Spero vi piaccia almeno un po' e che lascerete qualche recensione *-*
Entrò in
casa e si sbattè la porta alle spalle, furiosa.
Non c’era nessuno, suo fratello era ancora al lavoro, il
silenzio regnava sovrano tra quelle mura.
Camminò a passo di marcia verso la sua camera, mentre si
toglieva bruscamente la giacca di dosso, e una volta chiusa dentro la
sbattè sul letto e ci si gettò a capofitto pure
lei, stesa a pancia ingiù, con la faccia immersa nel
cuscino. Vi soffocò un urlo di rabbia, ma non le
bastò; poco dopo, le lacrime iniziarono a scorrerle sulle
guance, rigandole di matita nera e sporcando anche la federa.
Era stanca, stanca e demoralizzata. Stanca, demoralizzata e furibonda.
Aveva lasciato tutto, la scuola, gli amici; si era trasferita in
quell’appartamento a Greenwich Village piena di speranze,
aggrappata al suo sogno che credeva che in una città come
New York si sarebbe realizzato con un semplice schiocco delle dita.
In fondo non era un sogno irraggiungibile, anzi… credeva che
fosse più che modesto, in confronto alle grandi aspettative
che aveva sentito in quel quartiere di artisti. Il suo unico, grande
sogno: vivere di musica, ciò che amava con tutta se stessa.
E invece no, non stava andando proprio come si era aspettata. E pensare
che dopo la firma di quel contratto discografico con l’Arista
Records le era sembrato che il mondo della musica si fosse aperto solo
per lei! Ora la fredda New York non le sembrava più il
paradiso per cui aveva discusso molte volte coi suoi genitori, fino a
quando non avevano ceduto e l’avevano incoraggiata a
trasferirsi lì. Stava provando sulla sua pelle quello che
non si sarebbe mai immaginata e che aveva negato con ostinazione prima
della partenza e durante i primi mesi lontana da casa: la nostalgia, la
solitudine e lo sconforto, la paura di non farcela e di aver sbagliato
a lanciarsi così in quel mondo più grande di lei.
E di certo quegli invadenti degli autori non l’aiutavano,
mettendole pressioni su pressioni.
Da quanto tempo era che non si svagava un po’ con dei ragazzi
della sua età? Per quanto aveva sopportato gli autori che
provavano e riprovavano imperterriti a fare il suo
lavoro?
Sentì la porta di casa aprirsi dopo una mandata di chiave.
«Avril!?», la chiamò suo fratello
Matthew dall’ingresso.
La ragazza saltò giù dal letto e lo
guardò fermandosi in mezzo al corridoio. Pochi metri li
dividevano, ma preferirono scrutarsi da lontano, per capire come
prendersi a vicenda.
«È andata male anche oggi, vero?», le
domandò lui, con un sorriso amaro sulle labbra.
«E a te pure, vero?», gli chiese lei con lo stesso
tono comprensivo, anche se la sua voce era ancora un po’
nasale a causa del pianto.
Solo allora andarono l’uno dall’altra e si
abbracciarono forte. Matt posò il mento sul suo capo e le
accarezzò le spalle, mentre lei aveva incominciato di nuovo
a piangere.
«Glielo dici tu a quei rompipalle che se non riesco a
combinare nulla di nuovo non è perché non ho
voglia, ma perché non ho più alcun tipo di
ispirazione?».
Matt sorrise, le prese il viso fra le mani e gli passò le
dita sulle guance per levarle il trucco sbavato. «Penso di
non poterlo fare. Però magari tu potresti parlare con
quell’inumano del mio capo, potresti fargli paura solo
guardandolo».
Avril ci passò sopra anche i dorsi delle sue mani e poi se
li pulì sui jeans. Alzò lo sguardo sul fratello
maggiore e con tono estremamente serio disse:
«Scappiamo?».
Lo fece ridere, una risata leggera che stava a simboleggiare un
“sì” che arrivò qualche
istante dopo: «Preferirei dire a mamma e papà che
ci siamo presi una vacanza».
La ragazza sorrise raggiante e gli gettò le braccia al collo
per soffocarlo in un abbraccio.
«Tesoro!
Oh, tesoro!». Sua madre l’abbracciò e la
strinse forte a sé, accarezzandole i capelli sulla nuca.
Avril sorrise col viso contro la sua spalla e respirò il suo
profumo così buono: era bello essere di nuovo a casa.
«Papà?», domandò suo fratello
Matt, guardando la madre.
«Dovrebbe arrivare a momenti», rispose con un
sorriso. «Com’è andato il viaggio? Siete
stanchi? Avete fame?».
