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Autore: reb    25/02/2011    3 recensioni
-E’ come se mi chiamasse. Ma è nostalgico perché…è come se gli mancasse qualcosa. Hai idea di cosa sia?- cercò di spiegarsi meglio Edward, probabilmente andare alla fonte avrebbe risolto molti quesiti.
-Penso che sia bellissimo.- si limitò a rispondergli l’uomo.
Stava nascondendo qualcosa. Di nuovo. Ma non era sicuro di volerlo sapere, anche se quella casa sembrava implorarlo.
-Ho mai visto questo posto? Dal vivo, intendo. Magari quando ero umano.- provò ancora a capire.
[...]
Anche se quella villa lo stava chiamando sapeva che il suo posto era lì. Lo sapeva da sempre. Da quando aveva conosciuto Bella. Da quando era nata Nessie.
[...]
La vita prima del morso diventava poco importante quanto labile.
L’Edward che era stato prima di Carlisle, della spagnola, non era più lui.
Edward Anthony Masen ormai era solo un nome, ormai. Lui era Edward Cullen.
E per quando volesse risposte, per quanto il suo cuore morto le urlasse a gran voce, decise di non pensare.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Carlisle Cullen, Nuovo personaggio | Coppie: Bella/Edward
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Precedente alla saga, Successivo alla saga
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-Adesso sai anche dipingere?- esclamò Bella con il sorriso nella voce.
-Cosa?- chiese Edward.
Odiava non sapere cosa le passasse nella testa. Odiava non conoscere ogni suo più piccolo pensiero.
-Voglio dire…ora anche io sono un vampiro. Riesco a correre senza inciampare. A ballare perfino. Eppure non sono in grado di fare niente del genere. Riesci sempre a stupirmi.- chiarì lei avvicinandosi insieme a Nessie, indicando il blocco che teneva in mano il marito.
-E’ solo uno schizzo, Bella. La vera pittrice di casa è Alice.- le rispose convinto.
-Hai la più pallida idea di quanti pittori veri pagherebbero per fare schizzi del genere?-
-E’ vero, papà. Questo paesaggio è bellissimo, potremmo andarci un giorno.- esclamò Nessie abbracciandolo.
-E’ un bel posto, si. È un ricordo di Carlisle, ma non so dove sia.-
Non sapeva perché, ma quel posto gli trasmetteva qualcosa. E sapeva per certo che non si trattava delle emozioni che suscitava a suo padre.
Gli sembrava che lo chiamasse. Anche se non sapeva perché.
Era quello il motivo per cui si era messo a disegnare, nonostante non fosse proprio il suo passatempo preferito. In tanti anni dalla trasformazione, prima di Forcks, prima di Bella, aveva ingannato il tempo in tanti modi. Ma poteva contare sulle dita le volte che aveva preso in mano un foglio per disegnare anziché scrivere o suonare il pianoforte.
E non poteva sbagliarsi, vista la sua natura. I vuoti di memoria non erano contemplati.
-Io esco. Jake è venuto a prendermi.- esclamò felice sua figlia, correndo fuori come un piccolo innamorato uragano.
Era felice. Lo erano tutti, finalmente.
-Davvero, Edward. Non mi avevi mai detto di saper disegnare.- commentò Bella, sedendosi accanto a lui in poltrona e poggiandogli la testa sulla spalla.
-Non era importante.- rispose appena, cedendole senza resistenze il blocco, per permetterle di guardare meglio.
Non era davvero niente di eccezionale. Anche se il tratto era sicuro. Se le proporzioni non erano rispettate. Se il paesaggio raffigurato era oggettivamente uno spettacolo. Non era niente di speciale.
Sentiva che mancava qualcosa. Gli mancava l’anima che rendono quadri o fotografie opere d’arte anziché semplici stampe.
Gli mancava quell’anima che, invece, avevano le sue composizioni al pianoforte.
Gli mancava, al suo interno, un pezzo di sé. E sentiva, forte e prepotente quasi come la sete, che quel qualcosa era importante. Per lui o per altri non avrebbe saputo dirlo.
Proprio non capiva perché Bella fosse tanto interessata a quello schizzo. Perché continuasse a fissarlo incantata, osservando stupita ogni singolo tratto, sorridendo.
-Ragazzi. Avete passato una buona giornata?- chiesero intanto Carlisle ed Esme, appena rientrati dalla caccia.
Erano solo loro in casa. E non era poi tanto strano di quei tempi.
Rosalie ed Emmett si erano nuovamente trasferiti in una delle case che Esme aveva messo loro a disposizione anni prima, per godere di un po’ di privacy.
Alice e Jasper, invece, avevano deciso di andare a caccia quel pomeriggio, per i fatti loro.
E Nessie…beh lei era con Jacob gran parte del tempo.
-La caccia?- chiese intanto Edward.
Esme sorrise al figlio, sedendosi di fronte a loro insieme al marito, e stava per rispondere quando la sua attenzione venne catturata dal foglio in mano a Bella.
-Tesoro, hai iniziato a dipingere?- chiese felice la donna.
Amava l’arte in ogni sua forma, Edward lo sapeva, e poteva sentire quanto fosse curiosa di vedere il lavoro della ragazza.
Ragazza che distolse finalmente gli occhi dal foglio per concentrarsi su Esme ridendo.
-No, nonostante tutto ancora non sono in grado di fare una riga dritta. È opera di Edward.- dichiarò soddisfatta porgendolo alla suocera. Nemmeno stesso mostrando qualcosa di inestimabile valore.
-Mio caro, ma è bellissimo. Non trovi Carlisle?-
Edward si stava preparando nuovamente a dire che non era niente di eccezionale, solo uno schizzo, quando vide l’uomo irrigidirsi e distogliere lo sguardo.
Qualcosa non andava, lo sentiva.
Fino a pochi attimi prima stava pensando alla caccia, a sua moglie, al lavoro che lo aspettava il giorno dopo in ospedale e ora, repentinamente e senza spiegazione, analizzava ogni singolo dettaglio della cartella medica di un suo pazienza.
Sebbene non avesse mai esercitato quelle due lauree in medicina servivano a qualcosa. E sapeva che la diagnosi sebbene non rosea non era nemmeno tanto grave da reclamare così tanto l’attenzione di Carlisle. Non era niente che una massiccia dose di antibiotici e controlli regolari non avrebbero risolto.
Che cosa gli era preso?
Edward era sicuro di essersi perso un passaggio, anche se leggere nella mente di solito lo impediva.
-Carlisle, tutto bene?- chiese Esme preoccupata di fronte al prolungato silenzio del marito.
-Scusa, cara. Solo preoccupazioni sul lavoro. È un ottimo lavoro, figliolo.- si riscosse, continuando però a pensare a quel ragazzo malato, con un sorriso.
Cosa si era perso?
 
