Ti dispiace chiudere al posto mio?" mi
chiede, con una pacca sulla spalla. Io mi lascio sfuggire un
sospiro, sollevato dal pensiero che stasera potrò tornare a
casa ad un orario decente e, dopo un'eternità, riuscire a
dormire per più di cinque ore. O almeno provarci.
"Voglio
tornare a casa prima che Leah si sia addormentata, lo sai quanto
diventa insopportabile quando la faccio innervosire!"
Annuisco con un sorriso tirato, anche se in realtà non ne
ho idea. Io sua moglie l'ho vista solo due volte, era lontana e
nemmeno mi ha rivolto parola.
Gli dico di non preoccuparsi e
che può stare tranquillo. Non aggiungo che sbrigare le
ultime cose senza nessuno tra i piedi sarà ancora più
piacevole. Mi saluta, mi augura la buona notte ed io
ricambio.
Dopo aver passato velocemente la spugna sul bancone,
mi avvicino ai tavolini ed alzo una sedia per poter cominciare a
spazzare. Ma non faccio in tempo ad afferrare la scopa che il
campanellino attaccato alla porta comincia a suonare, seguito dal
rumore di qualche passo incerto. Per un attimo resto immobile,
indeciso se servire l'ultimo cliente o cacciarlo dicendogli che
siamo chiusi. Il sonno che mi è sfuggito per troppe notti
ha la meglio e mi volto, annunciando con tono fermo: "Mi
dispiace, ma stiamo chiud-"
Le parole mi muoiono in gola
quando mi trovo davanti Isabella.
Tiene le braccia incrociate
sul petto, forse per il freddo, forse per l'imbarazzo. Indossa un
cappotto nero, stretto in vita, che valorizza la forma dei suoi
fianchi. In testa porta un delizioso cappellino di lana rosso, dal
quale sbuca una morbida cascata di capelli mossi.
Proprio
quando mi rendo conto che sono in silenzio da troppo tempo e che
devo assolutamente trovare qualcosa da dire, è lei a
parlare.
"Mi dispiace," sussurra. "è
tardissimo, stai chiudendo... me ne vado."
"No,"
mi affretto a rassicurarla. "resta."
Faccio un passo
verso di lei, prima che possa voltarsi ed andarsene. D'istinto
allungo un braccio per trattenerla, ma senza nemmeno sfiorarla
torno ad appoggiarlo sulla sedia quando mi accorgo che non è
necessario: non si è voltata, non ha fatto un passo, non se
ne vuole andare.
Tolgo la sedia dal tavolo a e gliela indico.
"Siediti pure."
E allora lei sorride. Come se
all'improvviso qualcuno l'avesse liberata di un macigno caricato
sulle spalle, come se ad un tratto fosse più leggera, più
giovane, più spensierata.
Si siede timidamente, con le
mani in grembo, e quando mi passa davanti sento che profuma di
buono.
"Cosa ti porto?" le chiedo gentilmente,
allungandole un menù.
"Ma stavi chiudendo, non
voglio disturb-"
"Che ne dici di una cioccolata
calda?" la interrompo.
Lei mi guarda per un secondo che
sembra un anno, scuote la testa e dopo aver liberato un respiro
pesante si arrende. "Vada per la cioccolata calda!"
Raggiungo
il bancone e preparo la bevanda con la testa che rischia di
esplodere: voglio impiegare meno tempo possibile per poter tornare
subito da lei, ma nello stesso tempo voglio impegnarmi per
prepararle con cura la cioccolata più buona che abbia mai
assaggiato.
Quando lei vede la tazza, ricoperta fino all'orlo
con una spruzzata di panna montata, sgrana gli occhi come di
solito fa Rosalie quando è felice. "È
perfetta!" sussurra.
"Come fai a dirlo? Prima
assaggiala!"
Mi siedo accanto a lei e la vedo avvicinarsi
la tazza alla bocca. Alla sua meravigliosa, carnosa, morbida
bocca. Inizio a giocherellare con le mani per distrarmi, seguo con
un dito le venature del tavolo per non pensare che mi basterebbe
allungarmi di un paio di centimetri per toccarla, per
accarezzarla, per...
"È perfetta davvero! Ora che
l'ho assaggiata lo posso dire, giusto?"
Mi lascio andare
ad una risata, che aumenta quando vedo la punta del suo nasino,
arrossata dal freddo, macchiata di cioccolata. Allungo l'indice e
la catturo con il polpastrello, che poi succhio portandomelo alle
labbra.
La vedo imbarazzata, con gli occhi velati di
un'emozione che non so tradurre, e per smorzare la tensione le
sorrido. Quel sorriso sghembo che tante volte ho sfoderato, ma che
mai mi era sembrato così poco convincente come
adesso.
"Dimmi un po'..." mormora, guardandomi dritta
negli occhi, con una sicurezza che fino a pochi minuti fa non
c'era. "Quante ragazzine hai conquistato con quel sorriso
storto?"
Scoppio a ridere, divertito e anche un po'
imbarazzato. "Non abbastanza a quanto pare."
Stringe
le dita intorno alla tazza e, dal cambiamento del suo sguardo,
capisco che sta per iniziare un discorso che la mette a
disagio.
