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Autore: LaMicheCoria    28/03/2011    2 recensioni
Romanus avvertì qualcosa colpirgli con violenza la tempia; venne disarcionato e cadde schiena a terra con un gemito. Nell’abisso di dolore in cui stava affogando vide il pomo della gladio lampeggiare nella guaina; strinse i denti e allungò il braccio, ma un peso tremendo si abbatté sul suo polso. Un grido di dolore gli sfuggì dalle labbra e nella nebbia scarlatta della battaglia incontrò gli occhi feroci di Ariovisto.(...)Gli occhi azzurri di Ariovisto baluginarono ed il lampo s’infranse d’oro alle spalle: la luce fredda della saetta lo circondò con braccia incandescenti, lo avvolse con ali d’aquila bianca, lo incoronò di gemme liquide di pioggia, rese ancora più splendenti dal tremore del tuono.(...)E gli si palesò nuovamente, nello splendore livido dell’incubo, il corpo di Ariovisto, avvolto dal bagliore del lampo, sulla fronte una corona intrecciata di foglie e saette, e la spada in pugno, un mantello d’ali d’aquila sulle spalle possenti, i piedi fasciati in )sandali di radici che premevano sulla gola squarciata di una lupa dal manto scuro.
Varo! Varo! Rendimi le mie legioni!

E' il 9 d.C. e Roma subisce una delle sue più pesanti sconfitte: nella foresta di Teutoburgo i barbari, guidati da Arminio, passano a fil di spada le truppe di Quintilio Varo. Solo pochi sopravviveranno a tale massacro.
L'anima di Roma non potè che uscirne spezzata...
E sempre risuonerà l'urlo di Augusto, la testa sbattuta contro le pareti della sua dimora "Varo! Varo! Rendimi le mie legioni!"
[Personaggi: [Nomina Dei] Romanus, Imperium; [Nomen Humanus] Romulus Lucius Octavianus /Impero Romano, Ariovisto/Antica Germania, Quintilio Varo, Augusto] [WARNING: Scene piuttosto cruente nell'ultima parte!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Antica Roma, Germania Magna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Memoriae Romae'
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cv

Titolo: Clades Variana
Autore:  Nemeryal
Fandom: Axis Power Hetalia
Rating: Arancione

Genere: Slice of Life, “Storico”, Drammatico, Guerra
Avvertimenti: Missing Moments, One-Shot
Personaggi: [Nomina Dei] Romanus, Imperium; [Nomen Humanus] Romulus Lucius Octavianus /Impero Romano, Ariovisto/Antica Germania

Pairing: Nessuno
Trama: E gli si palesò nuovamente, nello splendore livido dell’incubo, il corpo di Ariovisto, avvolto dal bagliore del lampo, sulla fronte una corona intrecciata di foglie e saette, e la spada in pugno, un mantello d’ali d’aquila sulle spalle possenti, i piedi fasciati in sandali di radici che premevano sulla gola squarciata di una lupa dal manto scuro.
Varo! Varo! Rendimi le mie legioni!
Musica: Europa – The Globus (Instrumental Version)
Dedica: a Silentsky
Note: E dopo la morte di Seneca, che ne dite se torturiamo ancora un po’ il nostro amato Nonno Roma, vi va?
Lo ammetto, sono soddisfatta di questa fan fiction! Evento più unico che raro, sono soddisfatta!
Vi lascio con la pagina di Wiki dedicata alla battaglia di Teutoburgo: http://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_della_foresta_di_Teutoburgo
E con quella su Quintilio Varo:
http://it.wikipedia.org/wiki/Publio_Quintilio_Varo.
Vi do qualche noticina, cui si accompagneranno quelle finali in aggiunta ^^
-Il nome di Romanus:

Nomina Divi: Letteralmente “I Nomi del Dio”, sono quelli che nella mia malata fantasia indicano Romano quale, in un concetto anacronistico al massimo grado, “Nazione” di Hetalia. Sono Romanus (Romano) e Imperium (Impero)
Nomen Humanus:
Letteralmente “Nome Umano”, quello usato da Romanus come mortale. A Roma erano in uso i tria nomina e il nostro Romanus non fa eccezione:
-Romulus, mitico fondatore di Roma
-Lucius, nome del primo console dopo la caduta della monarchia

