Gli occhi di un sogno ~
prompt: #080, place
«Ti scriverò tutti i
giorni.»
Hunk diede un nuovo energico scossone e la catena
della vecchia bicicletta arrugginita si disincastrò dal viluppo in cui
si era avvolta. Soddisfatto, alzò gli occhi su di lei e le scoccò
il suo sorriso enorme, quello di sempre, da pupazzo estasiato. Dorothy sentiva
il cuore rimbombarle in un punto indistinto vicino alla gola. Come faceva a
guardarla così?
«Non
esagerare, Dorothy. Non tutti i giorni. Le lettere non avrebbero neppure il tempo
di arrivare.»
Lei non
ricambiò il sorriso. Proprio non ce la faceva. «Due o tre volte
alla settimana andrebbe bene?»
Lui
scoppiò a ridere. Ed era incredibile quanto suonasse vero, reale: così vicino da poterlo
toccare, ma con addosso gli occhi di un sogno che a volte Dorothy
s’illudeva di poter rivivere da un momento all’altro – ogni
volta che vedeva Hunk accanto a sé, con le
mani sporche di terra o strette attorno a un mazzolino di papaveri colti
apposta per lei, era come se non si fosse mai svegliata.
«Sta
bene. Così mi racconterai ancora delle imprese di Totò nel
giardino di Miss Gulch... Prima o poi riuscirà
a mangiarle il gatto, vedrai!»
Dorothy si
ritrovò a ridere. Era impossibile non farlo, con lui. Soltanto una volta
Hunk l’aveva fatta piangere: qualche mese
prima, quando le aveva confessato di aver deciso di riprendere gli studi e di
doversi trasferire in città. Era stata dura accettare l’idea di
vederlo andare via.
Hunk era sempre stato lì, alla fattoria dei
Gale, insieme a lei. L’aveva vista crescere. L’aveva tenuta sulle
ginocchia la prima volta che le aveva mostrato le mucche: ancora oggi la
divertiva fino alle lacrime, imitando la sua espressione rapita e sorpresa
quando l’animale le aveva annusato una manina paffuta. Le aveva insegnato
ad andare in bicicletta per i campi, e ogni volta che cadeva e si sbucciava un
ginocchio le soffiava piano piano sulla ferita
finché il dolore non volava via. Era stato lui a raccontarle che, se lei
non aveva una mamma e un papà come le altre bambine alla scuola del
paese, non era certo perché fosse cattiva: un signore buono con la barba
bianca aveva preso i suoi genitori con sé, e in cambio aveva donato lei
allo zio Henry e alla zia Emma – che erano stati così felici di
avere Dorothy con sé! E lui?,
gli chiedeva spesso; anche lui era felice di averla con sé? E Hunk sorrideva e qualche volta l’abbracciava e
qualche altra volta diventava tutto rosso – oh, come le piaceva prenderlo
in giro per questo! – ma le rispondeva sempre di sì, che era bello
averla con sé. Erano amici.
Erano
sempre stati insieme, prima che la zia Emma assumesse anche Hickory e Zeke, prima che dalla stradina dietro la fattoria arrivasse
Totò con la lingua penzoloni; insieme avevano giocato e fatto i compiti
e innaffiato i roseti della zia e persino messo sul palo lo spaventapasseri,
sì, quel buffo ed esile spaventapasseri nel campo di grano, quello che
non spaventava abbastanza i corvi – non era capace di parlare e di
ballare, lui.
Hunk era sempre stato lì, e aveva sempre
avuto un sorriso per lei. Persino adesso sorrideva. Però si vedeva che
anche lui era imbarazzato, che anche lui detestava l’idea di doverla
salutare.
Continuava
a far dondolare quella bicicletta avanti e indietro, molleggiandosi sui piedi;
ora più che mai somigliava al principe impagliato che le mancava tanto e
che in qualche modo sapeva di poter ritrovare nei suoi occhi della stessa
tonalità di blu. Dorothy si lisciava nervosamente le pieghe del vestito,
il viso basso. Si era già trovata una volta a dover salutare una persona
che le faceva battere così forte il cuore, e sapeva bene quanto sarebbe
stato doloroso ritrovarsi soli, dopo.
«Be’...»
Hunk si schiarì la voce, le mani ancora
esitanti sul manubrio. «Be’, dovrei proprio andare.»
Dorothy
annuì triste. Non era sicura di poter trattenere le lacrime ancora a
lungo. Naturalmente era felice per Hunk – lui
era il tipo d’uomo che meritava di ampliare la propria mente, che non
poteva restare per sempre recluso in un piccolo paesino idilliaco: c’era tutto un mondo nuovo in lui
– ma quella sarebbe stata la prima volta che si fossero allontanati.
Persino nel regno di Oz, Hunk,
in fondo, era con lei.
«Promettimi
che tornerai appena possibile» gli sussurrò, le dita ben strette
sul grembiule, gli occhi sempre bassi.