"Senti Edward,"
"Dimmi"
"forse
ho sbagliato a venire qui o forse no, non lo so. Il problema è
che nemmeno io so perché sono venuta. Ero indecisa, tu ieri
mi hai invitata ed io non sapevo cosa fare... ma poi mi sono detta
che due chiacchere tra amici non avrebbero fatto male a
nessuno"
"Tra amici?"
"Voglio solo che
tu sappia" continua, ignorandomi. "che non sono qui per
quello che pensi, per quello che vuoi. Perché l'ho capito
quello che vuoi. Si vede, eccome se si vede... da come mi guardi,
da come mi parli. E dovresti smetterla, davvero"
"Isabella."
"È
una cosa completamente sbagliata, spero che tu te ne renda conto.
Io sono l'insegnante di tua sorella, capisci? L'insegnante di tua
sorella! E sono un'adulta, sono una donna, molto molto più
grande di te. Ed è sbagliato... anche solo essere qui è
completamente sbagl-"
"Isabella." la chiamo di
nuovo, posandole una mano sul braccio. "Hai parlato
abbastanza, non ti pare? Ora calmati, respira e lascia parlare
me."
Annuisce seria, sfuggendo al mio sguardo.
"Non
mi sono fatto nessuna idea, davvero." inizio, provando a
nascondere l'insicurezza che mi sta rodendo lo stomaco. "So
solo che sto bene. Ora, qui, con te... sto bene. E non dobbiamo
etichettarlo, dargli un nome. Come non dobbiamo dare un nome a noi
due." Mi guarda con i suoi occhi grandi e lucidi, aspettando
di sentire le mie prossime parole. "Stasera non sei
l'insegnante di Rosalie ed io non sono il fratello di una tua
alunna. Sei solo una donna incredibilmente bella che ha deciso di
prendere qualcosa da bere e per sua fortuna ha trovato un
cameriere con cui adora parlare. Va bene? Ci stai?"
Sospira,
scrutandomi per capire se sono sincero. Quello che vede forse la
convince davvero perché mi sorride ed annuisce. "Ci
sto", e a me sembra di aver appena scalato una montagna.
Le
ore successive scorrono sull'orologio in modo strano, particolare,
emozionante. Il tempo scivola veloce ed è scandito da
emozioni diverse, contrastanti, una continua lotta tra sollievo e
ansia. Sollievo per ogni parola che sento uscire dalla sua bocca e
ansia perché temo sempre che possa essere l'ultima. Più
lei parla e più capisco che io non ne avrò mai
abbastanza. Della sua voce, del suo modo delicato di gesticolare,
delle sue fossette che le addolciscono il viso più di
quanto sia umanamente possibile.
Mi chiede dei miei studi,
vuole sapere perché ho deciso di lavorare invece di andare
al college ed io libero le parole come se fossero un fiume in
piena. Le racconto della mia famiglia, di mia mamma, di quanto
riesco ad amare quel piccolo scricciolo biondo che anche lei vede
tutte le mattine. Le dico quanto sia stata naturale, sofferta e
scontata l'idea di abbandonare per un po' gli studi per stare
vicino a loro, per non abbandonare le persone a cui tengo di più
al mondo. Le dico cose che non ho mai detto a nessuno e per la
prima volta ascolto il suono dei miei pensieri, da sempre chiusi a
chiave nella testa e nel cuore.
Le racconto la mia passione,
la musica. Le racconto il mio sogno, diventare un medico. E le
racconto anche il mio incubo, diventare un medico come mio
padre.
Lei ricambia con foga ed emozione le mie parole, il mio
interesse, la mia voglia di aprirmi ed aggiunge acqua al mio fiume
in piena. Completamente rapito, l'ascolto parlare di sua madre e
di suo padre. Capisco, dalla voce incrinata e dagli occhi turbati,
quant'è stato difficile gestire i rapporti con i genitori
separati, sempre divisa tra due case, due vacanze, due caratteri e
migliaia di abitudini diverse. La vedo arrossire nominando i suoi
pochi e sbagliati amori e mi emoziono davanti ai suoi occhi lucidi
quando mi confessa di invidiare il mio rapporto con Rosalie, il
rapporto che fin da bambina ha sognato di avere con una sorella
che purtroppo non ha mai avuto.
Lei parla, io ascolto e poi ci
scambiamo di nuovo i ruoli, come se fosse una danza che entrambi
sappiamo eseguire alla perfezione, senza sbagliare i passi e senza
pestarci i piedi. E sento ogni parola accarezzarmi la pelle come
se fosse medicina per le mie ferite.
Poi cominciamo a parlare
del Natale, di questo Natale. Io mi mordo la lingua per non dirle
che tutto quello che vorrei è un Natale sotto le coperte
con lei e, mettendo da parte per l'ennesima volta i pensieri
sconci, le chiedo se partirà per trascorrere le vacanze con
i suoi.
"No," borbotta timida. "preferisco
rimanere qui, tanto non sarebbe un bel Natale nemmeno se tornassi
a casa."
"Quindi sarai da sola?" Mi si stringe
il cuore immaginandola sola in casa, senza l'abbraccio di nessuno,
senza nessuno con cui fare un brindisi.
"Una mia collega,
Angela, mi ha invitata a casa sua per la Vigilia. Una cena
tranquilla, con i suoi amici."
"Ma?"
Mi
sorride complice. "Ma... non credo di andare."
