Titolo: Clades Variana
Autore: Nemeryal
Fandom: Axis Power Hetalia
Rating: Arancione
Genere: Slice of Life, “Storico”,
Drammatico, Guerra
Avvertimenti: Missing Moments, One-Shot
Personaggi: [Nomina Dei] Romanus,
Imperium; [Nomen Humanus] Romulus
Lucius Octavianus /Impero Romano, Ariovisto/Antica Germania
Pairing: Nessuno
Trama: E gli si palesò nuovamente,
nello splendore livido dell’incubo, il corpo di Ariovisto, avvolto dal bagliore
del lampo, sulla fronte una corona intrecciata di foglie e saette, e la spada
in pugno, un mantello d’ali d’aquila sulle spalle possenti, i piedi fasciati in
sandali di radici che premevano sulla gola squarciata di una lupa dal manto
scuro.
Varo! Varo! Rendimi le mie legioni!
Musica:
Europa
– The Globus (Instrumental Version)
Dedica: a Silentsky
Note: E dopo la morte di
Seneca, che ne dite se torturiamo ancora un po’ il nostro amato Nonno Roma, vi
va?
Lo ammetto, sono soddisfatta di questa
fan fiction! Evento più unico che raro, sono soddisfatta!
Vi lascio con la pagina di Wiki
dedicata alla battaglia di Teutoburgo: http://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_della_foresta_di_Teutoburgo
E con quella su Quintilio Varo:
http://it.wikipedia.org/wiki/Publio_Quintilio_Varo.
Vi do qualche noticina, cui si
accompagneranno quelle finali in aggiunta ^^
-Il nome di Romanus:
Nomina Divi: Letteralmente “I Nomi del Dio”, sono quelli che nella mia
malata fantasia indicano Romano quale, in un concetto anacronistico al massimo
grado, “Nazione” di Hetalia. Sono Romanus (Romano) e Imperium (Impero)
Nomen Humanus: Letteralmente “Nome Umano”, quello usato da Romanus come
mortale. A Roma erano in uso i tria
nomina e il nostro Romanus non fa eccezione:
-Romulus, mitico fondatore di Roma
-Lucius, nome del primo console dopo la caduta
della monarchia
-Octavianus, nome di Augusto, primo Imperatore dell’epoca romana.
Viene
usato solamente “Octavianus” perché tale era l’usanza nell’epoca imperiale,
cioè chiamare usando solamente il terzo nome e non l’intera sfilza come era
sempre stato.
L’espressione
“Mihi Dux” a meno che non abbia fatto
un casino col latino (e può essere badate bene) dovrebbe essere un vocativo, [e grazie a claw per avermi fatto notare l'errore!]
tradotto “(Oh) mio comandante”
Alcune scene, soprattutto nella parte
finale, sono piuttosto cruente. Molto sanguinolente, quindi se volete leggere,
preparatevi psicologicamente prima.
Wordcounter: 3651 (Titolo e note finali escluse)
Clades
Variana
Foresta di
Teutoburgo,
Settembre, 9 d.C.
Romanus si strinse nel
mantello, lo sguardo che guizzava senza sosta tra le ombre nebbiose degli
alberi.
Un silenzio
irreale dominava la foresta, una quiete tesa tra i rami secchi, da cui le
foglie cadevano come stille sanguigne e impregnavano crocchiando il terreno ai
loro piedi.
Fece
schioccare la lingua contro il palato, incitando appena il cavallo; quello
nitrì e aumentò il passo, avvicinandosi alla cavalcatura di Publio Quintilio
Varo, poco più avanti. Romanus lo
affiancò in silenzio, lanciando una rapida occhiata ai soldati e ai civili che
li seguivano a testa china, i passi pesanti ed il mento che ciondolava sul
petto.
L’atmosfera
cupa che regnava nella foresta stava lentamente affondando le unghie nell’animo
delle truppe: occhi ghignanti di Dei sconosciuti li osservavano al riparo delle
ombre, tendendo gli artigli di nebbia e ridendo del suono gutturale dei rami
secchi che schioccavano uno contro l’altro.