 




 

Chicago. Estate 1918.
 
 
Finalmente poteva pensare con calma.
Gli spazi aperti lo avevano sempre aiutato a farlo. E purtroppo Chicago non permetteva molti posti del genere. Troppi palazzi e negozi. Troppe persone per strada.
E così, come ogni volta, si ritrovava fuori città, lontano perfino dalla periferia, a guardare lo scorrere placido di quel rivolo d’acqua, che chiamare fiume sarebbe stato troppo.
Era stato lì talmente tante volte, quale che fosse il motivo, che l’albero su cui si era appoggiato aveva probabilmente preso la forma della sua schiena.
Quel vecchio e nerboruto albero di noce era la postazione ideale per osservare tutto quanto comodamente.
Edward tirò indietro la testa, poggiandola sulla corteccia alle sue spalle, e respirò.
Doveva calmarsi. Doveva farcela.
La ragione domina gli istinti.
-Puoi andare Harold, dì a mia madre che tornerò per cena.- una voce delicata ruppe il silenzio che aveva tanto lungamente cercato.
Sapeva perfettamente chi fosse. Ogni volta sopportava quasi un’ora in calesse per venirlo a riprendere.
L’unica a sapere dove si nascondesse. L’unica che mai lo avrebbe mai detto a sua madre, per qualunque ragione. Aveva sopportato il caldo torrido di quel giorno d’estate pur di non tradirlo. E sapeva bene quanto odiasse l’eccessivo caldo.
Come ogni donna di buona famiglia preferiva passare i giorni d’estate all’ombra, nel grande giardino di casa leggendo un libro o bevendo the freddo piuttosto che avventurarsi nell’assolata campagna.
Eppure, ancora una volta, era lì per lui. A litigare con Harold, il cocchiere di famiglia, perché la lasciasse lì sola, senza protezione da malintenzionati, sotto cui in quelle occasioni veniva inserito anche lui.
-Harold vai ho detto! Certamente il signor Masen non rappresenta un pericolo per me.- sbuffò infatti indignata dopo l’ennesimo rifiuto di andarsene.
Ma sapeva, lo sapevano entrambi, che alla fine l’uomo avrebbe ceduto, sperando di aver ben riposto la sua fiducia in quei due ragazzi.
-Ogni volta impiega più tempo ad andarsene.- gli disse irritata la ragazza, finalmente vicina a lui, guardando però il calesse che lento e recalcitrante si allontanava verso la città.
-Nessuno dei due è più un bambino. Ecco perché lo fa. Cerca solo di proteggerti.- le rispose Edward calmo, ancora osservando il torrente con uno scuro cipiglio.
-Vuole proteggere la mai virtù, vorrai dire.- si indignò ancora di più lei.
-Sarah…-
Il sorriso lievemente ironico del ragazzo doveva essere ben visibile perché lo sbuffo, certamente poco signorile che emise sarebbe stato impossibile da ignorare.
Finalmente lui si voltò a guardarla, ora abbastanza tranquillo da reggere il suo limpido sguardo.
Il viso che si trovò davanti fece sparire del tutto la rabbia che aveva in corpo, anche se sapeva chi le aveva chiesto di riportarlo a casa.
Il bel visetto da bambola, infatti, era talmente imbronciato da risultare buffo.
Si irritava sempre troppo facilmente. Ed era decisamente volubile.
Ma era fantastica, questo lui lo sapeva bene.
Era impossibile, tra le tante ragazze della sua stessa età di Chicago, trovarne un’altra altrettanto innamorata della vita. Spensierata e sorridente.
Anche se a volte i suoi sorrisi erano frivoli.
E se i suoi l’avevano decisamente viziata.
-Dovresti smetterla di far preoccupare tua madre, Edward.- gli disse, tornando seria.
Così volubile eppure così buona.
Sebbene solo con una ristretta cerchia di persone.
-Voglio combattere, Sarah. Voglio arruolarmi e aiutare come posso. Ma i miei genitori…- protestò aspramente Edward.
Quante volte, già, avevano affrontato quel discorso?
Con lei, con i suoi genitori. Con tutti quanti. Perché non capivano?
-Non mentirmi, Edward Anthony Masen! I tuoi occhi non riescono a farlo- lo interruppe quasi urlando.
-Credi che non legga i giornali? Credi che non sappia cosa sta succedendo in Europa? Della guerra? Dei morti? Tu vuoi arruolarti solo per la gloria. La grandiosa propaganda a favore della leva non dice proprio questo?- continuò cercando di trattenere le lacrime.
-E’ quello che voglio.- continuò imperterrito, pur sentendosi morire alla vista di quanto fosse sconvolta.
-E’ quello che altri ti fanno credere di volere. Hai diciassette anni, Edward, e…-
-Esatto e tra qualche mese ne compirò diciotto. Sono un uomo, ormai. Per allora mi arruolerò.- la interruppe lui questa volta, convinto.
-E ai tuoi genitori non pensi? A tua madre? Ne morirà, lo sai.- lo supplicò, tirandolo per un braccio e cercando di farlo ragionare.
-Mia madre è forte. E io tornerò. Con la nostra scesa in guerra, le nostre armi e uomini, sarà presto tutto finito. Ma per farlo…-
-A me non pensi? Io non sono forte come Elizabeth, Edward.- lo supplicò ancora, con tono soffocato, rinunciando a contenere le lacrime.
Quegli occhi azzurri lo stavano supplicando di ripensarci tanto quanto le parole. Rinunciare. Per lei.
Le leggeva dentro che sarebbe arrivata a inginocchiarsi a terra pur di farlo desistere.
Lei che non mostrava mai le sue debolezze, forte di quella maschera di frivolezza e lieve arroganza, stava piangendo di fronte a lui senza nascondersi.
Stava mettendo lui davanti al suo orgoglio.
-Sarah…- sussurrò, portando una mano alla sua guancia per asciugare le lacrime.
-Promettimi che ci penserai. Promettilo soltanto, Edward.- chiese di nuovo, flebile.
-Lo prometto.- acconsentì stringendola a sé, sentendola tremare sotto l’impeto delle lacrime.
 La stringeva a sé cercando di calmarla. La stringeva a sé e le avrebbe promesso qualunque cosa gli avesse chiesto. Tuttavia sapevano entrambi che quella promessa non era niente di fronte alla sua risolutezza.