«No, mamma, stiamo bene», Avril
ridacchiò, divertita da tutte quelle premure: vivendo da
sola con suo fratello si era in un certo senso dimenticata
dell’enormità di attenzioni che la loro mamma gli
aveva sempre riservato.
«Matt! Avril!».
I due ragazzi si girarono verso il corridoio che portava alle camere da
letto e videro Michelle, la loro sorellina, corrergli incontro con le
braccia aperte, pronta a gettarsi sopra di loro. E in effetti fu quello
che fece, catapultandosi nell’abbraccio del suo fratellone.
«Mi siete mancati così tanto!».
«Anche tu ci sei mancata», esclamò
Avril, quando fu il suo turno per gli abbracci.
«Dovevi andare da qualche parte?»,
domandò la sorella maggiore, guardando
l’abbigliamento non casalingo di Michelle.
«Sì, mamma mi doveva accompagnare al centro
commerciale! Stasera devo andare ad una festa e non so proprio cosa
mettermi… Visto che sei qui potresti accompagnarmi
tu!», gridò con gli occhi brillanti, artigliandosi
al suo braccio.
«E va bene», ridacchiò.
Le due sorelle uscirono di casa e si diressero al centro commerciale.
Avril si sentiva bene, era felice di essere tornata a casa dalla sua
famiglia, aveva come la sensazione di essere protetta, lontana da quel
mondo “da grandi” in cui aveva vissuto fino al
giorno prima, a New York.
Ma quella felicità venne spazzata via in un attimo, quando
incontrò uno dei suoi più cari amici, se non
proprio il migliore, in un negozio di abbigliamento. Appena
l’aveva visto con la ragazza più smorfiosa della
scuola il suo umore era decisamente crollato, ma sua sorella
l’aveva spinta ad andare a salutarlo comunque.
Avril gli andò incontro con passo incerto e quando ormai
c’erano solo pochi metri ed un cesto di capi scontati a
dividerli, lui alzò lo sguardo e la vide.
La ragazza ebbe subito la forte tentazione di fuggire da quello
sguardo, ma la sua coscienza le disse di non fare la fifona e la
trattenne lì.
Erano soltanto pochi mesi che non si vedevano, ma sembravano passati
anni.
Alzò la mano in segno di saluto e sorrise in modo
impacciato. «Ciao».
Dennis la fissò con sguardo cauto, come se avesse paura di
fare una gaffe, e imbarazzato. «Abbey?».
Avril socchiuse gli occhi ai ricordi che quel soprannome le riportava
alla mente, tra cui la discussione che avevano avuto giusto prima che
lei partisse.
«Ma sei sicura di
voler andare?», le chiese l’amico, seduto sul suo
letto.
«Mai stata più sicura di
così», ribatté Avril, intenta a
preparare le valige.
Domani sarebbe stato il grande giorno, avrebbe lasciato quella
cittadina di pochi abitanti e si sarebbe trasferita a New York per
rincorrere il suo sogno di diventare una cantante e vivere di musica.
Dennis sospirò, rammaricato. «Non ti facevo
così, Abbey».
Avril si girò e lo guardò negli occhi,
notò il suo viso contratto in un’espressione dura,
quella che sfruttava quando era triste e non voleva farlo vedere. Ma
lei lo conosceva troppo bene, non poteva nasconderle nulla…
o almeno così credeva.
«Così come?», gli domandò,
confusa.
«Così egoista».
«Che… che cosa?», balbettò,
incredula a dir poco. Lei, egoista? Perché? Che cosa aveva
fatto?
«Non dirmi che trasferirti così da un giorno
all’altro a New York non sia egoista da parte tua.
Perché è proprio necessario il trasferimento?
Cosa c’è là che qui ti
manca?».
Avril non riuscì a staccare gli occhi da lui nemmeno per un
attimo, lo ascoltò più attentamente che
poté, ma i suoi discorsi… non li capiva.
Non ne avevano già parlato del perché? Non era
stato contento per lei? Non si erano promessi di rimanere amici
comunque? Perché da un giorno all’altro sembrava
aver messo tutto di nuovo in discussione?
«Lo sai benissimo che a New York non avrei distrazioni, mi
concentrerei di più sul mio lavoro… È
la mia grande occasione, non posso buttarla nel cesso».
L’amico si alzò e si infilò le mani
nelle tasche, guardandola negli occhi con sguardo affilato.
«Quindi è solo per questo? Solo perché
non penseresti ad altro che a lavorare?».
«Beh… sì. E poi non vedo appunto che
cosa cambi, qua o là. Ho qualche motivo in particolare per
restare qui?».