I Germanici
potevano anche sorridere nella loro direzione, masticando parole insensate, ma
nulla di quello che smozzicavano nel loro latino stentato o con le loro parole
dure e striscianti riusciva a portare la pace nel cuore di Romanus: egli sentiva ancora addosso gli occhi insofferenti di Ariovisto, vedeva la linea nera delle
labbra sul volto affilato, quel ringhio basso che accompagnava le sue frasi di
saluto e commiato.
Romanus, quasi
inconsciamente, carezzò con le dita il pomo del gladio tenuto alla cintola: lo
sguardo gli cadde su uno dei Germanici accanto al cavallo di Quintilio Varo e
si soffermò sul volto temprato dal freddo, sulla pelliccia scura portata sopra
le braccia robuste e muscolose, sulle labbra livide sollevate in un ghigno, sui denti storti e nerastri. Un moto di disgusto lo colse, costringendolo a
guardare altrove; fu allora che la vide: c’era una strada, sì, un sentiero
nascosto, battuto, tra il fogliame basso e vermiglio. Una via su cui erano
state ammassate zolle di terra, sassi e fronde, come a ripararla da occhi
indiscreti.
-Mihi dux!- esclamò Romanus, affiancandosi con piccolo trotto a Quintilio Varo -Mihi dux, vi è una strada là, una via che
i Germanici non hanno segnalato!- e indicò il sentiero con un gesto rapido del
braccio. Aveva parlato in fretta, di modo che i due uomini della foresta non
capissero o almeno lo facessero il meno possibile. Ma l’occhiata di quello di
destra, quello che somigliava in modo sorprendente ad Ariovisto non fosse stato per le rughe cadenti attorno alla bocca,
borbottò
-Non si usa
più quella via. Pericolosa. Se andiamo per questa, sarà più facile-
Romanus ringhiò e affondò
i talloni nel ventre del cavallo, che nitrì e scalpitò, impennandosi e agitando
gli zoccoli lucenti nell’aria brumosa della foresta. Il Germanico dovette
spaventarsi, perché indietreggiò con un’imprecazione sonora sulla bocca storta,
proteggendosi la testa con le mani.
-Non mi fido
di te, Germanico!- gridò Romanus,
estraendo il gladio per puntarglielo alla gola –Puzzi di falsità-
-Via, via-
Quintilio Varo si mise in mezzo, agitando le mani con un sorriso bonario sul
volto -Octavianus- Romanus faticò non poco a capire che il
generale si stava riferendo a lui: da troppi anni non veniva più usato il suo nomen humanus..Romanus..Imperium..I nomina dei, ecco la sua identità –Non sarebbe saggio non fidarsi di
costoro, non trovi? Conoscono il luogo, la terra, ogni singolo albero che
cresce lungo il sentiero. Senza di essi saremmo già stati preda delle belve da
tempo-
-Preferirei
essere morto tra le zanne di una belva- ringhiò Romanus, rinfoderando il gladio –Che preda di cani come loro-
I Germanici
dovettero comprendere l’insulto, perché sollevarono le labbra, mostrando i
denti e sibilando come serpenti. Quintilio Varo fissò Romanus con occhi ostili, due pietre sgrossate tagliate a metà dal
naso imponente, poi si rivolse alle guide, forse scusandosi e chiedendo loro di
riprendere il cammino.
Romanus alzò gli occhi al
cielo, levando una silente preghiera a Marte, Signore della Guerra, perché
aggiogasse il suo carro e tenesse pronta la lancia sanguigna. Dietro le
palpebre chiuse gli apparve di nuovo il volto contratto di Ariovisto e le dita vicine, troppo vicine, all’impugnatura della
spada.
Un grido e
l’agitarsi delle truppe dietro di lui, fecero riemergere Romanus dal ricordo e dalla preghiera: Quintilio Varo, a capo della
fila, si era fermato a causa di un altro Germanico che stava correndo nella sua
direzione. Il sangue scorreva da un taglio che gli aveva diviso a metà il
sopracciglio e gli occhi erano cerchiati di viola, le labbra spaccate e i
capelli insudiciati di fango e terra.
Si accasciò
ai piedi del generale, gemendo e piangendo, alzando le braccia graffiate e
vomitando parole in un latino a caso, solo per attirarne l’attenzione e la
pietà.