 
***



 
-Immagino spetti a me riportarti a casa?-
Edward ruppe il silenzio che li aveva sorpresi da quando la crisi di pianto di Sarah era cessata con una domanda che aveva il sapore dell’affermazione.
-Come a me ogni volta spetta venire a riprenderti.- gli rispose lei, seduta al suo fianco.
Incurante del romantico vestito candido che indossava, infatti, si era seduta fra l’erba esattamente come il ragazzo, a contemplare il cielo e il torrente a pochi passi da loro, stringendo la sua mano, incurante di qualsiasi convenzione o etichetta.
I loro genitori erano amici di vecchia data e loro due erano cresciuti insieme.
Si erano arrampicati insieme sugli alberi, quando l’età ancora le permetteva certi svaghi.
L’aveva aiutata a fuggire da noiose e interminabili lezione di buone maniere o disegno, quando non le era più permesso scorrazzare per la campagna indisturbata in sua compagnia.
Lei lo era andato a riprendere in quel posto dimenticato da dio ogni volta che la situazione in casa diventava troppo pesante.
E non era un evento poi così raro. Lui e suo padre erano troppo simili per riuscire a vivere insieme troppo a lungo nella stessa casa senza litigare.
-Ti ricordi la prima volta che mi hai portato qua?- parlò di nuovo la ragazza fissando il fiume.
-Volevo insegnarti a nuotare.-
Edward ricordava quel giorno come ieri. Eppure erano passati quasi tre anni.
Lei lo tormentava da giorni incessantemente cercando di convincerlo a insegnarle a nuotare. E come ogni volta alla fine l’aveva accontentata. O almeno aveva provato a farlo.
Aveva compiuto quattordici anni da un paio di mesi. A lei ne mancavano altrettanti per poter dire lo stesso.
Erano riusciti a eludere la sorveglianza di entrambe le loro madri, che chiacchieravano tranquille nel giardino di casa Harmsworth, la casa di Sarah, e per caso avevano trovato quel posto.
Era perfetto. L’avevano pensato entrambi.
Non c’erano case nei dintorni né persone nei paraggi. E come lui stesso aveva appurato poco dopo l’acqua, riscaldata dai raggi del sole di luglio, era abbastanza alta per poter nuotare agevolmente, ma anche abbastanza bassa per non farla spaventare.
Anche se doveva saperlo che lei non avrebbe avuto paura. Era troppo orgogliosa per permetterselo.
Perso nei ricordi venne risvegliato dalla sua risata argentina. Quella non era mai cambiata. Ed Edward sperava non l’avrebbe mai fatto in futuro.
-Solo una volta in acqua ho capito quanto fosse stupida, come idea.- dichiarò lui.
-Io l’avevo già capito mentre mi spogliavo.- ridacchiò di nuovo lei.
-Allora perché ti sei buttata in acqua?- le chiese stupefatto. Quello non lo sapeva.
-Perché a te non importava. Perché non mi vedevi nemmeno.- dichiarò in un soffio triste.
Lo stupore che sentiva aumentava a ogni nuova parola della ragazza, soprattutto per le implicazioni che quel tono aveva. Per le cose non dette che sottintendeva.
Ma doveva saperlo. Sotto quell’aspetto da delicata bambola si nascondeva una persona molto intelligente. Attenta ai dettagli. Sincera con sé stessa. Tratti che a lui talvolta mancavano. Tendeva a dare per scontate molte cose. Quella voltache niente tra loro sarebbe mai potuto cambiare.
-Eri la cosa più bella che avessi mai visto.- confessò allora.
Sarah aveva ragione. Prima di quel giorno la vedeva ancora come la sua compagna di giochi si sempre, ma non una ragazza. Solo Sarah.
Quanto si era sbagliato!
Non era riuscito a guardarla in viso per giorni senza arrossire. Aveva impiegato molto, molto, di più per smettere di fare pensieri inappropriati ogni volta che le si avvicinava.
Tuttora, nonostante i suoi sforzi e la sua testardaggine, pensare a lei quel giorno gli causava brividi che non avrebbe  dovuto provare.
Soprattutto adesso.
Soprattutto considerando i suoi progetti futuri immediati.
Soprattutto perché era Sarah.