«Sì, ce l’hai», rispose con
serietà e si avvicinò a lei, che tutto ad un
tratto si irrigidì; posò le mani ai lati del suo
viso e sussurrò: «Me».
Avril boccheggiò, presa alla sprovvista, e Dennis
continuò: «Non partire, Abbey. Resta
qui».
«Io… non posso», mormorò con
le lacrime agli occhi e gli allontanò le mani,
portandogliele sul petto. «Mi… mi dispiace
tanto».
«Vaffanculo», berciò lui ed
uscì da camera sua, e dalla sua vita, sbattendosi la porta
alle spalle.
Avril scosse il capo per estraniarsi da quel flash-back e
tornò a concentrare la propria attenzione sul suo ex
migliore amico, che le chiese:
«Tu… che ci fai tu qui? Non dovresti essere a New
York a quest’ora?». Nei suoi occhi
balenò un lampo di risentimento e la ragazza lo colse al
volo, anche perché le fece piuttosto male, come un ago
infilato nel cuore.
«Sono tornata a casa per stare un po’ di tempo con
la mia famiglia», rispose con un mezzo sospiro.
«Ti… ti trovo bene, hai…
insomma…», accennò con la testa in
direzione dei camerini, dove allora si trovava la sua nuova ragazza.
«Oh, lei», annuì, quasi come se volesse
convincere anche se stesso di avere una relazione con una ragazza del
genere: quando lui ed Avril erano amici si divertivano un mondo a
sfotterla e a farle i dispetti a scuola, era il loro passatempo
preferito. «Le cose cambiano», aggiunse guardandola
negli occhi. «E non potevo continuare ad
aspettarti».
«Ora però sono –».
«Orsacchiotto!», gridò con la sua
vocetta stridula la smorfiosa, interrompendo Avril e facendo voltare
Dennis.
«Che cosa c’è?», le
domandò lui con tono un po’ infastidito.
La smorfiosa intercettò lo sguardo di Avril e la
fulminò, per poi appiccicarsi come un polipo al suo ragazzo,
facendo le moine. «Volevo solo farti vedere come mi sta il
vestitino che voglio comprarmi…».
«Lo sai che non ne capisco nulla di queste cose»,
sbuffò.
«E dai, non farti pregare!», piagnucolò
come una bambina. Il ragazzo fu costretto a cedere.
«Adesso devo andare», disse alla sua ex migliore amica.
«Stammi bene». Non le rivolse nemmeno
l’accenno di un sorriso e si allontanò dandole le
spalle, in maniera più silenziosa della prima volta, ma
forse ancora più dolorosa.
Non era felice, glielo aveva letto negli occhi, quegli occhi che non
erano più belli e luminosi come quando lo aveva conosciuto
ed erano ancora amici, ma spenti e tristi. La consapevolezza che una
parte di colpa ce l’aveva anche lei, se non la maggior parte,
le faceva malissimo.
Tornò dalla sorella e le chiese se se ne potevano andare
– le era già passata la voglia di stare chiusa
lì dentro – ma forse Michelle aveva trovato
qualcosa di carino da prendere e voleva provarselo. Costrinse Avril a
seguirla e ad entrare nel camerino con lei e fu proprio allora che la
quasi cantante ricevette la batosta più grande,
perché Dennis e la sua nuova ragazza erano del camerino
accanto a farsi comodamente i fatti loro ed intanto parlavano di lei.
«Ma quella era la ragazza di cui mi hai parlato una volta?
Quella che ha preferito trasferirsi a New York per il suo sogno
invece di restare con te?».
«Sì», ansimò il ragazzo,
mentre la ragazza contro di lui faceva lo stesso riuscendo pure a
conversare.
«E che ci faceva qui?».
«È venuta a trovare i suoi».
«Sì, certo… ti avrà detto
così, ma secondo me quella fallita non è riuscita
a concludere un bel niente a New York, anzi, l’hanno
rispedita qui con un calcio in culo».
«Non sai un cazzo, stai zitta».
«Ah, orsacchiotto, piano… Non essere arrabbiato
per quella, lo sai che tu ti meriti solo il meglio, cioè
me».
«Chiudi quella bocca ti ho detto».
Avril, che aveva ascoltato tutto nel camerino affianco, aveva iniziato
a piangere senza nemmeno rendersene conto, ma presto le lacrime di
tristezza si trasformarono in rabbia e nervosismo, tanto che
iniziò a prendere a calci la parete di legno che comunicava
con il loro camerino, dando della puttana alla smorfiosa, fino a quando
sua sorella non la trascinò via da lì, prima che
finisse male.