Romanus si avvicinò al
nuovo arrivato e lo osservò dall’altro del proprio cavallo: gli girò intorno,
incurante del terrore dell’altro, del suo essersi raggomitolato in posizione
fetale e degli occhi che impazziti schizzavano dagli zoccoli alla guaina nera
del gladio. Quando fu soddisfatto del timore suscitato, alzò il viso verso
Quintilio Varo; questi lo stava fissando con malcelato disprezzo, reso ancora
più evidente dall’angolo destro delle labbra, piegato verso il basso, che dava
al suo volto già grottesco l’aria di una maschera teatrale.
-Octavianus- la voce del generale non
ammetteva repliche di sorta –Ora basta. È un ordine-
Romanus assottigliò lo
sguardo. Un ghigno gli sorvolò il viso mentre con le dita andava ad accarezzare
la spilla che teneva stretto il manto di porpora: d’oro, col muso della Lupa
Capitolina che sfidava a zanne scoperte chiunque tentasse di sottomettere
l’Impero con la forza. Era il simbolo di Roma, ciò che denotava Romanus come Roma stessa. Un simbolo davanti a cui anche un uomo come Quintilio Varo
doveva chinare il capo. E così fece. Tossicchiò e, come ogni volta che si sentiva
a disagio, si portò le dita al viso e vi soffiò il naso, per poi scuotere la
mano e tornare a fissare il Germanico raggomitolato a terra.
-Cosa dice?-
chiese agli altri due, che intanto si stavano fissando l’un l’altro, gettando
di quanto in quando un’occhiata di sbieco a Romanus.
-Una
rivolta- rispose il Germanico che somigliava ad Ariovisto –Nel territorio dei Bructeri.
Al massiccio di Kalkriese-
Quintilio
Varo annuì e alzò il viso verso Romanus;
questi strinse gli occhi, raggelando i tre Germanici con un’occhiata imperiosa.
-Andremo-
disse il generale. Non era un ordine e nemmeno una domanda. Una semplice
constatazione.
Romanus lo osservò, in
silenzio.
Foresta di
Teutoburgo,
Settembre, 9 d.C.
Notte.
Faceva
freddo, le nuvole rombavano senza freno nel cielo plumbeo della notte: Giove
rimestava quei nembi lividi, gettandovi il gelo a manate sempre più generose e
il sudore che gli scendeva dalle braccia divine andava raccogliendosi nelle
sacche ancora silenti della tempesta.
-L’unica
cosa- rise Romanus, facendo segno
agli altri fanti di avvicinarsi –In grado di superare questa nebbia è il naso
di Quintilio Varo-
Gli uomini
attorno a lui dapprima sgranarono gli occhi, poi si guardarono ed infine
scoppiarono a ridere, latrando come cani e battendosi le mani sulle cosce. Romanus si unì a loro, più per coprire
il brulichio dei propri pensieri che per vera e propria ilarità. Sentiva gli
occhi dei Germanici puntati sulla schiena, i loro sguardi scintillanti,
astiosi, simili a pietre dure; brillavano al danzare delle fiamme e un sibilo
irato fischiava tra le fessure dei denti e dalle labbra contratte.
-Octavianus-
Le risate
cessarono all’istante, ma il ghigno strafottente di Romanus non si cancellò, anzi, si fece più marcato; non si voltò
nemmeno, ma girò appena la testa, osservando Quintilio Varo con la coda
dell’occhio.
-Vieni con
me, Octavianus-
Romanus si batté le mani
sulle cosce e si mise in piedi, apprestandosi a seguire il generale fuori dal
cerchio di luce. Non senza aver prima mimato ai fanti le dimensioni del naso
dell’uomo, quando questi gli dava le spalle. Le risate che accompagnarono quel
gesto vibrarono nell’oscurità come le corde pizzicate di una lira.
Non appena
furono abbastanza lontani da orecchie indiscrete, Quintilio Varo si soffiò il
naso tra le dita e osservò Romanus con
cipiglio severo.
-Il tuo
comportamento con i Germanici è stato inaccettabile-
-Quei cuori
di cagna non meritano trattamento diverso dal mio-
-Sono
alleati-
-Sono
traditori-
-Chi sei tu
per affermarlo?-
-Chi se tu
per negarlo?-
-Non una parola di più, Imperium!-
A quelle
parole, Romanus gettò la testa
all’indietro, la bocca spalancata in una risata grottesca quanto roca,
l’abbaiare funesto dei cani quando Hecata
compare di fumo e notte ai crocicchi.