"Beh,
vieni da noi!" le dico, spontaneo quanto convinto.
"Cosa?!"
squittisce, sgranando gli occhi.
"Non sarà nulla di
formale, non ti preoccupare. Proveremo a mangiare le schifezze che
cucinerò, ascolteremo un po' di musica oppure guarderemo un
film, quello che vuoi." Cerco la sua approvazione con lo
sguardo, ma non la trovo perché lei evita di guardarmi.
"Rose sarebbe pazza di gioia, e lo sarebbe anche mia madre se
riuscisse a tenere gli occhi aperti."
La vedo abbassare
all'improvviso la testa, rabbuiata dalle mie parole. Quando torna
a guardarmi i suoi occhi sono più duri, più scuri,
non ammettono repliche.
"No, Edward." Due semplici
parole ed io rotolo giù per quella montagna che con tanta
fatica avevo scalato.
"Va bene, ti capisco." mi
affretto a precisare, con un sorriso che spero sembri tranquillo e
comprensivo.
La vedo afferrare la borsa, infilarsi il cappello,
rimettersi il cappotto. Tutto sembra andare a rallentatore ed io
non sono cosa fare, come fermarla. Osserva per qualche secondo la
tazza vuota di fronte a lei e poi cerca me, con gli occhi di nuovo
dolci e sereni.
"Grazie" sussurra emozionata. "Grazie
davvero. È stata una serata perfetta."
"Di
più." mormoro, sentendo spuntare il sorriso storto
contro la mia volontà.
Si alza lentamente e, come un
mendicante sogna una manciata di spiccioli, io mi ritrovo a
sperare che mi lasci almeno un bacio sulla guancia. Patetico, lo
so. Ma lei non si avvicina, resta in piedi davanti al tavolo.
All'improvviso mi passa una mano tra i capelli, spettinandoli
ancora di più. Sento le sue piccole dita sottili che
scivolano sulla mia testa e non ho il tempo di fare niente,
pensare a niente, riesco a malapena a socchiudere gli occhi e a
godermi l'attimo. Si allontana subito, facendo risuonare i suoi
tacchi nella piccola stanza vuota, e mi saluta con un ultimo
sorriso.
***
Non ho idea di come si prepari
una cena per la Vigilia di Natale. Mi ricordo che mia mamma ogni
anno si chiudeva in cucina per ore, lavorando sui dettagli,
cercando di accontentare i gusti di tutti. Ma io non so proprio da
dove partire. Oggi pomeriggio sono salito in camera sua per
chiederle qualche consiglio, lei mi ha risposto barcollando fino
al bagno e chiudendocisi dentro. Per fortuna ho trovato il suo
ricettario e mi sono procurato gli ingredienti per cucinare
qualcosa di non troppo complicato.
Sospiro e mi porto le mani
alle tempie. Se non fosse per Rose a quest'ora sarei in un bar ad
ubriacarmi fino a svenire.
"Edward? Tutto bene?"
Sento la voce di mia sorella che mi raggiunge dalla sala da
pranzo.
"Arrivo!" rispondo urlando, mentre cerco le
presine per aprire il forno.
Pollo al sale grosso e patate
arrosto. Spero siano meglio delle lasagne bruciate con cui abbiano
iniziato.
Corro in sala da pranzo con la teglia fra le mani e,
sussultando, mi blocco. È come se per un attimo riuscissi a
vedere la mia famiglia dall'esterno, con gli occhi di un estraneo:
una bambina con un paio di treccine bionde che dondola le sue
gambette avanti e indietro sotto il tavolo, una donna trasandata
con i capelli in disordine e la testa tra le mani, e un posto
vuoto.
Sento una stretta al cuore e scaccio quell'estraneo che
compatisce la mia famiglia. Abbandono i suoi panni e, servendo
pollo e patate nei nostri tre piatti, torno ad essere
Edward.
Cominciamo a mangiare ed io mi scuso fin da subito per
il cibo che ancora una volta sarà disastroso.
Rosalie mi
sorride divertita e rassicurante, mia madre continua a tenere lo
sguardo sul piatto. Come sempre, mi viene voglia di scuoterla
arrabbiarmi urlare ma, come sempre, mi mordo la lingua.
In
ricordo di quanto le piacesse riempire la tavola di candele,
bicchieri di cristallo, tovaglioli colorati, piatti di ogni forma,
poco prima dell'ora di cena le ho chiesto di apparecchiare.
L'unica cosa che le avevo chiesto di fare, l'unica. Ha accettato,
sfiorandomi una mano, e per un attimo ho sperato che potesse
essere una bella serata. Ma quando si è accorta che per
sbaglio aveva preso piatti e posate per quattro persone è
scoppiata a piangere ed è tornata ad accasciarsi sul
divano.
"Bravo Edward, è buono!" commenta
Rose, un po' troppo entusiasta.
Io la guardo storto,
fingendomi offeso dal suo finto complimento. In realtà,
sono lusingato dal suo tentativo di coccolarmi.
"A me
sembra sciocco e anche un po' crudo." borbotto.
"Vabbè...
sempre meglio delle lasagne!" e ridiamo insieme.