-Octavianus, nome di Augusto, primo Imperatore dell’epoca romana.
Viene usato solamente “Octavianus” perché tale era l’usanza nell’epoca imperiale, cioè chiamare usando solamente il terzo nome e non l’intera sfilza come era sempre stato.
L’espressione “Mihi Dux” a meno che non abbia fatto un casino col latino (e può essere badate bene) dovrebbe essere un vocativo, [e grazie a claw per avermi fatto notare l'errore!] tradotto “(Oh) mio comandante”

Alcune scene, soprattutto nella parte finale, sono piuttosto cruente. Molto sanguinolente, quindi se volete leggere, preparatevi psicologicamente prima.
Wordcounter: 3651 (Titolo e note finali escluse)

 

Clades Variana

Foresta di Teutoburgo,
Settembre, 9 d.C.

 

Romanus si strinse nel mantello, lo sguardo che guizzava senza sosta tra le ombre nebbiose degli alberi.
Un silenzio irreale dominava la foresta, una quiete tesa tra i rami secchi, da cui le foglie cadevano come stille sanguigne e impregnavano crocchiando il terreno ai loro piedi.
Fece schioccare la lingua contro il palato, incitando appena il cavallo; quello nitrì e aumentò il passo, avvicinandosi alla cavalcatura di Publio Quintilio Varo, poco più avanti. Romanus lo affiancò in silenzio, lanciando una rapida occhiata ai soldati e ai civili che li seguivano a testa china, i passi pesanti ed il mento che ciondolava sul petto.
L’atmosfera cupa che regnava nella foresta stava lentamente affondando le unghie nell’animo delle truppe: occhi ghignanti di Dei sconosciuti li osservavano al riparo delle ombre, tendendo gli artigli di nebbia e ridendo del suono gutturale dei rami secchi che schioccavano uno contro l’altro.
I Germanici potevano anche sorridere nella loro direzione, masticando parole insensate, ma nulla di quello che smozzicavano nel loro latino stentato o con le loro parole dure e striscianti riusciva a portare la pace nel cuore di Romanus: egli sentiva ancora addosso gli occhi insofferenti di Ariovisto, vedeva la linea nera delle labbra sul volto affilato, quel ringhio basso che accompagnava le sue frasi di saluto e commiato.

Romanus, quasi inconsciamente, carezzò con le dita il pomo del gladio tenuto alla cintola: lo sguardo gli cadde su uno dei Germanici accanto al cavallo di Quintilio Varo e si soffermò sul volto temprato dal freddo, sulla pelliccia scura portata sopra le braccia robuste e muscolose, sulle labbra livide sollevate in un ghigno, sui denti storti e nerastri. Un moto di disgusto lo colse, costringendolo a guardare altrove; fu allora che la vide: c’era una strada, sì, un sentiero nascosto, battuto, tra il fogliame basso e vermiglio. Una via su cui erano state ammassate zolle di terra, sassi e fronde, come a ripararla da occhi indiscreti.
-Mihi dux!- esclamò Romanus, affiancandosi con piccolo trotto a Quintilio Varo -Mihi dux, vi è una strada là, una via che i Germanici non hanno segnalato!- e indicò il sentiero con un gesto rapido del braccio. Aveva parlato in fretta, di modo che i due uomini della foresta non capissero o almeno lo facessero il meno possibile. Ma l’occhiata di quello di destra, quello che somigliava in modo sorprendente ad Ariovisto non fosse stato per le rughe cadenti attorno alla bocca, borbottò
-Non si usa più quella via. Pericolosa. Se andiamo per questa, sarà più facile-

Romanus ringhiò e affondò i talloni nel ventre del cavallo, che nitrì e scalpitò, impennandosi e agitando gli zoccoli lucenti nell’aria brumosa della foresta. Il Germanico dovette spaventarsi, perché indietreggiò con un’imprecazione sonora sulla bocca storta, proteggendosi la testa con le mani.
-Non mi fido di te, Germanico!- gridò Romanus, estraendo il gladio per puntarglielo alla gola –Puzzi di falsità-
-Via, via- Quintilio Varo si mise in mezzo, agitando le mani con un sorriso bonario sul volto -Octavianus- Romanus faticò non poco a capire che il generale si stava riferendo a lui: da troppi anni non veniva più usato il suo nomen humanus..Romanus..Imperium..I nomina dei, ecco la sua identitàNon sarebbe saggio non fidarsi di costoro, non trovi? Conoscono il luogo, la terra, ogni singolo albero che cresce lungo il sentiero. Senza di essi saremmo già stati preda delle belve da tempo-
-Preferirei essere morto tra le zanne di una belva- ringhiò Romanus, rinfoderando il gladio –Che preda di cani come loro-
I Germanici dovettero comprendere l’insulto, perché sollevarono le labbra, mostrando i denti e sibilando come serpenti. Quintilio Varo fissò Romanus con occhi ostili, due pietre sgrossate tagliate a metà dal naso imponente, poi si rivolse alle guide, forse scusandosi e chiedendo loro di riprendere il cammino.