Lo shopping di Michelle fu un completo disastro, perché
viste le condizioni di sua sorella aveva preferito evitare di entrare
in qualche altro negozio, così erano tornate a casa, a mani
vuote l’una e col cuore spezzato e la fottuta sensazione di
essere proprio una fallita
l’altra.
Quando sua madre passò a raccogliere i piatti vuoti, il suo
era ancora quasi del tutto pieno.
La donna si fermò al suo fianco e le accarezzò i
capelli con sguardo apprensivo.
«Tesoro…».
Avril non volle ascoltare un’altra parola, si alzò
e corse nella camera che condivideva con la sorella prima di scoppiare
a piangere di fronte a tutti.
Il suo fu un pianto liberatorio, che le alleggerì il petto,
ma non la aiutò a scacciare tutte le preoccupazioni e le
paure che aveva creduto di dimenticare una volta a casa, tornate a
vivere dentro di lei più forti di prima.
Dopo un po’ di tempo qualcuno bussò alla porta,
lei non rispose, ma sua madre entrò comunque. Si mise seduta
al suo fianco, sul letto, e la guardò con un sorriso dolce
sulle labbra, mentre si stringeva le gambe al petto e tirava su col
naso.
«Perché sorridi?», le chiese la figlia,
sorpresa da quanto quell’incurvamento di labbra potesse
essere bello, tanto da sconvolgere, da far sentire meglio.
La madre posò una mano sulle sue e gliele strinse,
avvicinandosi un po’ di più, in modo tale che
potesse parlare a bassa voce. «Sai che cosa facevi sempre da
bambina, quando le cose non andavano bene e piangevi?».
«Che cosa?».
«Ti nascondevi nell’armadio».
Darlin,
you’re hiding in the closet once again
Start smiling
Avril
rimase sorpresa da quell’affermazione, se fosse stato un
altro momento probabilmente non le avrebbe creduto, ma dentro di
sé sentì come una specie di… emozione,
un ricordo tanto intenso da farle sentire il profumo dei vestiti appena
lavati misto a quello del legno del vecchio armadio in camera dei suoi
genitori e il cotone dei vestiti di sua madre che le solleticava il
viso e che qualche volta usava per asciugarsi il viso dalle lacrime.
«La prima cosa che ho pensato quando ti sei alzata da tavola
in quel modo è stata: “Adesso vado in camera, apro
le ante dell’armadio e la vedo lì, proprio come
quando era piccola”».
Avril incrociò lo sguardo e il sorriso tenero della madre e
si appoggiò a lei per rifugiarsi in uno dei suoi abbracci.
La donna la strinse a sé, posando le labbra sul suo capo, e
le massaggiò un braccio. Poi, sospirando, disse:
«Ne vuoi parlare?».
«Mi piacerebbe», rispose con la sua voce ancora
nasale.
«Ti ascolto…».
«È così difficile, seguire i propri
sogni… Mi chiedo se alla fine ne valga veramente la pena.
Fino ad adesso a New York non ho combinato un bel niente,
io… forse non ce la faccio, pretendo troppo da me stessa,
forse…».
«Tesoro, mi sorprendi», sorrise. «Quando
ti sei trasferita a New York eri così positiva, volevi
cambiare il mondo con la tua musica… Lo so che è
difficile, che a volte sembra più semplice fuggire,
ma… bisogna sempre guardare avanti, al futuro,
perché il domani non mai è uguale a ieri. Non
importa quanto sia stata dura andare avanti oggi, bisogna guardare al
domani ed essere pieni di energie, perché sarà
sicuramente diverso e le cose miglioreranno, prima o poi».
I
know you’re trying real hard not to turn your head away
Pretty darling
Face tomorrow, tomorrow’s not yesterday…
«E
se non ce la faccio? Se mi dimostro una vera fallita?».
La madre le prese il volto fra le mani e la guardò
intensamente negli occhi. «Tu, una fallita? Posso sapere chi
ti ha inculcato queste cose? Perché deve per forza essere
stato qualcuno, tu non avresti mai detto una cosa del genere».
Avril abbassò il capo e tirò su col naso, poi
mormorò: «Ti ricordi di Dennis?».
«Dennis? Certo che mi ricordo di lui… è
stato lui a dirti che sei una fallita?».
«No… la sua nuova ragazza, la più
smorfiosa della scuola. Non avrei mai immaginato che
potesse… Lui non è felice con lei,
eppure… ha preferito stare con lei, si è
accontentato, piuttosto che aspettarmi. Forse dovrei accontentarmi
anche io, dovrei vivere quello che ho adesso e non puntare troppo in
alto…».