La cena
trascorre così, con la voce di mia sorella che mi fa
compagnia e occhiate veloci lanciate a mia madre per controllare
se sta mangiando. Rose prova a coinvolgerla nei suoi discorsi, a
volte ci riesce per qualche minuto, altre volte invece si arrende
quando si accorge che sua madre non ha proprio voglia di
parlare.
Continua a raccontarmi della scuola e dei suoi amici,
giocando con le ultime patate rimaste nel piatto.
"Lo sai
Edward che c'è una bambina che mi copia? È
insopportabile!" Io la guardo confuso e lei continua, ancora
più agguerrita. "Fa tutto quello che faccio io, tutto!
Si veste come me, si pettina come me... Se io mi faccio le
treccine lei il giorno dopo, indovina un po'?, arriva a scuola con
le treccine!" Butta gli occhi al cielo, allarga le braccia e
scuote la testa.
"Ed è una cosa grave?" chiedo
ancora più confuso, provando a ricordare se durante la mia
infanzia avessi mai fatto caso a come fossero vestiti o pettinati
i miei compagni di classe.
"Ceeerto!" risponde
indignata, sgranando gli occhi.
Io lancio un'occhiata a mia
madre, sperando che lei – da donna – riesca a capirla
meglio di quanto possa fare io, ma ci sta ascoltando a
malapena.
"Beh..." inizio, non sapendo bene dove
andare a parare. "Secondo me la stai prendendo nel modo
sbagliato!" Lei, in risposta, mi guarda come si guarda un
pazzo.
"A me sembra molto semplice..." continuo. "Se
ti copia vuol dire solo che le piaci. Le piace come ti vesti, come
ti pettini, e – chissà – se diventi sua amica
le potrai dare anche qualche consiglio. Così sarete
contente tutte e due, no?"
L'espressione nei suoi occhi
cambia e posso vedere il momento esatto in cui le mie parole per
lei diventano credibili. Si sistema sulla sedia, con la schiena
sempre più dritta, e mi sorride.
"In effetti..."
sussurra orgogliosa.
Ricambio il suo sorriso e, ordinandole di
finire tutte le patate che ha lasciato nel piatto, le do un
leggero pizzicotto sulla guancia. Proprio mentre lei risponde con
una linguaccia, mia madre rompe il suo silenzio.
"Ragazzi,"
sussurra, con una voce sottile che sembra sul punto di spezzarsi.
"vi dispiace se mi vado a stendere sul divano?"
"Sì"
rispondo veloce, senza lasciare il tempo a mia sorella di dire la
sua. Rose mi guarda preoccupata e mi rendo conto che ho usato un
tono un po' troppo forte. Provo ad addolcirlo ed aggiungo "Ho
preparato una torta di mele seguendo una tua ricetta, mi
piacerebbe sapere cosa ne pensi. Va bene, mamma?"
Lei mi
rivolge un sorriso che sembra quasi compatirmi ed io mi incazzo
ancora di più.
"Perdonatemi, ragazzi... ma proprio
non ce la faccio. Non mi sento molto bene." e si alza.
Io
sento la testa in fiamme, un fischio nelle orecchie, la mascella
tesa e mi affretto a bere un po' d'acqua per calmarmi. Quando
avvicino la mano al bicchiere mi accorgo che trema, e la vede
anche Rose.
"Io la mangio volentieri la torta!" mi
dice.
La guardo, così piccola e forte, così
dolce e sveglia. Ha gli occhi grandi e lucidi, pieni di
preoccupazione.
Mi risuona nella mente la sua voce, mi specchio
nel suo sorriso timido che tenta disperatamente di consolarmi e
sono costretto a distogliere lo sguardo per evitare di scoppiare a
piangere.
Laviamo i piatti insieme, come sempre. Io con le
braccia immerse nella schiuma e lei in piedi su una sedia, pronta
ad asciugare tutto quello che le passo. Canticchiamo una
canzoncina insieme, io comincio il verso e lei lo finisce. Quando
si stanca di cantare, mi schizza con la schiuma, balla come se
fosse una cubista, finge di cadere dalla sedia per impaurirmi, non
sta ferma neanche per un secondo. Poi, dopo avermi raccontato per
l'ennesima volta una barzelletta sentita dal suo amico Emmett,
cambia argomento.
"Secondo te la mamma vorrà
giocare con noi dopo?" chiede. "Almeno un po'?"
"Non
lo so." rispondo, con l'ennesima stretta al cuore.
"Forse
vuole guardare un film, un cartone animato... oppure giocare a
Monopoli!"
"Non lo so, tesoro."
"Speriamo!"
Sì,
speriamo.
Rosalie cammina davanti a
me mentre raggiungiamo la sala. La vedo zampettare fino al divano,
dov'è sdraiata mamma. La raggiunge e la scuote
delicatamente, chiedendole sottovoce se ha voglia di giocare con
noi. Esme tentenna lentamente la testa. Preferisci guardare un
film? e, oltre a ciondolare la testa, emette un lamento.
Aiutandosi con il bracciolo del divano, si mette seduta e, con un
filo di voce e lo sguardo perso nel vuoto, ci dice che
preferirebbe salire in camera per stendersi un po' sul letto.
Ed
io impazzisco.
Sento salire la rabbia e, questa volta, le
permetto di esplodere. Lascio che la testa scoppi e che la vista
resti appannata. Con la voce roca e la gola che raschia fino a
farmi male, le rovescio addosso tutte le parole che trattenevo.