Romanus alzò gli occhi al cielo, levando una silente preghiera a Marte, Signore della Guerra, perché aggiogasse il suo carro e tenesse pronta la lancia sanguigna. Dietro le palpebre chiuse gli apparve di nuovo il volto contratto di Ariovisto e le dita vicine, troppo vicine, all’impugnatura della spada.
Un grido e l’agitarsi delle truppe dietro di lui, fecero riemergere Romanus dal ricordo e dalla preghiera: Quintilio Varo, a capo della fila, si era fermato a causa di un altro Germanico che stava correndo nella sua direzione. Il sangue scorreva da un taglio che gli aveva diviso a metà il sopracciglio e gli occhi erano cerchiati di viola, le labbra spaccate e i capelli insudiciati di fango e terra.
Si accasciò ai piedi del generale, gemendo e piangendo, alzando le braccia graffiate e vomitando parole in un latino a caso, solo per attirarne l’attenzione e la pietà.

Romanus si avvicinò al nuovo arrivato e lo osservò dall’altro del proprio cavallo: gli girò intorno, incurante del terrore dell’altro, del suo essersi raggomitolato in posizione fetale e degli occhi che impazziti schizzavano dagli zoccoli alla guaina nera del gladio. Quando fu soddisfatto del timore suscitato, alzò il viso verso Quintilio Varo; questi lo stava fissando con malcelato disprezzo, reso ancora più evidente dall’angolo destro delle labbra, piegato verso il basso, che dava al suo volto già grottesco l’aria di una maschera teatrale.
-Octavianus- la voce del generale non ammetteva repliche di sorta –Ora basta. È un ordine-

Romanus assottigliò lo sguardo. Un ghigno gli sorvolò il viso mentre con le dita andava ad accarezzare la spilla che teneva stretto il manto di porpora: d’oro, col muso della Lupa Capitolina che sfidava a zanne scoperte chiunque tentasse di sottomettere l’Impero con la forza. Era il simbolo di Roma, ciò che denotava Romanus come Roma stessa. Un simbolo davanti a cui anche un uomo come Quintilio Varo doveva chinare il capo. E così fece. Tossicchiò e, come ogni volta che si sentiva a disagio, si portò le dita al viso e vi soffiò il naso, per poi scuotere la mano e tornare a fissare il Germanico raggomitolato a terra.
-Cosa dice?- chiese agli altri due, che intanto si stavano fissando l’un l’altro, gettando di quanto in quando un’occhiata di sbieco a Romanus.
-Una rivolta- rispose il Germanico che somigliava ad Ariovisto –Nel territorio dei Bructeri. Al massiccio di Kalkriese-
Quintilio Varo annuì e alzò il viso verso Romanus; questi strinse gli occhi, raggelando i tre Germanici con un’occhiata imperiosa.
-Andremo- disse il generale. Non era un ordine e nemmeno una domanda. Una semplice constatazione.

Romanus lo osservò, in silenzio.

 

Foresta di Teutoburgo,
Settembre, 9 d.C.
Notte.

 

Faceva freddo, le nuvole rombavano senza freno nel cielo plumbeo della notte: Giove rimestava quei nembi lividi, gettandovi il gelo a manate sempre più generose e il sudore che gli scendeva dalle braccia divine andava raccogliendosi nelle sacche ancora silenti della tempesta.
-L’unica cosa- rise Romanus, facendo segno agli altri fanti di avvicinarsi –In grado di superare questa nebbia è il naso di Quintilio Varo-
Gli uomini attorno a lui dapprima sgranarono gli occhi, poi si guardarono ed infine scoppiarono a ridere, latrando come cani e battendosi le mani sulle cosce. Romanus si unì a loro, più per coprire il brulichio dei propri pensieri che per vera e propria ilarità. Sentiva gli occhi dei Germanici puntati sulla schiena, i loro sguardi scintillanti, astiosi, simili a pietre dure; brillavano al danzare delle fiamme e un sibilo irato fischiava tra le fessure dei denti e dalle labbra contratte.
 -Octavianus-
Le risate cessarono all’istante, ma il ghigno strafottente di Romanus non si cancellò, anzi, si fece più marcato; non si voltò nemmeno, ma girò appena la testa, osservando Quintilio Varo con la coda dell’occhio.
-Vieni con me, Octavianus-