«Appena
possibile» confermò Hunk; e di colpo lei
si sentì sollevare il viso dalla sua mano ruvida e gentile. «Dai,
Dorothy, non fare così. Io allora cosa dovrei dire? Tu continui sempre a
fantasticare di quel tuo mondo da sogno che ti manca tanto, e non hai idea di
quanto mi fai sentire solo facendo così!» scherzò, ma gli
angoli della sua bocca si erano piegati impercettibilmente
all’ingiù. Non accadeva quasi mai.
Dorothy
allora si rifugiò tra le sue braccia, premendo forte il viso sul suo
petto e aggrappandosi alla vecchia tuta imbrattata. Ignorò il fracasso
della bici che cadeva a terra. Hunk sapeva di
campagna, di vento, di fieno e di risate. Le
sarebbe mancato così tanto.
«Devi
tornare presto» gli ripeté, lasciando un singhiozzo libero di
scuoterla tutta, «perché anche tu sei casa mia.»
Se era
rimasto sorpreso dal suo gesto o dalle sue parole, non lo diede a vedere: la
strinse a sé, fortissimo, e le
posò una guancia sulla testa e rimase così per tanto, tanto,
tanto tempo, accarezzandole i capelli con le dita impacciate – e Dorothy
si disse che era bellissimo essere abbracciati così, e sentire le sue
mani calde e non dover avere il timore di vederle scivolare via: non erano di paglia, le mani di Hunk. Erano reali come la sua risata e i suoi occhi e il
suo cuore che batteva veloce, da qualche parte dietro quella tuta blu che le
prudeva un po’ il viso.
Poi Hunk la scostò gentilmente, e di nuovo si
schiarì la voce.
«Ti
scriverò tutti i giorni anch’io, promesso.»
Dorothy non
poté non sorridere. «Non dicevi che le lettere non avrebbero
neppure il tempo di arrivare?»
«L’ho
detto.» Sbuffò. «Ma non posso sopportare l’idea di
dover aspettare più di un giorno prima di scrivere un altro Cara Dorothy...»
Lei rise, e
poi fece una cosa che nemmeno lei si sarebbe aspettata di fare.
Si
sollevò sulle punte dei piedi, chiuse gli occhi e accostò le
labbra alle sue.
Si ritrasse
subito, spaventata e in preda alla confusione; alla luce del tramonto distinse
nettamente il rossore assalire il viso di Hunk,
vincendo la tinta ambrata del sole sulla pelle.
Socchiuse
le labbra, incerta se scusarsi e su come
farlo – ma era giusto così. Hunk doveva
sapere. Nessun posto era bello come la propria casa; ma la fattoria non sarebbe
mai stata casa, senza Hunk.
Lui
sembrava esitare. Guardò un paio di volte la bicicletta abbandonata al
suo destino, guardò il campo alle loro spalle, guardò lei.
Arrossì ancora di più.
«Sì...
Sì, devo proprio andare.»
Ma prima si chinò e le rubò
un altro bacio.
E le sue
labbra erano reali come tutto il resto.
Dorothy
rimase lì a guardare la sua figura minuta allontanarsi in sella alla
bici, le lunghe gambe mulinanti per prendere velocità; si tenne le mani
sulle labbra, come per impedire che quella sensazione di calore e tenerezza
sbiadisse al contatto dell’aria [resta
qui non andare resta qui resta qui]. Rimase immobile per un tempo
che non seppe definire, almeno finché Hunk non
fu scomparso in fondo alla strada e il rosso del cielo non sfumò nel
viola della prima sera d’autunno.
Soltanto
allora abbassò le mani, si volse e si rincamminò lentamente verso
la fattoria.
Un’ombra
ondeggiava esile ai suoi piedi. Lei sorrise e alzò gli occhi.
«Ciao,
Spaventapasseri.»
Il
fantoccio inanimato aveva gli occhi blu come quelli di Hunk.
Nota: Una spiegazione per questa
storia è d’obbligo.
Naturalmente si tratta di una movieverse, e la
scena che ho scelto di descrivere non è puramente una mia invenzione: l’amato
Victor Fleming, regista del film del 1939, aveva intenzione di includere un
epilogo basato proprio su una partenza di Hunk per l’università
di agraria, scena che si proponeva di lasciar intendere un futuro romantico tra
lui e Dorothy. Sant’uomo. <3
La cosa tuttavia non andò in porto – mi azzardo ad immaginare che
la causa fosse la differenza d’età tra i due personaggi; ma, ehi,
nel film Dorothy ha pur sempre tra i sedici e i diciassette anni e non è
certo una bambina! – così ho pensato di scrivere a modo mio
ciò che potremmo aver visto sul grande schermo e che invece ci è
stato negato. Sigh, quanto vorrei che ci avesse
pensato Fleming. Tra l’altro sarebbe stato indubbiamente migliore. Il legame
che si instaurò tra Judy Garland e Ray Bolger grazie a quel film aveva qualcosa di magico: basta
vederli insieme in un qualunque filmato per restarne colpiti.
Più che una Hunk/Dorothy è venuta
fuori una Hunk/Dorothy/Spaventapasseri; ma non posso
farci niente, io lo Spaventapasseri lo amo e non posso neppure pensare
che Dorothy si rassegni mai del tutto all’idea di averlo soltanto
sognato. Dopotutto, lui le sarebbe
mancato più di tutti, non dimentichiamolo. <3