Sento ogni cosa sfuggirmi dalle mani: il controllo, la ragione, il
Natale che sognavo per mia sorella. Tutto viene spazzato via. Mi
dimentico che accanto a me c'è Rose e lascio che la mia
voce riempia la stanza.
"BASTA!" ruggisco. "BASTA!
Non ne posso più, cazzo!"
Mia madre si prende
subito la testa tra le mani, per evitare di sentire, ascoltare,
guardare.
"Falla finita, mamma! SMETTILA! Lo so che è
difficile... cazzo, lo so! Ma devi stringere i denti, devi
cambiare, devi alzarti! Capito? ALZATI, PORCA TROIA!"
Mi
fermo un attimo, solo per riprendere fiato. E poi torno a
sovrastarla, con le urla e con il corpo.
"Qual è il
problema? Eh? Quel pezzo di merda di tuo marito ti ha lasciata?
PACE! Si va avanti, tu
devi andare avanti!" Le punto un dito contro, che sembra
schiacciarla ancora di più sui cuscini del divano. "E
se proprio non vuoi farlo per te, se proprio non vuoi pensare a te
stessa, pensa a noi. A NOI, CAZZO! Noi siamo sempre qui! E ci
manca nostra madre... un sorriso, una parola, una qualsiasi
stronzata!"
Si alza a fatica, così stravolta da non
sembrare nemmeno umana. Trema dalla testa ai piedi ed è
così instabile che sembra sul punto di sbriciolarsi. Ha gli
occhi gonfi, traboccanti di lacrime.
Riesce ad alzarsi e,
trovandomela davanti, percepisco ancora di più la grandezza
e l'arroganza del mio corpo che sovrastano il suo, così
piccolo e fragile.
Ma ancora non ho finito. C'è altra
rabbia, altra stanchezza, altre parole.
Questa volta le
sussurro, riuscendo con sforzo a controllare la voce.
"Mi
fai pena, mamma. Pena. E lo sai quanto è brutto compatire
il proprio genitore? Fa schifo mamma, schifo."
Lei, per la
prima volta, mi guarda negli occhi ed immediatamente mi pento di
tutto quello che le ho detto. Vorrei abbracciarla, stringerla,
ripeterle che andrà tutto bene, pregarla di dimenticare. Ma
ormai la barriera si è alzata e le mie parole sono già
indelebili, per entrambi.
Si volta e traballando raggiunge le
scale. La vedo sparire dopo essersi trascinata per i gradini e,
quando sento la porta sbattere, chiudo gli occhi.
Nella stanza
cala il silenzio. Un silenzio pesante e scomodo che mi catapulta
di nuovo nella realtà. Mi rendo conto che non sono solo,
che non lo sono mai stato. Sento addosso lo sguardo di Rosalie, è
come se mi bruciasse le spalle.
So che ho sbagliato. Ho urlato
parole orribili a nostra madre davanti a lei, a lei che ho sempre
voluto proteggere da tutto e da tutti. E, questa volta, la sto
distruggendo proprio io.
Dovevo resistere, dovevo aspettare di
essere solo, non dovevo perdere la testa. Dovevo farlo per Rose,
per questa piccola grande bambina che non chiede altro se non una
serata tranquilla e spensierata.
Sono un coglione. Un
coglione. Non ho nemmeno il coraggio di voltarmi e guardarla.
Ma,
dopo minuti interi di silenzio assoluto, sento avvicinarsi i suoi
passi leggeri e la sua piccola mano scivola nella mia, facendo
incastrare le nostre dita.
Appoggiandosi al mio fianco e
alzando lentamente la testa, bisbiglia "Hai voglia di
continuare il nostro puzzle?"
Io le sorrido. Sorpreso,
sollevato, meravigliato, stupito. E mi limito ad annuire perché
se anche solo provassi ad aprire bocca crollerei davanti a mia
sorella, piangendo come un bambino.
È un puzzle
enorme che portiamo avanti da un mese. Quasi tutti i pomeriggi,
dopo che Rose ha finito i compiti e prima che io debba andare a
lavoro, ci sediamo davanti a tutti quei piccoli pezzettini e
cerchiamo di incastrarli l'uno con l'altro, cerchiamo il posto
giusto per ogni tassello, come se così potessimo ordinare
anche tutto il resto. Entrambi teniamo un occhio sul tavolo e uno
sul coperchio della scatola, che ci mostra quella che sarà
l'immagine finale: la "Notte stellata" di Van Gogh.
E,
mentre ci perdiamo tra tutti quei pezzi e quegli incastri,
ascoltiamo musica, proprio come stasera.
"Posso aprire i
regali?" mi chiede, cercando un pezzo di cielo dello stesso
colore di quello che ha in mano da cinque minuti.
Io,
d'istinto, mi volto verso l'albero addobbato, sotto il quale ci
sono tre pacchetti.
Uno è per mia madre: una catenina
d'oro bianco con un ciondolo, su cui ho fatto incidere il mio nome
e quello di mia sorella. Gli altri due sono per Rosalie: un paio
di guantini di cachemire blu elettrico con una sciarpa abbinata ed
un peluche quasi più grande di lei a forma di lupacchiotto.