-Imperium! Allora ricordi ancora il mio
nome!-
-Che dici?-
-Pensavo
l’avessi dimenticato e mi avessi scambiato per un semplice miles della diciannovesima legione!-
Quintilio
Varo corrugò l’ampia fronte
-Le tue
parole non hanno senso! Non avrei certo potuto chiamarti in tale modo, non davanti
alle truppe! Non davanti ai Germanici!-
-Perché?-
ribatté Romanus fissandolo con un
sopracciglio inarcato –Se tale è la tua fiducia in quei cani, per quale motivo
non rivelargli che l’anima di Roma cavalca al tuo fianco in battaglia?-
Gli occhi
del generale lampeggiarono, la rabbia trasfigurò il suo volto, sciogliendosi
come cera sui tratti decisi e rendendoli grossolani, quasi brutti.
-Non osare
darmi del traditore, Imperium! Giurai
sulla sacra ara di Giove Ottimo Massimo che mai avrei rivelato il segreto! Misi
la mia vita e quella dei miei figli nelle mani del Dio! Versai il mio sangue
sulla Verità!-
La voce gli
tremava e il fiato usciva in rochi rantoli dalle labbra storte; teneva le mani
chiuse a pugno e la vena che gli attraversava la tempia pulsava e sembrava sul
punto di scoppiare; il collo taurino era reso ancora più gonfio dal rossore che
lo incendiava e la saliva si era raggrumata spumosa agli angoli della bocca.
Romanus si avvicinò con un
ghigno, alzò una mano e gli pulì la saliva con un gesto veloce delle dita, poi
scese, lentamente, seguendo la linea della zigomo e delle labbra, fino ad
arrivare al collo. Rimase fermo ad ascoltare il battito impazzito del cuore del
generale, quasi avvertendo sotto i polpastrelli il flusso prepotente del
sangue, quel fiume scarlatto che fluiva al viso e lo tingeva di un rosso
acceso, quello scorrere impetuoso, senza freni, quell’esondazione di rabbia e
vergogna.
Piegò la
testa di lato e ghignò. Le mani si strinsero attorno al collo di Quintilio Varo
con un gesto improvviso.
L’uomo
sgranò gli occhi e cominciò a rantolare, afferrò il polso di Romanus e tentò in ogni modo di
staccarlo dal collo, ma che speranza aveva con le dieci, cento, mille dita di
Roma, di tutto l’Impero che gli serravano il respiro?
-Augusto
fece di te ciò che sei. Se non fosse stato per lui, se non fosse stato per il
matrimonio combinato con la figlia di Agrippa, staresti ancora a trascinarti
nel fango di Roma, con addosso il peso della tua gens persa nell’oblio! Il cursus
honorum, il consolato, il proconsolato in Africa, il legatus pro praetore in Siria, credi che avresti ottenuto tutto
questo con le tue dita lerce? Pensi che saresti diventato governatore della
Germania con quel tuo bel naso dai disgustosi umori?- la stretta si fece più
forte e il volto di Quintilio Varo divenne livido –No, no, mihi dux- il titolo era intriso di sarcasmo e veleno –Roma ha fatto
di te quello che sei. Roma può distruggerti-
Romanus lasciò la presa e Quintilio
Varo cadde bocconi a terra, tossendo e sputando, massaggiandosi il collo e
prendendo aria a grandi boccate –A meno che..- aggiunse Imperium, chinandosi su di lui e dandogli un buffetto sulla guancia
–Tu non ti distrugga con le tue stesse mani-
Romanus si rimise in piedi
e si allontanò; prima di venire ingoiato dal buio si voltò un’ultima volta
verso il generale
-Ma lo giuro
su Giove Ottimo Massimo..Roma..Io
combatterò fino all’ultimo respiro perché ciò non accada. Ho mille occhi, Varo.
Tu solamente due. Scegli se usare solo i tuoi o anche i miei. Da quello
dipenderà il tuo futuro-
Foresta di
Teutoburgo,
Settembre, 9 d.C.