-Io invece ho creduto di morire per l’imbarazzo.- rise ancora lei, stringendo la presa sulla sua mano, ancora abbandonata sul suo grembo.
Edward sapeva che il biasimo che provava verso se stesso non sarebbe mai venuto meno.
Aveva come scusante la giovane età, ma niente altro.
Vederla immergersi in quel fiume, con indosso solo la biancheria, aveva causato sensazioni che non credeva potesse suscitargli. Per la prima volta l’aveva vista cresciuta.
Per la prima volta l’aveva vista donna.
Toccarla, per aiutarla a rimanere a galla, per insegnarli come muoversi, aveva solo peggiorato il tutto.
Tanto che perfino lei se n’era accorta. E aveva davvero rischiato di morire.
Perché l’imbarazzo l’aveva fatta muovere troppo in fretta, improvvisamente consapevole delle mani sul suo corpo, per allontanarsi e forse inconsciamente riportare tutto alla normalità, ed era andata sotto quasi soffocandosi per l’acqua ingerita.
-Alzati su! Voglio nuotare. Non credi che me lo meriti per averti raggiunto fin qua, nonostante questo inconcepibile sole torrido?- chiese con quel tono viziato e fintamente snob che adottava ogni volta che voleva farlo sorridere. Per fargli dimenticare i brutti pensieri.
Ed entrambi sapevano che non si stava riferendo ai vecchi ricordi, ma alla litigata con suo padre.
-Sarah, non è una buona idea, lo sai.- si irrigidì Edward sentendo quella richiesta.
E ripetendosi mentalmente che quella volta, almeno quella volta, non l’avrebbe accontentata.
-Perché mai?- il suono della voce arrivò soffocato tanto era impegnata a contorcersi su se stessa cercando di aprire i bottoncini di madreperla che le chiudevano il vestito sulla schiena, in una fila ordinata e per lei inarrivabile -Edward aiutami!- supplicò poi sorridente.
Non era una buona idea. Dannazione non lo era!
-Non siamo più bambini.- cercò di farla ragionare, bloccandole le braccia che avrebbero finito per rompere qualcosa.
-Non lo eravamo nemmeno allora.- rispose ancora capricciosa e fermamente decisa ad ottenere quanto si era prefissata.
-Oh, Edward, per favore! Solo dieci minuti. E giuro che starò vicino alla riva, anche se adesso so nuotare.- continuò poi, tornando al tono implorante, senza però tentare di nascondere il sorriso che le stava illuminando gli occhi.
Edward cedette all’impulso di guardarla negli occhi sapendo che quello l’avrebbe portato alla disfatta. Non riusciva a resistere a quegli occhioni imploranti. Erano come spicchi di cielo.
E lo capì anche lei perché non aspettò un secondo per cingergli il colle con le braccia e rubargli un bacio veloce.
-Sapevo che avresti ceduto!- cinguettò radiosa.
Sarah si voltò nuovamente di schiena attendendo quell’aiuto indispensabile che aveva tanto invocato per preservare il suo vestito. Ogni centimetro di pelle scoperto era un insulto verso se stesso e la propria debolezza. Ogni bottone aperto era un’invettiva contro quegli occhi a cui era impossibile negare ogni cosa. Ogni sua allegra risata era un battito che aumentava. E lo sapevano entrambi.
Così come sapevano entrambi la frase che stava rimbombando nella testa del ragazzo.
-La ragione domina gli istinti, no?- lo prese infatti in giro saltellando per togliersi anche gli stivaletti, dopo aver incurante gettato l’abito a terra.
La ragione domina gli istinti.
Forse. Lo sperava vivamente. Con tutto se stesso, a dire il vero.
-Poi, lo sai vero, che le tue ragioni non sono più credibili? Voglio dire, tra un paio d’anni ci sposeremo!- una risata accompagnò quelle parole mentre lei correva verso la riva, fermandosi però per aspettarlo.
La ragione domina gli istinti.
In fretta si liberò a sua volta dei vestiti raggiungendola.
Stavolta fu lui a rubarle un veloce bacio sulle labbra prima di caricarsela sulla spalla per gettarla in acqua.
La ragione domina gli istinti.
E lei sarebbe diventata sua moglie.
E sono sapeva dirle di no.
In quel momento non c’era nient’altro che contasse.