Babbo Natale, invece, le porterà un gioco per disegnare e
creare modelli di vestiti. Nella scatola ci sono anche i tessuti
da usare e alcune foto da cui prendere spunto. Ho visto la
pubblicità in televisione e mi sembrava una cosa adatta a
lei, spero di non aver sbagliato.
L'anno scorso il pavimento
era pieno, i pacchi arrivavano fino al tappeto. E c'era un regalo
per tutti, anche per me. Mamma li sceglieva con cura ed era più
emozionata di noi quando li aprivamo, curiosa ed impaziente di
vedere le nostre facce.
"No," rispondo a Rose,
scacciando i ricordi. "potrai aprirli domattina, come tutti
gli anni. Devi imparare ad avere pazienza!"
"Aspettare
mi fa schifo!" E, con una smorfia, continua a cercare il suo
pezzo di cielo.
Il mio ipod, attaccato alle casse, ci propone
una canzone dopo l'altra. Rose canta quelle che conosce, salta
quelle che non le piacciono, ma quando nell'aria comincia a
diffondersi una delle sue canzoni preferite esulta, alza il
volume, abbandona il puzzle e comincia a ballare sulla sedia.
Canta, si dimena, muove a tempo braccia e gambe.
Io la guardo
e rido, sentendo la mia risata riempire la stanza che fino a
qualche minuto fa era piena delle mie urla. Senza smettere di
agitarsi, mi ordina di alzarmi e ballare, di non essere il solito
timidone. Io mi alzo e, impacciato, la prendo in braccio e la
guido in uno strano e patetico valzer.
Rosalie mi scoppia a
ridere nell'orecchio.
"Come sei imbranato! Questa canzone
non si balla cosììì!!!" mi rimprovera,
senza smettere di ridere.
Allora la faccio atterrare sul
pavimento e comincio a fare il cretino, ballando con movimenti
esagerati, come se fossi un ubriaco al centro della pista di una
discoteca. E mentre mi dimeno, inciampo sul tappeto e cado a
terra. Le risate di Rose diventano incontrollabili, si sbellica
tenendosi la pancia con le mani. Io rimango disteso sul pavimento,
godendomi ad occhi chiusi il suono della risata di mia
sorella.
Lei mi salta addosso, mi fa il solletico, continua a
ridere con le lacrime agli occhi.
Mi abbraccia, mi si aggrappa
al collo con le sue piccole mani e, con parole mischiate a
sorrisi, mi sussurra nell'orecchio: "Menomale ci sei
tu."
Sento gli occhi bruciare, il petto gonfio di
emozione, un groppo in gola che non so come sciogliere.
E,
all'improvviso, la sua risata sparisce. Il divertimento se ne va e
restano soltanto le lacrime. Le scivolano sulle guance, mi bagnano
il collo, la maglietta. La sento sussultare, il suo corpicino
scosso dal pianto si aggrappa alle mie spalle. Ed io la stringo...
per darle forza, per darle amore, per darle tutto quello che
spesso manca anche a me.
Mi alzo dal pavimento, senza smettere
di stringerla, continuando a tenerla in braccio, e mi siedo sul
divano. Rosalie si appoggia a me, con la testa tra il mio collo e
la spalla. Non smette di piangere, ed io non smetto di ripeterle
che andrà tutto bene.
Andrà
tutto bene, scricciolo. Te lo prometto, andrà tutto
bene.
Le riempio i capelli di baci, le
accarezzo la schiena, la cullo, le canto 'Hey Jude' perché
so che le piace. Lentamente, il respiro si calma e le spalle
smettono di tremare. Riesce a rilassarsi e, sfinita, si addormenta
tra le mie braccia.
Chiudo gli occhi anch'io. I colori della
stanza vengono inghiottiti dal buio, le palpebre stanche trovano
sollievo. E resto così, immerso nel buio, fingendo che per
qualche secondo non esista nient'altro. Sento i muscoli sempre più
rilassati e, abbracciato dal calore di Rosalie, mi
assopisco.
Riapro gli occhi e non so quanto tempo è
passato. Per un attimo resto spaesato, chiedendomi che giorno è,
dove sono, quanto ho dormito. Mi passo una mano sugli occhi e
sento un respiro, diverso dal mio e da quello rilassato di mia
sorella.
Sul divano non siamo soli, c'è anche mia madre.
Seduta accanto a me, né troppo vicina né troppo
distante. Le gambe di Rosalie, che erano abbandonate sui cuscini,
ora sono sulle sue cosce. Le ha tolto le scarpe e le sta
massaggiando i piedi attraverso i calzini.
Ha la schiena
dritta, non è accartocciata su se stessa. Ha gli occhi
gonfi ed arrossati, ma asciutti e liberi dalle lacrime. Le spalle
sono sempre un po' curve, schiacciate da un peso più grande
di lei, ma sta provando a sorreggersi. E lo sguardo non è
perso nel vuoto, ma è puntato su sua figlia.
Senza che
mi guardi o mi rivolga parola, capisco che è il suo turno:
è pronta a parlare, ed io sono pronto ad ascoltarla.
"So
che non capisci il mio dolore," sussurra. "e so anche
che Carlisle non era né un buon padre né un bravo
marito. E proprio per questo è ancora più difficile
spiegarti quanto mi manca."
La voce le si incrina, ma lei
le impedisce di spezzarsi. Gli occhi tornano a riempirsi di
lacrime, ma le lascia intrappolate, in bilico.