Primo Giorno
Pioveva,
gelide lame che saettavano dal cielo livido di tempesta, accompagnate dal grido
furioso del vento, dai suoi ringhi e dalle sue zanne che abbattevano uomini,
donne e bambini, li facevano cadere nel pantano, disperdevano le unità,
creavano vuoti troppo, troppo vasti perché le truppe riuscissero a difendere
con efficacia la colonna.
Romanus si coprì la bocca
col manto, assottigliando lo sguardo per vedere meglio tra gli scrosci sempre
più forti di pioggia: davanti a sé solo alberi, fusti di nere cortecce contro
il livido orizzonte, dirupi da ogni dove, labirinti di fosse, spaccature sempre
più profonde nel terreno molle, il lezzo degli acquitrini tutt’intorno.
Quintilio
Varo avanzava davanti a Romanus,
chinandosi più volte per evitare un ramo basso e facendosi faticosamente strada
tagliando ed abbattendo gli arbusti che gli intralciavano la via.
Le guide
Germaniche continuavano ad andare avanti, senza più voltarsi indietro,
trascinando il cavallo del generale su sentieri scoscesi, eppure Romanus le vedeva quelle impronte coperte
con cura quasi maniacale, quelle vie che si snodavano tra le radici del
sottobosco, quelle strade che i Germanici non volevano in alcun modo prendere.
La via si
restrinse d’improvviso, il vento, ruggendo, schiaffeggiò Romanus con un odore nauseabondo, insopportabile, vicino, sempre
più vicino.
-Varo!-
gridò, tenendo alta la voce per sovrastare il rombo grave della pioggia –Varo!
Una palude! C’è puzza di palude!-
Il generale
si sporse da cavallo, richiamando a sé le guide, ma quelle continuavano ad avanzare,
incuranti del vento, del freddo. I piedi si muovevano sicuri, troppo sicuri e
veloci e le distanze si allungavano senza sosta. Le truppe si stavano
disperdendo, la coda si spezzava in frammenti sempre più piccoli, e a Romanus sembrava di sentire delle grida
dietro di sé, urla di dolore, di aiuto, ma ogni cosa veniva soffocata dagli
artigli della foresta.
Fu quando
vide il terrapieno e sentì uno squarcio aprirsi senza motivo nel palmo destro e
le urla esplodere come fiamma d’incendio nella testa che capì. Si portò le mani
ai capelli, gridando e tirando le ciocche scure, macchiandole di sangue,
affondando le unghie sulle guance e lasciandovi scie rosse, calde e viscose.
Sentì l’orlo
di Quintilio Varo lacerare il tuono della tempesta e lo strepito delle genti
germaniche nascoste dal vallo, al riparo nella foresta, pronte, in attesa delle
loro prede.
Romanus avvertì qualcosa
colpirgli con violenza la tempia; venne disarcionato e cadde schiena a terra
con un gemito. Nell’abisso di dolore in cui stava affogando vide il pomo della
gladio lampeggiare nella guaina; strinse i denti e allungò il braccio, ma un
peso tremendo si abbatté sul suo polso. Un grido di dolore gli sfuggì dalle
labbra e nella nebbia scarlatta della battaglia incontrò gli occhi feroci di Ariovisto.
Non rideva,
non ghignava. Teneva alta la spada e i capelli biondi rimanevano incollati al
viso, le guance sporche di terra, doveva
essere rimasto troppe ore chino dietro ad arbusto o steso nel fango, le
nocche bianche, tempestate di gocce di brillanti di pioggia.
-Cane!-
ruggì Romanus piegando il collo in
avanti, digrignando i denti come una bestia –Cane! Cane che mordi la mano che
ti ha nutrito!-
Gli occhi
azzurri di Ariovisto baluginarono ed
il lampo s’infranse d’oro alle spalle: la luce fredda della saetta lo circondò
con braccia incandescenti, lo avvolse con ali d’aquila bianca, lo incoronò di
gemme liquide di pioggia, rese ancora più splendenti dal tremore del tuono.
