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Autore: Oducchan    27/01/2011    2 recensioni
Il cielo è grigio.
È normale che lo sia. È inverno, fa freddo, probabilmente dovrà nevicare in giornata, il sole è troppo debole per filtrare tra le nubi per rischiarare la terra e quindi al posto dell’azzurro solito il cielo ha quell’informe e triste colore bigio. È normale.
Ma mentre oltrepassa i cancelli spinati stretto tra Germania e Prussia e un soldato della Wehrmacht di guardia si fa avanti col braccio teso per controllare le loro generalità, non riesce a trattenere un brivido. Germania se ne accorge, di sfuggita, abbassando lo sguardo a guardarlo, poi risponde frettolosamente al soldato, che fa loro cenno di entrare.
Il brivido si fa intenso.

[27 gennaio, Giornata della Memoria]
[OC!Israele, Italia del nord, Germania e Prussia]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Germania/Ludwig, Nord Italia/Feliciano Vargas, Nuovo personaggio, Prussia/Gilbert Beilschmidt
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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I will sing [for never forget]

 

Premessa.

Questa storia non ha alcuno scopo se non quello di provare a unire la Memoria alla fantasia. Non vuole fare morale o politica o propaganda. È sicuramente astorica e poco realistica, e sicuramente non rende giustizia a nessuno.

Probabilmente non dovrebbe esistere. La persona che l’ha letta non ha approvata, e questo ve lo dico solo perché so quanto instabile sia la sua accuratezza e la sua credibilità.

Site più che liberi di esprimere ogni qualsivoglia giudizio su quanto leggere, di qualunque natura esso sia.

 

 

 

 

I will sing [for never forget]

 

 

 

 

Il cielo è grigio.

È normale che lo sia. È inverno, fa freddo, probabilmente dovrà nevicare in giornata, il sole è troppo debole per filtrare tra le nubi per rischiarare la terra e quindi al posto dell’azzurro solito il cielo ha quell’informe e triste colore bigio. È normale.

Ma mentre oltrepassa i cancelli spinati stretto tra Germania e Prussia e un soldato della Wehrmacht di guardia si fa avanti col braccio teso per controllare le loro generalità, non riesce a trattenere un brivido. Germania se ne accorge, di sfuggita, abbassando lo sguardo a guardarlo, poi risponde frettolosamente al soldato, che fa loro cenno di entrare.

Il brivido si fa intenso.

Italia vorrebbe chiedere che cosa devono farci, lì. Se non potrebbero andare altrove, magari ad allenarsi, oppure a mangiare un piatto di pasta caldo in un posto caldo, sì, che sarebbe anche meglio, perché nonostante il cappotto pesante lì si gela. Vorrebbe chiederlo, sì, ma le parole gli muoiono in gola. Ci sono una serie di alti ufficiali e di dottori e tanta gente che non ha mai visto che si sono avvicinati e parlano affabilmente con Germania, e Prussia sbraita qualcosa che dovrebbe, in teoria, avere senso, ma lui non riesce neanche ad ascoltarli, un’ondata di panico che gli attanaglia lo stomaco.

Ci sono dei fantasmi, lì dentro.

Uomini, o esseri che una volta lo erano, magri e scheletrici, il capo rasato e terribili occhi incavati che lo guardano, fissi, mentre lavorano, mentre camminano. La pelle tesa sul viso tanto da far pensare che non ne avessero abbastanza per coprire tutto il cranio. E quello sguardo…

-Vieni, Italia-

La voce di Germania lo riscuote, gentile, e Italia si lascia prendere per il gomito e trascinare via, dentro l’edificio, lontano dal filo spinato e dalle guardie coi fucili in spalla. I loro accompagnatori confabulano ancora, stavolta con Gilbert, che sembra dar loro più retta. Ludwig, nota Veneziano, ha lo sguardo spento e assente, come se non volesse effettivamente essere lì, come se volesse essere tanto lontano. Veneziano deglutisce, spaventato, ma gli stringe impercettibilmente la mano, tirando su col naso.

Germania si riscuote, per fortuna. Non gli piace quando ha quell’espressione. Germania è sempre sicuro di sé, e andrà tutto bene finché continuerà ad esserlo. Testardamente, si rifiuta di immaginare un mondo in cui Germania non sappia più cosa fare, braccato e al limite.

I soldati li conducono su e giù per una serie infinita di stanze e scale e scalette, continuando a parlare e parlare e parlare. Dopo cinque minuti Italia è già stanco, ma non lo dice, perché quel posto con le mura gelide e spoglie gli fa paura, e la puzza di bruciato che arriva alle narici dall’esterno è pure peggio.

Poi, il gruppo si ferma improvvisamente davanti a una porta di ferro chiusa, tanto che per poco non inciampa nei suoi stessi piedi e Germania lo deve afferrare di peso per non farlo cascare per terra. Gilbert ride, poi gli dà un buffetto e va a sistemarsi in un angolo, cheto e silenzioso, senza più dire nulla. Italia tenta di chiedere cosa devono fare, ma Germania non gli dà retta. Ha lo sguardo fisso sulla serratura e sembra improvvisamente a disagio. E nel gruppo cala il silenzio.

No, non è vero. Sente qualcosa, di sottofondo. È come una lieve, lievissima musica, un canto lontano e malinconico, che gli trasmette una tristezza infinita. È così dolce quel canto, da dove viene? Chi è così straziato, così sofferente…?