"So che non
era presente," continua, schiarendosi la voce. "so che
aveva le sue rigide regole, che non era affettuoso, che era
testardo. Li ho sempre visti e riconosciuti i suoi difetti, e li
vedo anche ora. Potrebbero aiutarmi a superare tutto questo... ma
non è così."
Resta in silenzio, smette di
parlare continuando ad accarezzare Rosalie. Poi riprende a
confidarsi sottovoce, ma questa volta alza la testa e mi guarda
negli occhi.
"Io lo amo, Edward. Io tuo padre l'ho sempre
amato, anche quando faceva di tutto per farsi odiare. È
l'amore della mia vita, sono cresciuta con lui e l'ho visto
trasformarsi davanti ai miei occhi. Quando mi sentivo persa,
confusa, quando non riuscivo più a capire chi ero, mi
bastava guardare lui per ricordarlo. Guardavo lui, guardavo voi e
sapevo di essere una moglie e una madre."
Prende il
fazzoletto che tiene nella tasca del maglione e si soffia il naso.
Il bene che le voglio e la tenerezza che provo mi implorano di
abbracciarla, accarezzarla, dimostrarle che ho capito. Ma non mi
permetto di fermare le sue parole perché so quanto ha
bisogno di lasciarle libere.
"Ora lui non c'è, non
posso più appoggiarmi a lui, farmi sostenere da tutto
l'amore che c'è sempre stato. Ma tu hai ragione, Edward...
ci siete voi. Io sono persa, confusa, non so più chi sono
e, questa volta, per ricordarmelo guarderò voi, soltanto
voi. E saprò di essere una madre, vostra
madre."
Una lacrima, più tenace delle altre, le
scivola sulla guancia.
"So di avere un problema, un grosso
problema. E so di dovermi far aiutare. Lo farò Edward, te
lo prometto. So anche che vi devo chiedere scusa... sia a te che a
tua sorella, ma mi devo scusare soprattutto con te. In questi mesi
ho sempre avuto la vista appannata perché riuscivo a vivere
soltanto così: sfocata, ovattata, lontana. Ma questo non mi
impediva di vederti. Ho visto come sei, tutto quello che fai, come
riesci a prenderti cura di Rose. Vedo l'uomo che stai diventando e
sono così orgogliosa. Così orgogliosa, Edward."
Più
vedo le lacrime che le rigano le guance, più ascolto le sue
parole straziate, e più sento la mascella indurirsi. In
balia di emozioni che non so controllare, mi limito a guardarla,
sperando che i miei occhi parlino per me.
"Mi hai detto di
alzarmi e sono pronta a farlo. Ne ho voglia, ne ho bisogno...
voglio farlo per voi e per me stessa. Spero con tutte le mie forze
di poter ancora rimediare, spero di non aver sprecato troppo
tempo."
Guarda Rosalie, che dorme ancora su di me, e le
lacrime diventano incontrollabili. Le passa una mano sui capelli,
le sistema il maglioncino, le accarezza di nuovo i piedi. E poi
torna a guardare me, con uno sguardo stracolmo di
supplica.
"Riuscirete mai a perdonarmi?" e questa
volta la voce le si spezza.
Io non parlo, non piango, non mi
avvicino, non l'abbraccio. Le tendo una mano. Aperta, sicura,
pronta ad accoglierla. Lei dimentica per un attimo le lacrime,
sorride come se non l'avesse fatto per una vita intera e
l'afferra, come se fosse un salvagente.
Quasi timidamente,
mi ha detto che le piacerebbe dormire con Rosalie, averla vicino
nel lettone per tutta la notte. Io ho preso in braccio mia sorella
e l'ho accompagnata in camera di nostra madre.
Si è
infilata sotto il piumone come se fosse il suo piccolo guscio e,
appena toccato il cuscino, ha aperto leggermente gli occhi. Ha
capito che non era nel suo lettino, che presto avrebbe avuto la
sua mamma accanto ed ha sorriso. Fra sé e sé, senza
guardare nessuno, senza dire una parola... ha sorriso.
Io sono
tornato in sala, con la testa sottosopra, con la sensazione di non
avere più il controllo dei miei pensieri, con la paura che
la lunga e difficile giornata stesse per schiacciarmi facendomi
crollare.
Ancora mi risuonano nella testa le ultime parole di
mia madre: “Domattina dormi fino a tardi, non caricare la
sveglia. Ti chiamo io appena il pranzo è pronto.” E,
mentre la guardavo ancora incredulo, ha aggiunto “Buonanotte,
tesoro. Riposati, te lo meriti.”
Parole che aspettavo da
mesi e che credevo di non poter più sentire uscire dalla
sua bocca.
Ad un tratto questa casa, i problemi, le lacrime,
le difficoltà che ho superato e quelle che ancora mi
aspettano, mi tolgono il respiro. Mi sento soffocare. È
come se qualcun' altro avesse preso tutte le mie energie, tutte le
mie forze, tutta la mia aria e a me non fosse rimasto altro che
stanchezza. Insopportabile e faticosa stanchezza. Ho voglia di
spaccare quel cazzo di albero, ho voglia di distruggere ogni
maledetta decorazione, ho voglia di urlare. Tutto questo solo per
non fermarmi a pensare. Tutto questo solo per paura.
