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Autore: Aya Lawliet ___backupFGI    12/02/2011    1 recensioni
«Non esagerare, Dorothy. Non tutti i giorni. Le lettere non avrebbero neppure il tempo di arrivare.»
Lei non ricambiò il sorriso. Proprio non ce la faceva. «Due o tre volte alla settimana andrebbe bene?»

{Hunk/Dorothy ♥ accenni Spaventapasseri/Dorothy ♥ post-film}
Genere: Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio , Dorothy Gale
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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Gli occhi di un sogno ~

prompt: #080, place

 

 

 

«Ti scriverò tutti i giorni.»

Hunk diede un nuovo energico scossone e la catena della vecchia bicicletta arrugginita si disincastrò dal viluppo in cui si era avvolta. Soddisfatto, alzò gli occhi su di lei e le scoccò il suo sorriso enorme, quello di sempre, da pupazzo estasiato. Dorothy sentiva il cuore rimbombarle in un punto indistinto vicino alla gola. Come faceva a guardarla così?

«Non esagerare, Dorothy. Non tutti i giorni. Le lettere non avrebbero neppure il tempo di arrivare.»

Lei non ricambiò il sorriso. Proprio non ce la faceva. «Due o tre volte alla settimana andrebbe bene?»

Lui scoppiò a ridere. Ed era incredibile quanto suonasse vero, reale: così vicino da poterlo toccare, ma con addosso gli occhi di un sogno che a volte Dorothy s’illudeva di poter rivivere da un momento all’altro – ogni volta che vedeva Hunk accanto a sé, con le mani sporche di terra o strette attorno a un mazzolino di papaveri colti apposta per lei, era come se non si fosse mai svegliata.

«Sta bene. Così mi racconterai ancora delle imprese di Totò nel giardino di Miss Gulch... Prima o poi riuscirà a mangiarle il gatto, vedrai!»

Dorothy si ritrovò a ridere. Era impossibile non farlo, con lui. Soltanto una volta Hunk l’aveva fatta piangere: qualche mese prima, quando le aveva confessato di aver deciso di riprendere gli studi e di doversi trasferire in città. Era stata dura accettare l’idea di vederlo andare via.

Hunk era sempre stato lì, alla fattoria dei Gale, insieme a lei. L’aveva vista crescere. L’aveva tenuta sulle ginocchia la prima volta che le aveva mostrato le mucche: ancora oggi la divertiva fino alle lacrime, imitando la sua espressione rapita e sorpresa quando l’animale le aveva annusato una manina paffuta. Le aveva insegnato ad andare in bicicletta per i campi, e ogni volta che cadeva e si sbucciava un ginocchio le soffiava piano piano sulla ferita finché il dolore non volava via. Era stato lui a raccontarle che, se lei non aveva una mamma e un papà come le altre bambine alla scuola del paese, non era certo perché fosse cattiva: un signore buono con la barba bianca aveva preso i suoi genitori con sé, e in cambio aveva donato lei allo zio Henry e alla zia Emma – che erano stati così felici di avere Dorothy con sé! E lui?, gli chiedeva spesso; anche lui era felice di averla con sé? E Hunk sorrideva e qualche volta l’abbracciava e qualche altra volta diventava tutto rosso – oh, come le piaceva prenderlo in giro per questo! – ma le rispondeva sempre di sì, che era bello averla con sé. Erano amici.

Erano sempre stati insieme, prima che la zia Emma assumesse anche Hickory e Zeke, prima che dalla stradina dietro la fattoria arrivasse Totò con la lingua penzoloni; insieme avevano giocato e fatto i compiti e innaffiato i roseti della zia e persino messo sul palo lo spaventapasseri, sì, quel buffo ed esile spaventapasseri nel campo di grano, quello che non spaventava abbastanza i corvi – non era capace di parlare e di ballare, lui.

Hunk era sempre stato lì, e aveva sempre avuto un sorriso per lei. Persino adesso sorrideva. Però si vedeva che anche lui era imbarazzato, che anche lui detestava l’idea di doverla salutare.

Continuava a far dondolare quella bicicletta avanti e indietro, molleggiandosi sui piedi; ora più che mai somigliava al principe impagliato che le mancava tanto e che in qualche modo sapeva di poter ritrovare nei suoi occhi della stessa tonalità di blu. Dorothy si lisciava nervosamente le pieghe del vestito, il viso basso. Si era già trovata una volta a dover salutare una persona che le faceva battere così forte il cuore, e sapeva bene quanto sarebbe stato doloroso ritrovarsi soli, dopo.

«Be’...» Hunk si schiarì la voce, le mani ancora esitanti sul manubrio. «Be’, dovrei proprio andare.»

Dorothy annuì triste. Non era sicura di poter trattenere le lacrime ancora a lungo. Naturalmente era felice per Hunk – lui era il tipo d’uomo che meritava di ampliare la propria mente, che non poteva restare per sempre recluso in un piccolo paesino idilliaco: c’era tutto un mondo nuovo in lui – ma quella sarebbe stata la prima volta che si fossero allontanati. Persino nel regno di Oz, Hunk, in fondo, era con lei.

«Promettimi che tornerai appena possibile» gli sussurrò, le dita ben strette sul grembiule, gli occhi sempre bassi.