Romanus sentì il gelo
della sconfitta invadergli le membra: piaghe rossastre si aprivano in ogni dove,
vomitava sangue dalla bocca, il cuore trafitto dieci, cento, mille volte, le
carni lacerate dal ferro ghiacciato, occhi strappati con ferocia dalle orbite,
la gola tagliata, e moriva, moriva per vivere e morire ancora, il polso
bloccato dal piede di Ariovisto ed i
suoi occhi d’inverno resi ancora più freddi dai lampi che vi si infrangevano,
come su di uno specchio d’acqua.
E ancora un
fulmine e la fronte bionda incoronata dalla sagitta di Giove, intrecciate alle
foglie di un Dio senza nome.
Due divinità
sancivano la vittoria di Ariovisto.
Due divinità
decretavano la sconfitta di Romanus.
Foresta di
Teutoburgo,
Settembre, 9 d.C.
Secondo Giorno
-Verso Castra Vetera- ripeteva Quintilio Varo
–Verso Castro Vetera-
Cosa si
aspettava? L’aiuto di Asprenate? Già troppo sarebbe stato vedere le acque del
Reno bagnare l’orizzonte e stendersi grigie oltre la fitta macchia di alberi!
Romanus si portò una mano
al petto, perdendo la presa sulle briglie e scivolando sul collo del cavallo;
con occhi vacui osservò le foglie venir schiacciate con un crepitare
crocchiante dagli zoccoli dell’animale. Una dopo l’altra, rosse come fuoco,
scarlatte di sangue, visi distrutti percorsi da vene recise, tutte schiacciate,
senza un nome, piaghe prive di futuro.
Con le dita
scivolose per il sangue afferrò la criniera del cavallo e cercò di rimettersi
composto, ma una fitta atroce al petto lo fece desistere.
Ariovisto lo stava uccidendo
ogni corpo trafitto di più: lo vedeva dietro le palpebre chiuse, nei turbinii
del vento, nel cadere delle foglie, nell’incedere logoro delle truppe
stravolte, sentiva il suo fiato sul collo, la sua spada conficcata nel fianco,
la voce rude che ringhiava di morte e libertà al suo orecchio.
E Arminio
gli era accanto, veloce nella selva, silenzioso, terribile. I suoi uomini
facevano strage della gente di Roma, non avevano pietà. E Romanus moriva ogni volta, si accasciava con un sospiro macchiato
di sangue sul collo del cavallo e lasciava cadere le braccia, il mantello di
porpora ormai a brandelli.
Qualche
volta alzava lo sguardo su Quintilio Varo e lo vedeva curvo, stretto nelle
spalle, gli occhi sfuggenti, che non osavano posarsi sui fanti e i cavalieri,
stretti in quegli angusti sentieri, sfiancati dagli assalti sempre più
frequenti dei Germanici. Mormorava di Castro
Vetera di Asprenate, si tormentava le mani ed il naso, soffiava fiato
gelido tra le labbra pallide, pregava gli Dei e li malediva, incapace di
scegliere una via, di trovare un sentiero, lì, in quella foresta di nebbia e
sangue, dove ogni albero era uguale al seguente ed una gabbia di rami li
soffocava in un intricato labirinto senza via di uscita.
Ancora un
soldato ucciso e Romanus inarcò la
schiena con un grido straziante; cominciò a battersi la faccia coi pugni, per
superare il dolore con altro dolore ancora più tremendo, ma se avesse
continuato in quel modo, che altra sofferenza avrebbe dovuto trovare per non
sentire più la morte avvinghiarsi di fuoco alle sue ossa e al suo cuore? Forse
tagliarsi il braccio? Recidersi le vene delle ginocchia? Cavarsi gli occhi?
No, nulla
sarebbe stato più tremendo che il corpo di un bambino che cadeva a terra senza
vita, le piccole braccia rotte e il ventre che vomitava viscere dall’orrendo
olezzo! E nessun dolore avrebbe mai superato quello di una donna violata dai
barbari, da quei denti che mordevano i loro colli peggio dei cani di strada
quando si avventano su un pezzo di carne!
Le lacrime
cominciarono a scorrere sul viso di Romanus.
E la corona di saette di Ariovisto si
rifletteva brillante su ognuna di esse.