 
***




 
-Edward! Sai quanto mi hai fatto preoccupare?- lo sgridò Elizabeth, sua madre.
-Mi spiace.- si limitò a risponderle, chinando lievemente il capo prima di baciarle la guancia.
-Fingerò di non vedere lo stato in cui siete ridotti.- commentò poi notando lo stato dei loro vestiti.
E soprattutto dei capelli di Sarah, ancora umidi dopo quel bagno fuori programma. Della bella crocchia che li raccoglieva quella mattina, non c’era nemmeno la traccia.
-Sarah, tesoro, se vuoi sistemarti posso mandare nella tua stanza Cora.- riprese poi più gentile rivolgendosi alla ragazza. Erano anni che le avevano riservato una stanza in casa loro, così come Edward ne aveva una ad Harmsworth.
-Grazie Elizabeth. Ve ne sarei davvero grata, mamma inorridirebbe vedendo i miei capelli!- rise Sarah.
Una volta che fu sparita, Elizabeth si avvicinò al figlio con cipiglio severo, nonostante l’affetto che brillava nei suoi occhi.
-Ringrazia che volete sposarvi, Edward, perché altrimenti vi avrei costretti io a farlo. Proprio adesso.-
-Mamma…non è successo niente. Come sempre.- la rassicurò, lievemente in imbarazzo per quel discorso, sapendo però che era quello che la donna voleva sentirsi dire. Così come era la verità.
-Vai a cambiarti. E riaccompagnala a casa. E’ il minimo visto che ancora una volta è venuta a riprenderti chissà dove.- lo riprese prima di dargli una spinta scherzosa.
E con un ultimo sorriso anche il ragazzo lasciò la stanza.
Per il momento, la tempesta sembrava passata.