Romanus si batté le mani sulle cosce e si mise in piedi, apprestandosi a seguire il generale fuori dal cerchio di luce. Non senza aver prima mimato ai fanti le dimensioni del naso dell’uomo, quando questi gli dava le spalle. Le risate che accompagnarono quel gesto vibrarono nell’oscurità come le corde pizzicate di una lira.
Non appena furono abbastanza lontani da orecchie indiscrete, Quintilio Varo si soffiò il naso tra le dita e osservò Romanus con cipiglio severo.
-Il tuo comportamento con i Germanici è stato inaccettabile-
-Quei cuori di cagna non meritano trattamento diverso dal mio-
-Sono alleati-
-Sono traditori-
-Chi sei tu per affermarlo?-
-Chi se tu per negarlo?-
-Non una parola di più, Imperium!-
A quelle parole, Romanus gettò la testa all’indietro, la bocca spalancata in una risata grottesca quanto roca, l’abbaiare funesto dei cani quando Hecata compare di fumo e notte ai crocicchi.
-Imperium! Allora ricordi ancora il mio nome!-
-Che dici?-
-Pensavo l’avessi dimenticato e mi avessi scambiato per un semplice miles della diciannovesima legione!-
Quintilio Varo corrugò l’ampia fronte
-Le tue parole non hanno senso! Non avrei certo potuto chiamarti in tale modo, non davanti alle truppe! Non davanti ai Germanici!-
-Perché?- ribatté Romanus fissandolo con un sopracciglio inarcato –Se tale è la tua fiducia in quei cani, per quale motivo non rivelargli che l’anima di Roma cavalca al tuo fianco in battaglia?-
Gli occhi del generale lampeggiarono, la rabbia trasfigurò il suo volto, sciogliendosi come cera sui tratti decisi e rendendoli grossolani, quasi brutti.
-Non osare darmi del traditore, Imperium! Giurai sulla sacra ara di Giove Ottimo Massimo che mai avrei rivelato il segreto! Misi la mia vita e quella dei miei figli nelle mani del Dio! Versai il mio sangue sulla Verità!-
La voce gli tremava e il fiato usciva in rochi rantoli dalle labbra storte; teneva le mani chiuse a pugno e la vena che gli attraversava la tempia pulsava e sembrava sul punto di scoppiare; il collo taurino era reso ancora più gonfio dal rossore che lo incendiava e la saliva si era raggrumata spumosa agli angoli della bocca.

Romanus si avvicinò con un ghigno, alzò una mano e gli pulì la saliva con un gesto veloce delle dita, poi scese, lentamente, seguendo la linea della zigomo e delle labbra, fino ad arrivare al collo. Rimase fermo ad ascoltare il battito impazzito del cuore del generale, quasi avvertendo sotto i polpastrelli il flusso prepotente del sangue, quel fiume scarlatto che fluiva al viso e lo tingeva di un rosso acceso, quello scorrere impetuoso, senza freni, quell’esondazione di rabbia e vergogna.
Piegò la testa di lato e ghignò. Le mani si strinsero attorno al collo di Quintilio Varo con un gesto improvviso.
L’uomo sgranò gli occhi e cominciò a rantolare, afferrò il polso di Romanus e tentò in ogni modo di staccarlo dal collo, ma che speranza aveva con le dieci, cento, mille dita di Roma, di tutto l’Impero che gli serravano il respiro?
-Augusto fece di te ciò che sei. Se non fosse stato per lui, se non fosse stato per il matrimonio combinato con la figlia di Agrippa, staresti ancora a trascinarti nel fango di Roma, con addosso il peso della tua gens persa nell’oblio! Il cursus honorum, il consolato, il proconsolato in Africa, il legatus pro praetore in Siria, credi che avresti ottenuto tutto questo con le tue dita lerce? Pensi che saresti diventato governatore della Germania con quel tuo bel naso dai disgustosi umori?- la stretta si fece più forte e il volto di Quintilio Varo divenne livido –No, no, mihi dux- il titolo era intriso di sarcasmo e veleno –Roma ha fatto di te quello che sei. Roma può distruggerti- Romanus lasciò la presa e Quintilio Varo cadde bocconi a terra, tossendo e sputando, massaggiandosi il collo e prendendo aria a grandi boccate –A meno che..- aggiunse Imperium, chinandosi su di lui e dandogli un buffetto sulla guancia –Tu non ti distrugga con le tue stesse mani-