-Mi dicesti-
lo raggiunse la voce tremula di Quintilio Varo –Che avevi mille occhi per
guardare lontano. Che vede ora il tuo sguardo, Imperium?-
-Morte..-
rispose quello con un sibilo gorgogliante –E Marte..che pone sulla fronte di
Arminio..una corona di teschi-
Il generale
rimase in silenzio per alcuni istanti, poi continuò
-Sai invece
cosa vedono i miei occhi?-
-Cosa?-
sussurrò flebile Romanus, le palpebre
pesanti, l’animo svuotato di ogni forza
-La spada.
Ed il mio cuore che ne viene trafitto-
Foresta di
Teutoburgo,
Settembre, 9 d.C.
Terzo Giorno
Correva
contro il vento e la pioggia, contro i lampi che esplodevano alle sue spalle,
incespicando nel fango, cadendo bocconi sul terreno molle e rialzandosi
sospinto dal vento furente, dal ruggito divertito di Ariovisto che gli aveva indicato con le dita macchiate del sangue
di Roma la via per tornare in patria.
Le lacrime
scorrevano, stille scarlatte sul volto imputridito, cadevano nel fango,
scivolavano nella bocca aperta in un ansimo morte, a violare le labbra livide
di freddo e sconfitta, pallide di debolezza, di gelo. Le mandi si tendevano
verso la via inoltratasi fra gli alberi e le ginocchia cedevano ad ogni passo,
si trascinava privo di ogni qualsivoglia volontà, il ventre trapassato da ferro
e da fiamme, gli occhi ciechi di dolore e nebbia, nebbia di sangue e pioggia di
lame, il cuore sfiancato e accasciato contro le costole rotte, piegate dal
piede e dalle mani callose di Ariovisto.
Aveva
provato sì, aveva provato a trafiggersi il petto col gladio, affrontando con
onore la sconfitta, ad aprire col filo scintillante uno squarcio infinito, dal
collo al ventre, ma invece di sangue e viscere erano fuoriusciti bianchi teschi
urlanti, orbite vuote e nere, ancora incrostate di pelle marcescente, i denti
staccati, rivoli di sclera e bulbi sugli zigomi scoperti.
Aveva visto
Quintilio Varo trafiggersi il petto con la propria spada, Numonio fuggire e
morire da cagna, tra il fango e le ossa spolpate delle truppe e Celio, il
giovane Celio fracassarsi il cranio con le catene dei Germani, ed il volto di Ariovisto, sempre impassibile, spezzarsi
di fronte a tanto valore e coraggio e capire, forse, forse capire quanto onore
vibrava con voce eterna di clangori di spade in quel sangue che gli incrostava
i capelli biondi.
Cadde
esausto, dopo giorni, o ore o settimane di corsa, cadde esausto ai piedi di
Augusto, il princeps dal viso terreo
e l’espressione stravolta, ed esalando un rantolo, un respiro gelido, annunciò
la sconfitta Variana, le lame sepolte dalle foglie scarlatte delle fronde di
Teutoburgo.
E gli si
palesò nuovamente, nello splendore livido dell’incubo, il corpo di Ariovisto, avvolto dal bagliore del
lampo, sulla fronte una corona intrecciata di foglie e saette, e la spada in
pugno, un mantello d’ali d’aquila sulle spalle possenti, i piedi fasciati in
sandali di radici che premevano sulla gola squarciata di una lupa dal manto
scuro.
Due divinità
avevano sancito la vittoria di Ariovisto.
Due divinità
avevano decretato la sconfitta di Romanus.
Varo! Varo! Rendimi
le mie legioni!
~*~
Note
Finali:
-Cursus
Honorum: ordine sequenziale degli uffici pubblici in epoca romana.
-I fazzoletti in epoca
romana non esistevano. Era quindi del tutto naturale soffiarsi il naso
direttamente fra le dita.
-Hecata, o Ecate, divinità notturna,
altra forma di Artemide/Diana. Evocata spesso nei rituali di magia, la sua
presenza era annunciata dall’abbaiare dei cani. Era la dea dei Crocicchi.
-Il Tempio di Giove Ottimo Massimo era il
tempio più importante dedicato alla divinità.
-Si dice che l’ultima frase sia
stata pronunciata da Augusto non appena ebbe avuto notizia della sconfitta di
Teutoburgo.