 
***




 
Tre mesi dopo l’avvocato Edward Masen venne ricoverato per spagnola in uno dei tanti ospedali di Chicago, seguito pochi giorni dopo dalla moglie Elizabeth e dal figlio Edward.
Il dottore incaricato del caso, Carlisle Cullen sapeva fin da subito che non c’erano speranze. I due uomini erano stati presi troppo tardi, e la donna, unica ad avere possibilità di sopravvivere, non sembrava intenzionata a reagire e vivere senza il marito e il figlio.
Un mese dopo, a quasi due settimane dalla morte dell’uomo e ormai in fin di vita Elizabeth attendeva la fine non a lamentarsi in un letto come tutti gli altri pazienti, ma seduta al capezzale del figlio, pregando senza sosta e cercando una soluzione.
Perché il suo bambino non poteva morire. Lo aspettavano tante cose.
Fuori da quel maledetto ospedale lo aspettava ancora Sarah, che nemmeno il referto del medico aveva piegato.
Sarah che ogni giorno si recava là, solo per guardarlo dormire, sperando di vederlo sveglio o almeno lucido. Sarah che non si curava del pericolo, forte solo della speranza che l’animava e dall’aver contratto in forma lieve la malattia poco tempo prima, da cui era guarita splendidamente.
Sarah che da un paio di giorni non poteva più entrare per l’aggravarsi delle condizioni del ragazzo.
-La prego, dottore, lo salvi.- Elizabeth supplicò il dottor Cullen, ormai sentendo la morte vicina, ma non rinunciando a lottare per il figlio.
Non per il suo bel bambino dagli occhi verdi. Così dolce e pieno di vita.
Che non aveva nemmeno vent’anni e che pure stava per morire.
-La prego, dottore…lo salvi…- sussurrò di nuovo, usando le sue ultime energie per stringere con forza la mano del giovane uomo, sperando che capisse cosa le stava chiedendo.
Sperando che lo trasformasse. Che lo rendesse come lui.
Così Carlisle Cullen morse il ragazzo, memore di quello che avevano fatto a lui quasi due secoli prima. Pregando con tutto se stesso che il ragazzo, prima o poi, avrebbe potuto perdonarlo.




 
***




 
Nessun corpo andò a riempire la bara.
Sarah non lo sapeva, per questo ogni giorno si recava nel piccolo cimitero di famiglia, dove la lapide era stata eretta. Non aveva voluto che mettessero epitaffi. Non aveva voluto stupide frasi di circostanza.
Non per Edward. Il suo Edward.
I fiori erano sempre freschi. E sempre gli stessi.
Raccoglieva personalmente i gigli che crescevano intorno a casa sua, i preferiti di Edward.
Le regalava sempre due gigliper il suo compleanno.
Le aveva regalato tre gigliil giorno in cui le aveva chiesto di sposarlo.
Le aveva portato un gigliopochi giorni prima di essere ricoverato, chiedendole scusa per il suo essersi arruolato, promettendole però di tornare da lei.
Senza nemmeno rendersene conto, due mesi dopo il suo funerale, si era ritrovata a compilare la richiesta per arruolarsi in quella maledetta guerra. Aiutare gli altri, sebbene solo in qualità di infermiera, l’avrebbe aiutata a non pensare. Ad andare avanti.
Ma soprattutto si sentiva più vicina a lui. Sapendo che sarebbe stato orgoglioso della sua scelta.
 




***

 