Ashira l'adonai ki ga oh ga ah…

-Aprite-

Italia sobbalza. L’ordine secco di Germania rimbomba tra le pareti nude come un colpo di fucile. Subito due soldati si affrettano ad eseguire: iniziano ad armeggiare con la serratura, finché non riescono a farla scattare e a spalancare la porta. Il canto cresce d’intensità, incorniciato da quel quadrato buio e freddo, e Italia sente le gambe tremargli più forte.

Viene da lì dentro. Viene da lì dentro!

Ludwig lo spintona, poco gentilmente, cercando di invogliarlo ad entrare, ma Veneziano non ci riesce.  Alza lo sguardo a cercare gli occhi di Ludwig, ma lui non lo guarda. Così, a Italia non resta che avanzare, traballando e con le lacrime agli occhi, nel buio e freddo stanzone. Poi strilla, spaventato.

Il prigioniero sembra non accorgersi della loro presenza, continuando a cantare, in ginocchio sulla nuda terra.

Ashira l'adonai ki ga'oh ga'ah
Ashira l'adonai ki ga'oh ga'ah
Michamocha, ba-elim adonai
Michamocha nedar-bakodesh
Nachitah v'chasd'cha, am zu ga'alta
Nachitah v'chasd'cha, am zu gaalta
Ashira, Ashira, Ashira... 1

Germania ha un moto di stupore, e subito le guardie si gettano avanti, spedendolo a terra con un calcio e afferrandolo brutalmente per le braccia scarne. Italia strilla di nuovo, cercando di correre a fermarli, ma Ludwig lo ferma, posandogli con forza le mani sulle spalle.

-Alzati -.

Allora Israele si volta. Lentamente, alza il capo, torce il collo, bloccato con me dalle rudi mani dei sorveglianti, e li guarda, uno per uno, con calma, senza quasi battere le palpebre. Italia piagnucola, terrorizzato. Perché Israele ha gli occhi azzurri, di un azzurro molto più intenso di quello di Germania, di un azzurro fulgido e lacerato come un cielo in tempesta. E i suoi occhi hanno quello sguardo insondabile, di chi ha visto i millenni scorrere attorno a sé e ha visto tutto il male del mondo, lo sguardo di chi conosce quanto bassa può essere la natura dell’uomo e quanta crudeltà il suo cuore è in grado di provare, ed è uno sguardo che gli scava dentro, fin nei recessi del cuore, e chiede una risposta che ha paura a fornire.

Perché?

Italia inizia a singhiozzare, terrorizzato. Germania sospira, cerca di calmarlo con parole che però si fanno sempre più incalzanti e impazienti. I soldati fanno finta di non vedere, ma sui loro volti Veneziano scorge una vena di disgusto che lo impaurisce ancora di più. Alla fine Ludwig lo trae indietro verso la parete della stanza, e fa cenno a suo fratello d’intervenire. Prussia avanza, il suono dei suoi stivali che rimbomba nella stanza, l’espressione indecifrabile sotto la visiera del berretto della divisa, e dietro di lui sono arrivati altri due uomini, che portano dei ferri arroventati.

Uno dei militari afferra Israele per le spalle, l’altro si piega e gli strappa la lurida camicia a righe che indossa, dal polso fino all’avambraccio, esponendo la pelle scarna e graffiata.

Germania annuisce, rigido, mordendosi impercettibilmente le labbra. Israele non batte ciglio, mormora solo qualcosa con le labbra screpolate.

Italia urla e piange, nascondendosi dietro le spalle di Germania per non vedere quel ferro nero che affonda nel braccio.

 

Il cielo è grigio. È normale, è il cielo che c’è sempre a gennaio, fa tanto freddo da battere i denti e neanche il cappotto pesante lo tiene sufficientemente al caldo. Romano ha brontolato qualcosa sul fatto di sbrigarsi, che vuole tornare a casa senza congelarsi, ma a dir la verità l’ha perso di vista da un pezzo. Starà bisticciando con Prussia, probabilmente.

Israele, invece, non dà segno di volersi muovere. Continua a tenere lo sguardo fisso su quella scritta di ferro battuto, gli occhi azzurri immobili e persi in tristi e dolorosi ricordi. Il vento scompiglia appena i capelli neri, facendoli ricadere scomposti sulla pelle abbronzata. A Italia non piace, quell’espressione.

Così gli si avvicina, trotterellando, e lo prende per la mano che non è ingessata2. Israele sobbalza, voltando di scatto il capo a guardarlo, e Italia gli sorride, cercando di essere incoraggiante.

-Andiamo?-

Israele tace per qualche istante, guardando il fondo della strada su cui stanno arrivando Germania e Polonia, accompagnati da un sacco di gente. Corruga le sopracciglia, si gratta perplesso la nuca e poi annuisce, con un sospiro.

-Andiamo-

Lentamente s’incamminano, a passo lento e un po’ zoppicante, fino all’incontro con le altre nazioni.

Il cielo è grigio, ma un debole raggio di luce riesce a filtrare, accarezzando i muri di mattoni coperti da filo spinato, a perenne memoria di ciò che è stato.

 

 

 



1Esodo, capitolo 15, versetti 1, 11, 13. Musicato ne “Il principe d’Egitto”

2Personalmente amo immaginare Israele sempre coperto di bende e ingessature, un po’ come Palestina.

 

 

Ci sarebbero da dire molte altre cose, ma non lo farò, perché credo di averne dette fin troppe.

Lascio a voi le parole.

   
 
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