Romanus si rimise in piedi e si allontanò; prima di venire ingoiato dal buio si voltò un’ultima volta verso il generale
-Ma lo giuro su Giove Ottimo Massimo..Roma..Io combatterò fino all’ultimo respiro perché ciò non accada. Ho mille occhi, Varo. Tu solamente due. Scegli se usare solo i tuoi o anche i miei. Da quello dipenderà il tuo futuro-

 

Foresta di Teutoburgo,
Settembre, 9 d.C.
Primo Giorno

 

Pioveva, gelide lame che saettavano dal cielo livido di tempesta, accompagnate dal grido furioso del vento, dai suoi ringhi e dalle sue zanne che abbattevano uomini, donne e bambini, li facevano cadere nel pantano, disperdevano le unità, creavano vuoti troppo, troppo vasti perché le truppe riuscissero a difendere con efficacia la colonna.
Romanus si coprì la bocca col manto, assottigliando lo sguardo per vedere meglio tra gli scrosci sempre più forti di pioggia: davanti a sé solo alberi, fusti di nere cortecce contro il livido orizzonte, dirupi da ogni dove, labirinti di fosse, spaccature sempre più profonde nel terreno molle, il lezzo degli acquitrini tutt’intorno.
Quintilio Varo avanzava davanti a Romanus, chinandosi più volte per evitare un ramo basso e facendosi faticosamente strada tagliando ed abbattendo gli arbusti che gli intralciavano la via.
Le guide Germaniche continuavano ad andare avanti, senza più voltarsi indietro, trascinando il cavallo del generale su sentieri scoscesi, eppure Romanus le vedeva quelle impronte coperte con cura quasi maniacale, quelle vie che si snodavano tra le radici del sottobosco, quelle strade che i Germanici non volevano in alcun modo prendere.
La via si restrinse d’improvviso, il vento, ruggendo, schiaffeggiò Romanus con un odore nauseabondo, insopportabile, vicino, sempre più vicino.
-Varo!- gridò, tenendo alta la voce per sovrastare il rombo grave della pioggia –Varo! Una palude! C’è puzza di palude!-
Il generale si sporse da cavallo, richiamando a sé le guide, ma quelle continuavano ad avanzare, incuranti del vento, del freddo. I piedi si muovevano sicuri, troppo sicuri e veloci e le distanze si allungavano senza sosta. Le truppe si stavano disperdendo, la coda si spezzava in frammenti sempre più piccoli, e a Romanus sembrava di sentire delle grida dietro di sé, urla di dolore, di aiuto, ma ogni cosa veniva soffocata dagli artigli della foresta.
Fu quando vide il terrapieno e sentì uno squarcio aprirsi senza motivo nel palmo destro e le urla esplodere come fiamma d’incendio nella testa che capì. Si portò le mani ai capelli, gridando e tirando le ciocche scure, macchiandole di sangue, affondando le unghie sulle guance e lasciandovi scie rosse, calde e viscose.
Sentì l’orlo di Quintilio Varo lacerare il tuono della tempesta e lo strepito delle genti germaniche nascoste dal vallo, al riparo nella foresta, pronte, in attesa delle loro prede.

Romanus avvertì qualcosa colpirgli con violenza la tempia; venne disarcionato e cadde schiena a terra con un gemito. Nell’abisso di dolore in cui stava affogando vide il pomo della gladio lampeggiare nella guaina; strinse i denti e allungò il braccio, ma un peso tremendo si abbatté sul suo polso. Un grido di dolore gli sfuggì dalle labbra e nella nebbia scarlatta della battaglia incontrò gli occhi feroci di Ariovisto.
Non rideva, non ghignava. Teneva alta la spada e i capelli biondi rimanevano incollati al viso, le guance sporche di terra, doveva essere rimasto troppe ore chino dietro ad arbusto o steso nel fango, le nocche bianche, tempestate di gocce di brillanti di pioggia.
-Cane!- ruggì Romanus piegando il collo in avanti, digrignando i denti come una bestia –Cane! Cane che mordi la mano che ti ha nutrito!-
Gli occhi azzurri di Ariovisto baluginarono ed il lampo s’infranse d’oro alle spalle: la luce fredda della saetta lo circondò con braccia incandescenti, lo avvolse con ali d’aquila bianca, lo incoronò di gemme liquide di pioggia, rese ancora più splendenti dal tremore del tuono.