Carlisle si riscosse sentendo suo figlio ridere per le chiacchiere continue di Alice e Jasper, appena rientrati da quella che doveva essere una battuta di caccia, ma si era rapidamente trasformata in una sessione di shopping sfrenato.
Quella risata felice lo riportò alla realtà, lontano da quelle interminabili giornate in ospedale, lontano da tutte quelle morti. Lontano dal viso morente di Edward. E dalla disperazione di quella ragazza.
Aveva preso quella decisione tanti anni fa, quella notte di fronte a una madre disperata e a un ragazzo troppo giovane per morire.
Aveva deciso di trasformarlo, di acconsentire a quella incredibile richiesta, salvando un ragazzo e trovando qualcuno con cui dividere l’eternità.
Per quanto il senso di colpa, in quel momento, fosse quasi insopportabile non poteva parlare. Non avrebbe avuto senso farlo adesso. Non ora che Edward era felice, che aveva una famiglia.
Lanciò un unico sguardo al ragazzo, così uguale e diverso a quello che conobbe tanti anni prima, e allontanò finalmente la tentazione di raccontargli tutto quanto.
Non sarebbe stato giusto turbarlo tirando fuori affetti che non avrebbe potuto ricordare, ma solamente rimpiangere.
Prese così quello schizzo, come si era intestardito a dire suo figlio, e andò a cercare una cornice abbastanza grande per poterlo incorniciare.
Esme e Rosalie ne avevano una scorta infinita per poter documentare ogni secondo della vita di Nessie. Trovata finalmente una semplice cornice d’argento e sistemato il disegno lo poggiò sul pianoforte di Edward. Quello era il posto giusto. E forse inconsciamente anche il suo cuore lo sapeva perché gli si avvicinò sfiorando appena la cornice.
-Non è incredibilmente nostalgico, Carlisle?- gli chiese infatti.
-Cosa?-
-E’ come se mi chiamasse. Ma è nostalgico perché…è come se gli mancasse qualcosa. Hai idea di cosa sia?- cercò di spiegarsi meglio Edward, probabilmente andare alla fonte avrebbe risolto molti quesiti.
-Penso che sia bellissimo.- si limitò a rispondergli l’uomo.
Stava nascondendo qualcosa. Di nuovo. Ma non era sicuro di volerlo sapere, anche se quella casa sembrava implorarlo.
-Ho mai visto questo posto? Dal vivo, intendo. Magari quando ero umano.- provò ancora a capire.
-Edward…- sospirò l’uomo sconfitto.
Stava per parlare. Edward poteva sentirlo. E poteva vedere affacciarsi alla sua mente il viso di una bella ragazza bionda, sotto i venti anni.
-Papà!- Nessie, appena tornata a casa gli si fiondò tra le braccia distogliendo l’attenzione di entrambi da quel discorso.
-Nonno, che bello! Potremmo mettere la cornice nell’ingresso, là avrebbe più luce…- propose la ragazza.
-No, qui è perfetto.- replicò Edward.
Quello era il posto giusto.
Sul suo pianoforte. Non avrebbe potuto collocarlo altrove.
-Dove si trova?- chiese ancora all’uomo.
Non importava cosa gli stesse nascondendo. Anche se quella villa lo stava chiamando sapeva che il suo posto era lì. Lo sapeva da sempre. Da quando aveva conosciuto Bella. Da quando era nata Nessie.
-In Illinois. Era la residenza della famiglia Harmsworth. Credo che adesso sia diventata un museo.- spiegò alla fine Carlisle. Probabilmente gli aveva letto negli occhi che non avrebbe chiesto altro.
-Harmsworth…conoscevo quel posto, vero?- chiese ancora, pur sapendo già la risposta.
Non aveva ricordi di quella casa. Non aveva ricordi della sua vita passata. Eppure aveva quella certezza.
L’uomo si limitò ad annuire.
Nessie intanto li stava fissando attenta, come tutti gli altri in casa, sebbene fingessero così non fosse, completamente assorbita dalla loro conversazione. Edward poteva leggerle dentro la curiosità per quella parte della sua vita di cui non le aveva mai detto niente.
-Eppure manca qualcosa. Lo so che è così.- parlò di nuovo, quasi riflettendo tra sé.
-Lo amavi molto. Non so altro.- gli rispose Carlisle. E non stava mentendo.
Edward si accontentò di quella risposta sapendo che in ogni caso era passato. Non aveva mentito a Bella quando anni prima le aveva detto che mentire, col tempo, diventava più facile perché le persone a cui tenevi morivano. Ma diventava più facile anche perché il passato perdeva importanza. Consistenza.
La vita prima del morso diventava poco importante quanto labile.
L’Edward che era stato prima di Carlisle, della spagnola, non era più lui.
Edward Anthony Masen ormai era solo un nome, ormai. Lui era Edward Cullen.
E per quando volesse risposte, per quanto il suo cuore morto le urlasse a gran voce, decise di non pensare.
Amava quel posto.
Gli mancava qualcosa.
Ma non a lui. A Edward Anthony Masen. Al figlio dell’avvocato Edward Masen Senior ed Elizabeth Masen.
Così con un ultimo sorriso sfiorò la cornice voltandosi poi verso Jasper.
-Baseball?- chiese con un sorriso.
Aveva proprio voglia di correre un po’.
-Certo.- rispose l’altro.
Un uno contro uno con Jasper era molto più rilassante che non una partita con Emmett. Che fortunatamente era lontano insieme alla sua dolce metà per prendersela o proclamare a gran voce le sue ragioni.
I due uscirono. Edward lasciandosi alle spalle un ricordo che improvviso si era affacciato alla sua mente mentre fissava il suo disegno. Ed era riuscito a escludere tutto il resto.
Un ricordo pieno di colori e risate.
Un ricordo in cui compariva quella ragazza bionda che gli sorrideva ridendo, quasi brillante di felicità.
Una ragazza attorniata da gigli. Bella come loro.
I gigli mancavano nel suo disegno. Ma ancora di più mancava lei.
 
 
 