«Appena possibile» confermò Hunk; e di colpo lei si sentì sollevare il viso dalla sua mano ruvida e gentile. «Dai, Dorothy, non fare così. Io allora cosa dovrei dire? Tu continui sempre a fantasticare di quel tuo mondo da sogno che ti manca tanto, e non hai idea di quanto mi fai sentire solo facendo così!» scherzò, ma gli angoli della sua bocca si erano piegati impercettibilmente all’ingiù. Non accadeva quasi mai.

Dorothy allora si rifugiò tra le sue braccia, premendo forte il viso sul suo petto e aggrappandosi alla vecchia tuta imbrattata. Ignorò il fracasso della bici che cadeva a terra. Hunk sapeva di campagna, di vento, di fieno e di risate. Le sarebbe mancato così tanto.

«Devi tornare presto» gli ripeté, lasciando un singhiozzo libero di scuoterla tutta, «perché anche tu sei casa mia.»

Se era rimasto sorpreso dal suo gesto o dalle sue parole, non lo diede a vedere: la strinse a sé, fortissimo, e le posò una guancia sulla testa e rimase così per tanto, tanto, tanto tempo, accarezzandole i capelli con le dita impacciate – e Dorothy si disse che era bellissimo essere abbracciati così, e sentire le sue mani calde e non dover avere il timore di vederle scivolare via: non erano di paglia, le mani di Hunk. Erano reali come la sua risata e i suoi occhi e il suo cuore che batteva veloce, da qualche parte dietro quella tuta blu che le prudeva un po’ il viso.

Poi Hunk la scostò gentilmente, e di nuovo si schiarì la voce.

«Ti scriverò tutti i giorni anch’io, promesso.»

Dorothy non poté non sorridere. «Non dicevi che le lettere non avrebbero neppure il tempo di arrivare?»

«L’ho detto.» Sbuffò. «Ma non posso sopportare l’idea di dover aspettare più di un giorno prima di scrivere un altro Cara Dorothy...»

Lei rise, e poi fece una cosa che nemmeno lei si sarebbe aspettata di fare.

Si sollevò sulle punte dei piedi, chiuse gli occhi e accostò le labbra alle sue.

Si ritrasse subito, spaventata e in preda alla confusione; alla luce del tramonto distinse nettamente il rossore assalire il viso di Hunk, vincendo la tinta ambrata del sole sulla pelle.

Socchiuse le labbra, incerta se scusarsi e su come farlo – ma era giusto così. Hunk doveva sapere. Nessun posto era bello come la propria casa; ma la fattoria non sarebbe mai stata casa, senza Hunk.

Lui sembrava esitare. Guardò un paio di volte la bicicletta abbandonata al suo destino, guardò il campo alle loro spalle, guardò lei. Arrossì ancora di più.

«Sì... Sì, devo proprio andare.»

Ma prima si chinò e le rubò un altro bacio.

E le sue labbra erano reali come tutto il resto.

Dorothy rimase lì a guardare la sua figura minuta allontanarsi in sella alla bici, le lunghe gambe mulinanti per prendere velocità; si tenne le mani sulle labbra, come per impedire che quella sensazione di calore e tenerezza sbiadisse al contatto dell’aria [resta qui non andare resta qui resta qui]. Rimase immobile per un tempo che non seppe definire, almeno finché Hunk non fu scomparso in fondo alla strada e il rosso del cielo non sfumò nel viola della prima sera d’autunno.

Soltanto allora abbassò le mani, si volse e si rincamminò lentamente verso la fattoria.

Un’ombra ondeggiava esile ai suoi piedi. Lei sorrise e alzò gli occhi.

«Ciao, Spaventapasseri.»

Il fantoccio inanimato aveva gli occhi blu come quelli di Hunk.

 

 

 

 

 

 

Nota: Una spiegazione per questa storia è d’obbligo.

Naturalmente si tratta di una movieverse, e la scena che ho scelto di descrivere non è puramente una mia invenzione: l’amato Victor Fleming, regista del film del 1939, aveva intenzione di includere un epilogo basato proprio su una partenza di Hunk per l’università di agraria, scena che si proponeva di lasciar intendere un futuro romantico tra lui e Dorothy. Sant’uomo. <3 La cosa tuttavia non andò in porto – mi azzardo ad immaginare che la causa fosse la differenza d’età tra i due personaggi; ma, ehi, nel film Dorothy ha pur sempre tra i sedici e i diciassette anni e non è certo una bambina! – così ho pensato di scrivere a modo mio ciò che potremmo aver visto sul grande schermo e che invece ci è stato negato. Sigh, quanto vorrei che ci avesse pensato Fleming. Tra l’altro sarebbe stato indubbiamente migliore. Il legame che si instaurò tra Judy Garland e Ray Bolger grazie a quel film aveva qualcosa di magico: basta vederli insieme in un qualunque filmato per restarne colpiti.

Più che una Hunk/Dorothy è venuta fuori una Hunk/Dorothy/Spaventapasseri; ma non posso farci niente, io lo Spaventapasseri lo amo e non posso neppure pensare che Dorothy si rassegni mai del tutto all’idea di averlo soltanto sognato. Dopotutto, lui le sarebbe mancato più di tutti, non dimentichiamolo. <3

   
 
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