«Tesoro, non devi nemmeno dire queste cose! Lo so che
è dura quando si ricevono delle delusioni dalle persone a
cui vogliamo bene e che è difficile fare finta di niente; so
anche cosa vuol dire quando ti sembra che nessuno abbia fiducia in te,
ma… sappi che io, papà, Michelle e Matt crediamo
in te e siamo certi che tu ce la farai».
Darlin,
I was there, once a while ago
I know it’s hard to be stuck with people that you love
When nobody trusts
Avril,
non ancora confortata da quelle parole, continuò ad
osservare la trapunta sul suo letto e disse:
«Quand’è che sei stata delusa te?
Quand’è che nessuno aveva fiducia in te? Tu hai
sempre avuto papà al tuo fianco, voi due… siete
sempre stati felici».
«Oh, quanto ti sbagli…»,
ridacchiò. «Tesoro, siamo stati giovani anche noi
e io ne ho passate tante quando avevo la tua età, so per
esperienza quello che ti sto dicendo… E poi non si
può essere sempre felici, anche con tuo padre vicino. Ma
bisogna sempre andare avanti a testa alta e…».
«Sei mai stata sola come lo sono io?». Avril non
riuscì a trattenere un singhiozzo, ma non ne fece un dramma
e continuò: «A parte voi non ho praticamente
nessuno, tutti i miei amici sono spariti da quando mi sono trasferita a
New York, li ho persi per inseguire il mio sogno, persino Dennis. Mi
sono gettata a capofitto nel mondo dei grandi, spinta dalla voglia
di… di fare finalmente quello che amo di più al
mondo, suonare e cantare, ma… ho perso tutti,
sono… sola».
La madre sorrise comprensiva e le posò un bacio sulla
tempia, stringendola un po’ di più a sé
per far riversare sul suo petto le sue lacrime. La lasciò
sfogare per un po’ e quando si calmò si
appoggiò con la guancia alla sua testa e
sussurrò: «Non sei l’unica che ci
è passata, anche io sono stata sola come lo sei tu adesso,
ma… voglio solo che tu sappia che non è colpa
tua, non è colpa tua».
And
you’re not the only one whose been through
I’ve been there alone and now so are you
I just want you to know, want you to know it’s not your
fault, it’s not your fault
«Non
è giusto mamma, non è giusto…
Mamma…». Avril singhiozzò
più forte, si lasciò completamente andare al
pianto, e si aggrappò con le braccia al collo di sua madre,
come faceva da bambina.
La donna provò a consolarla, fece di tutto, le
cantò persino la sua ninna nanna, ma non riuscì a
fare molto.
«Tesoro, per favore… basta piangere, asciugati le
lacrime…».
Pretty
please, I know it’s a drag,
Wipe your eyes and put up your head
Andò
a finire che anche sua madre iniziò a piangere contro di
lei, appoggiandosi alla sua spalla, sentendosi impotente di fronte al
dolore della figlia.
Quando Avril se ne accorse, si fermò un attimo e la
guardò scioccata. Non aveva mai visto sua madre piangere e
anche se l’avesse vista prima, l’effetto sarebbe
stato comunque sconvolgente: quella era la sua mamma,
l’essere invincibile che era sempre pronta ad aiutarla, in
qualsiasi momento e per qualsiasi cosa; quel suo lato debole non
avrebbe dovuto nemmeno esserci, o almeno non di fronte a
lei… In quel momento capì che lei e la sua mamma,
mostrandosi così apertamente l’una
all’altra, avevano appena aggiunto un altro anello, uno dei
più importanti, alla catena indissolubile che le univa.
«Mamma… perché piangi?», le
domandò a bassa voce, tornando ad abbracciarla con
delicatezza, come se avesse paura di romperla.
«Vorrei che tu fossi felice, che ridessi invece di piangere,
ma… non c’è nient’altro che
posso fare oltre ad amarti più che posso».
Wish
you could be happy instead
There’s nothing else I can do
But love you the best that I can…
Avril
fu profondamente colpita da quelle parole e ancora non sapeva che se le
sarebbe portate dietro per molti anni, che si sarebbe aggrappata ad
esse quando le cose andavano male e si trovava a vivere situazioni
difficili.
Ancora non sapeva che per il suo quarto album, l’ultimo dei
suoi grandissimi successi, avrebbe scritto una canzone con le parole
che la sua cara mamma le aveva rivolto per confortarla, facendo
però molto ma molto più…
Avril alzò
lo sguardo sull’immensa folla di fronte a sé e
sorrise felice e commossa, cantando al microfono le ultime
parole:
«Darlin,
you’re hiding in the closet once again. Start smiling».