Era una soleggiata mattina d’estate.
Il sole alto in cielo era già caldo, nonostante ancora non fossero le dieci. E faceva brillare i capelli di Sarah.
Come da una settimana a quella parte Edward strinse leggermente la mano intorno al cofanetto che custodisce nella tasca dei pantaloni.
Un anello.
L’anello per Sarah.
Non ha ancora trovato il modo migliore, né il momento perfetto, per chiederle la mano. Prima ancora di parlarne con i loro genitori voleva farlo con lei, anche se andava contro all’etichetta e alle buone maniere.
-Edward!- urlò la ragazza che, non appena l’aveva intravisto, si era alzata di scatto dalla sua poltroncina in giardino, dove stava consumando una leggera colazione, per corrergli incontro.
Un centinaio di metri li separavano, ma lei non accennava a fermarsi.
Era così bella che sembrava un angelo.
E si decise. Basta, aspettare il momento giusto!
Così Edward raccolse in fretta tre gigli, rialzandosi giusto in tempo per sorreggerla perché gli si era lanciata tra le braccia come quando erano bambini.
Non era mai cresciuta Sarah. E probabilmente non lo avrebbe mai fatto.
Lui lo sperava con tutto se stesso.
Perché non aveva mai conosciuto persona più bella e fantastica di lei.
Anche se era viziata, arrogante, lunatica.
Perché era gentile, vera, bellissima.
Così deliziosamente imperfetta.
-Vuoi sposarmi?- chiese di getto.
La vide sorpresa.
Lui non parlava mai così, senza pensare.
Non aveva avuto il tempo per inginocchiarsi. Né per mostrarle l’anello. Per dichiararsi.
Niente di niente. Ma a lei sembrò bastare. Poteva leggerlo nei suoi occhi.
-Si! Oddio si, si, si!- gli si buttò al collo baciandolo.
Il loro primo bacio.
Il suo primo bacio. Il primo per entrambi.
Ma non sarebbe stata Sarah se non avesse detto qualcosa di così a sproposito da risultare quasi la cosa giusta.
-Allora? Questi fiorni? Già che non mi hai regalato un anello…- chiese in tono ironico, ma felice.
I fiori quasi le caddero, però, quando vide comparire tra essi il cofanetto che per giorni era stato così attentamente custodito.
-Oddio…Edward…- sospirò incredula e ancora più felice.
Non c’era bisogno di dire altro. Bastava il suo sorriso.
Solo due ore dopo, quando ormai i loro genitori erano stati informati, Sarah gli ricordò una promessa dimenticata, fatta tanti anni prima.
-Ora devi mantenere la tua promessa.-
-Quale promessa?- chiese non capendo. E di solito riusciva a leggerle dentro come nessun altro.
-Da bambino mi hai detto che avresti scritto una melodia per la donna che avresti sposato. Ora devi scriverne una a me…- si spiegò, sporgendosi per baciarlo, ridendo felice per il suo assenso.
Quella melodia non vide mai la luce, forse per mancanza di tempo, forse perché non era lei quella giusta.
Ma inconsciamente la promessa venne mantenuta.
Perché Edward avrebbe scritto quella melodia per la donna che avrebbe sposato, tanti e tanti anni dopo.
Senza ricordare la promessa fatta. Ma solo seguendo il suo cuore.

 
 
 











 
ANGOLO AUTRICE.
Lo so sono pessima. Rimango già indietro con A moder myth e mi metto a scrivere altre storie. Soprattutto a quest’ora.
Come ho detto sono pessima.
L’idea è nata per caso. E l’ho buttata giù velocemente, così come velocemente la sto pubblicando. Magari se mi lasciassi il tempo per rileggerla alla fine non lo farei.
Ho letto tutti i libri della Saga, perché dico dico ma poi alla fine lascio poche cose a metà e i primi due libri mi avevano appassionato. Gli altri due no, ma ho tirato avanti convincendomi che sarebbero solo migliorati.
Mi preparo al linciaggio, già lo so, ma voglio spiegare il perché di questa storia.
L’Edward di Twilight mi piace. È complessato, paranoico, innamorato. Ma sostanzialmente vero. Con l’andare del tempo diventa una caricatura di sé stesso che risulta noioso e pedante. Oltre che logorroico.
Bella…è un po’ troppo succube e complessata anche lei, ma almeno autoironica.
Ecco perché questa storia. Perché Edward muore a diciassette anni. Perché voleva andare in guerra. Perché aveva una famiglia.
Perché prima, in sostanza, credo fosse un ragazzo normale. Aveva sogni e progetti per il futuro, di qualunque natura fossero. E mi piace pensare che non avrebbe passato una triste vita in solitudine senza Bella. Anzi che, vista la sua mentalità di vecchio secolo, che si sarebbe sposato e avrebbe avuto figli. Che avrebbe amato anche un’altra.
Perché come ho detto Edward Cullen non è Edward Masen, per quando abbia cercato di rimanere nel personaggio.
E Sarah…beh Sarah può piacere o no. credo di non averla idealizzata, così come non lo fa Edward. Forse non provavano l’uno per l’altra l’amore totalizzante che prova per Bella, ma forse è meglio così. Forse solo perché io un amore così non l’ho mai provato e non lo voglio nemmeno. Mi piace litigare con una persona anche se la amo. Mi piace vederne i difetti, oltre che i pregi, eppure amarla lo stesso.
Spero che qualcuno legga questa storia. Anche se diversa dal mio solito.
Spero che qualcuno la apprezzi come io ho apprezzato scriverla in tre ore, proprio oggi.
Quindi grazie a chi lo farà. Se avete voglia, lasciatemi un commento e fatemi sapere cosa ne pensate. Soprattutto di Sarah, perché io nonostante tutto la adoro.
Buonanotte, Rebecca.
   
 
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