Romanus sentì il gelo della sconfitta invadergli le membra: piaghe rossastre si aprivano in ogni dove, vomitava sangue dalla bocca, il cuore trafitto dieci, cento, mille volte, le carni lacerate dal ferro ghiacciato, occhi strappati con ferocia dalle orbite, la gola tagliata, e moriva, moriva per vivere e morire ancora, il polso bloccato dal piede di Ariovisto ed i suoi occhi d’inverno resi ancora più freddi dai lampi che vi si infrangevano, come su di uno specchio d’acqua.
E ancora un fulmine e la fronte bionda incoronata dalla sagitta di Giove, intrecciate alle foglie di un Dio senza nome.
Due divinità sancivano la vittoria di Ariovisto.
Due divinità decretavano la sconfitta di Romanus.

 

Foresta di Teutoburgo,
Settembre, 9 d.C.
Secondo Giorno

 

-Verso Castra Vetera- ripeteva Quintilio Varo –Verso Castro Vetera-
Cosa si aspettava? L’aiuto di Asprenate? Già troppo sarebbe stato vedere le acque del Reno bagnare l’orizzonte e stendersi grigie oltre la fitta macchia di alberi!

Romanus si portò una mano al petto, perdendo la presa sulle briglie e scivolando sul collo del cavallo; con occhi vacui osservò le foglie venir schiacciate con un crepitare crocchiante dagli zoccoli dell’animale. Una dopo l’altra, rosse come fuoco, scarlatte di sangue, visi distrutti percorsi da vene recise, tutte schiacciate, senza un nome, piaghe prive di futuro.
Con le dita scivolose per il sangue afferrò la criniera del cavallo e cercò di rimettersi composto, ma una fitta atroce al petto lo fece desistere.

Ariovisto lo stava uccidendo ogni corpo trafitto di più: lo vedeva dietro le palpebre chiuse, nei turbinii del vento, nel cadere delle foglie, nell’incedere logoro delle truppe stravolte, sentiva il suo fiato sul collo, la sua spada conficcata nel fianco, la voce rude che ringhiava di morte e libertà al suo orecchio.
E Arminio gli era accanto, veloce nella selva, silenzioso, terribile. I suoi uomini facevano strage della gente di Roma, non avevano pietà. E Romanus moriva ogni volta, si accasciava con un sospiro macchiato di sangue sul collo del cavallo e lasciava cadere le braccia, il mantello di porpora ormai a brandelli.
Qualche volta alzava lo sguardo su Quintilio Varo e lo vedeva curvo, stretto nelle spalle, gli occhi sfuggenti, che non osavano posarsi sui fanti e i cavalieri, stretti in quegli angusti sentieri, sfiancati dagli assalti sempre più frequenti dei Germanici. Mormorava di Castro Vetera di Asprenate, si tormentava le mani ed il naso, soffiava fiato gelido tra le labbra pallide, pregava gli Dei e li malediva, incapace di scegliere una via, di trovare un sentiero, lì, in quella foresta di nebbia e sangue, dove ogni albero era uguale al seguente ed una gabbia di rami li soffocava in un intricato labirinto senza via di uscita.
Ancora un soldato ucciso e Romanus inarcò la schiena con un grido straziante; cominciò a battersi la faccia coi pugni, per superare il dolore con altro dolore ancora più tremendo, ma se avesse continuato in quel modo, che altra sofferenza avrebbe dovuto trovare per non sentire più la morte avvinghiarsi di fuoco alle sue ossa e al suo cuore? Forse tagliarsi il braccio? Recidersi le vene delle ginocchia? Cavarsi gli occhi?
No, nulla sarebbe stato più tremendo che il corpo di un bambino che cadeva a terra senza vita, le piccole braccia rotte e il ventre che vomitava viscere dall’orrendo olezzo! E nessun dolore avrebbe mai superato quello di una donna violata dai barbari, da quei denti che mordevano i loro colli peggio dei cani di strada quando si avventano su un pezzo di carne!
Le lacrime cominciarono a scorrere sul viso di Romanus. E la corona di saette di Ariovisto si rifletteva brillante su ognuna di esse.
-Mi dicesti- lo raggiunse la voce tremula di Quintilio Varo –Che avevi mille occhi per guardare lontano. Che vede ora il tuo sguardo, Imperium?-
-Morte..- rispose quello con un sibilo gorgogliante –E Marte..che pone sulla fronte di Arminio..una corona di teschi-
Il generale rimase in silenzio per alcuni istanti, poi continuò
-Sai invece cosa vedono i miei occhi?-
-Cosa?- sussurrò flebile Romanus, le palpebre pesanti, l’animo svuotato di ogni forza
-La spada. Ed il mio cuore che ne viene trafitto-