Paura di illudermi ancora una volta, di credere alle parole di mia
madre, di sperare che finalmente qualcosa si possa sistemare.
Sento gli occhi bruciare di nuovo, vedo le mani che tornano a
tremare e comincio a camminare, compiendo gesti meccanici, con la
testa vuota. L'unico pensiero è prendere aria, muovermi,
respirare. Cerco il cappotto, non lo trovo e allora esco senza.
Afferro le chiavi, apro la porta e la richiudo sbattendola. Mi
fermo dopo aver fatto a malapena un passo.
Lei è lì,
che cammina avanti e indietro lungo il portico, che si guarda le
punte dei piedi, che respira nelle mani unite a coppa per
sopportare il freddo.
Sente il rumore della porta, si volta,
spalanca gli occhi e si ferma anche lei.
Entrambi immobili,
l'uno davanti all'altra.
Mi vede stravolto, tremante, stanco.
Ed io mi lascio guardare.
Capisce quello che voglio, capisce
tutto quello di cui ho bisogno e lo fa: senza parlare, senza
chiedere, senza spiegare, si avvicina e mi abbraccia.
Le sue
braccia sottili scivolano sui miei fianchi, mi stringe la vita, mi
accarezza la schiena. Appoggia la testa sul mio petto, respirando
sul maglione, coprendomi con i suoi lunghi capelli. Ed io la
sento, come non ho mai sentito nessun' altro in vita mia. Sento le
sue mani, le sue braccia, il suo respiro. Sento lei, e a lei mi
abbandono. Mi lascio cadere nell'abbraccio, mi lascio curare dalla
sua presenza, sfioro con le labbra i suoi capelli morbidi,
intreccio le braccia sulle sue spalle. La tocco, la stringo, la
respiro.
L'aria torna a circolare nei polmoni, la calma
ricomincia a scorrermi nelle vene, il tremore della stanchezza si
placa. E tutto sembra possibile: lei è qui, tra le mie
braccia, la vita non può essere così difficile,
forse le cose si sistemeranno davvero, forse mia madre manterrà
le sue promesse, forse Rose sarà felice. Forse lo sarò
anch'io.
"Isabella..." mormoro sui suoi capelli,
continuando a respirare il suo profumo.
"Bella, chiamami
Bella." La sento sospirare, sempre stretta tra le mia
braccia, con la testa ancora appoggiata sul mio petto. "Anche
stasera sono arrivata in ritardo..."
"Shhhh" e
la stringo ancora più forte. "Sei qui, Bella. Sei
qui."
"Ti sembrerò una pazza..."
"Mi
piaci pazza."
"... è che non faccio altro che
pensarti. Pensare a te, al tuo modo di parlare, di pensare, alla
tua vita, alle tue scelte." Fa scorrere le mani lungo la mia
schiena, mi accarezza, stringe il maglione e poi torna ad
aggrapparsi ai miei fianchi. "Non dimostri l'età che
hai, Edward. Forse sei anche più grande di me."
"Quindi,"
avvicino la bocca al suo orecchio e, sfiorandole il lobo con le
labbra, sussurro "non c'è più nessun
problema?"
La sento irrigidirsi, il respiro diventa
irregolare, le dita si aggrappano con più forza. Non mi
risponde, non apre bocca, non si muove. Le faccio scivolare una
mano dietro al collo e quasi svengo al tocco della sua pelle
morbida, calda, delicata. Così perfetta che riesce a
superare le mie tante fantasie. Le volto la testa e in un istante
i nostri occhi si trovano, come hanno sempre fatto per tante
mattine. Ma questa volta non c'è vergogna, timidezza, paura
di essere visti o giudicati. Ci siamo soltanto noi, le nostre
mani, i nostri respiri. Abbasso la testa e appoggio la mia fronte
sulla sua, sospirando di attesa, di emozione, di impazienza. La
sento tremare, il respiro sempre più affannato. Lei si
solleva sulle punte dei piedi, io l'afferro per i fianchi e le
nostre labbra si posano l'una sull'altra. Con foga e dolcezza, con
forza e delicatezza. Mi godo la morbidezza della sua bocca, la
bellezza delle sue labbra carnose, la perfezione del suo bacio.
Senza smettere per un attimo di toccarla, stringerla,
accarezzarla. Senza smettere di respirare a pieni polmoni il
profumo della sua pelle, di farmi avvolgere dal calore della sua
presenza. Intreccio le dita tra i suoi capelli nel momento esatto
in cui la mia lingua si intreccia alla sua. Sempre più
morbida, sempre più calda, sempre più vicina. Anche
le sue mani cercano i miei capelli e dopo aver viaggiato sul petto
e sulle spalle li trova, tirandoli leggermente. Io mi lascio
sfuggire un gemito e torno ad appoggiare la mia fronte sulla sua,
per riprendere fiato, per capire se è tutto vero. Trovo i
suoi occhi accesi e maliziosi e, con il cuore che batte come se
volesse spaccarmi il petto, mi godo questa visione che sembra un
miracolo.
"Buon Natale, signorina Swan." mormoro,
senza allontanare gli occhi dai suoi.
Lei si lascia andare ad
una risata, che alle mie orecchie suona come una nuova conquista,
un nuovo regalo. Il mio unico, bellissimo, inatteso regalo di
Natale.