 

Foresta di Teutoburgo,
Settembre, 9 d.C.
Terzo Giorno

 

Correva contro il vento e la pioggia, contro i lampi che esplodevano alle sue spalle, incespicando nel fango, cadendo bocconi sul terreno molle e rialzandosi sospinto dal vento furente, dal ruggito divertito di Ariovisto che gli aveva indicato con le dita macchiate del sangue di Roma la via per tornare in patria.
Le lacrime scorrevano, stille scarlatte sul volto imputridito, cadevano nel fango, scivolavano nella bocca aperta in un ansimo morte, a violare le labbra livide di freddo e sconfitta, pallide di debolezza, di gelo. Le mandi si tendevano verso la via inoltratasi fra gli alberi e le ginocchia cedevano ad ogni passo, si trascinava privo di ogni qualsivoglia volontà, il ventre trapassato da ferro e da fiamme, gli occhi ciechi di dolore e nebbia, nebbia di sangue e pioggia di lame, il cuore sfiancato e accasciato contro le costole rotte, piegate dal piede e dalle mani callose di Ariovisto.
Aveva provato sì, aveva provato a trafiggersi il petto col gladio, affrontando con onore la sconfitta, ad aprire col filo scintillante uno squarcio infinito, dal collo al ventre, ma invece di sangue e viscere erano fuoriusciti bianchi teschi urlanti, orbite vuote e nere, ancora incrostate di pelle marcescente, i denti staccati, rivoli di sclera e bulbi sugli zigomi scoperti.
Aveva visto Quintilio Varo trafiggersi il petto con la propria spada, Numonio fuggire e morire da cagna, tra il fango e le ossa spolpate delle truppe e Celio, il giovane Celio fracassarsi il cranio con le catene dei Germani, ed il volto di Ariovisto, sempre impassibile, spezzarsi di fronte a tanto valore e coraggio e capire, forse, forse capire quanto onore vibrava con voce eterna di clangori di spade in quel sangue che gli incrostava i capelli biondi.
Cadde esausto, dopo giorni, o ore o settimane di corsa, cadde esausto ai piedi di Augusto, il princeps dal viso terreo e l’espressione stravolta, ed esalando un rantolo, un respiro gelido, annunciò la sconfitta Variana, le lame sepolte dalle foglie scarlatte delle fronde di Teutoburgo.
E gli si palesò nuovamente, nello splendore livido dell’incubo, il corpo di Ariovisto, avvolto dal bagliore del lampo, sulla fronte una corona intrecciata di foglie e saette, e la spada in pugno, un mantello d’ali d’aquila sulle spalle possenti, i piedi fasciati in sandali di radici che premevano sulla gola squarciata di una lupa dal manto scuro.
Due divinità avevano sancito la vittoria di Ariovisto.
Due divinità avevano decretato la sconfitta di Romanus.

 

Varo! Varo! Rendimi le mie legioni!

 

~*~

 

 

 

 

Note Finali:
-Cursus Honorum:
ordine sequenziale degli uffici pubblici in epoca romana.
-I fazzoletti in epoca romana non esistevano. Era quindi del tutto naturale soffiarsi il naso direttamente fra le dita.
-Hecata, o Ecate, divinità notturna, altra forma di Artemide/Diana. Evocata spesso nei rituali di magia, la sua presenza era annunciata dall’abbaiare dei cani. Era la dea dei Crocicchi.
-Il Tempio di Giove Ottimo Massimo era il tempio più importante dedicato alla divinità.

-Si dice che l’ultima frase sia stata pronunciata da Augusto non appena ebbe avuto notizia della sconfitta di Teutoburgo.

   
 
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