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Autore: NikOttina    25/04/2011    4 recensioni
Onde nere contro il rosso. Forse era così che mi immaginavo l’amore. Delle onde di irrazionalità che sfioravano il mio cuore, inesorabili, nere, nere come la pece.
Questa è la prima FF che pubblico :) spero vi piaccia. Otty.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Fleur-de-Ly, Pierre Gringoire
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Rouge et Noir

 
Dalla finestra del balcone della mia casa si vedeva Notre Dame.
Ricordo ancora com’era spaventosa e splendida la cattedrale che si stagliava contro il tramonto di quel giorno. Il giorno in cui è cambiata tutta la mia vita.
Il sole che stava scendendo, rosso come il sangue, tingeva il mondo di un colore irreale. La cattedrale si era fatta rosea e splendeva contro la magia di quel cielo disfatto e cruento.  Mi mancò l’aria: sentivo quei colori intensi come una lama conficcata dritta nel mio cuore. Mi appoggiai violentemente alla ringhiera cercando di recuperare fiato. Inspirai a fatica. Quel tramonto, quelle sfumature mi avevano colta di sorpresa. Ora, però, davanti a me vedevo solo il biondo slavato dei miei capelli. Mi rialzai appoggiando i gomiti alla ringhiera, protesa sulla piazza. Rigirai fra le mie mani candide una ciocca di capelli gialli e stopposi. Odiavo quel colore, avrei fatto di tutto per nasconderlo.
Fino a quel momento, la mia esistenza era stata totalmente priva di significato. Ero una ragazza nobile e benestante che seguiva le regole e l’etichetta. Stavo per essere data in
sposa al giovane ed aitante capitano degli arcieri del re di cui credevo di essere innamorata perdutamente. Ero disgustata dalla povertà e dal sudiciume e odiavo il caotico marasma di accattoni e zingari che affollava il piazzale di fronte a Notre Dame.
Ma durante le notti insonni trascorse a rigirarmi nel mio grande letto, un’ insormontabile solitudine  mi soffocava. Sognavo di scappare dal mondo in cui ero nata e vissuta, da quella culla piena di merletti che troppo a lungo mi aveva custodita.
Guardai la piazza gremita di persone che vibrava di vita, di gioia, di lavoro, di divertimento popolare e selvaggio.
Quel giorno, sola nella mia grande casa, un pensiero folle mi attraversò come un lampo il cervello: uscire. Sola, anonima e sconosciuta. Avrei potuto mischiarmi a quella rozza folla di persone in movimento. Avrei potuto vedere le madri sulla soglia che chiamavano i figli, avrei potuto comprare il pane ascoltando i pettegolezzi delle donne sulla piazza. Insomma avrei potuto realizzare il mio desiderio di vivere, almeno un giorno, nel marasma disordinato dei clochard e della plebe.  
Senza pensarci troppo a lungo, per paura di cambiare idea, presi la mia mantellina blu e me la infilai facendo attenzione a nascondere l’orribile colore dei miei capelli sotto il cappuccio. Misi nella tasca una manciata di soldi e, ripetendomi mentalmente “Non ti preoccupare Fleur-de-Lys, tornerai presto e nessuno se ne accorgerà” per farmi coraggio, scesi di fretta le scale oscure del mio grande palazzo.
E così, quasi senza accorgermene, mi trovai nella strada, finalmente parte della vita frenetica e allegra che fino a qualche minuto prima guardavo come spettatrice dal mio balcone.  Un enorme sorriso si dipinse sul mio volto. Anche se mi trovavo spaesata ed estranea, anche se le persone mi urtavano e la strada era dissestata, io ero felice, felice di essere finalmente scesa da quel balcone, di aver respirato per la prima volta l’odore delle persone reali. L’odore dei lavoratori, delle donne, degli accattoni, dei bambini che giocavano si mischiavano creando quello che per me era il profumo più meraviglioso del mondo. Il profumo della libertà.
Gustandomi ogni momento di questa mia dolce evasione camminai verso il centro del piazzale dove un’allegra folla di bambini e curiosi si stava radunando attorno a un accattone che per racimolare un po’ di denaro ballava insieme a una capra. Era goffo e sgraziato. I bambini ridevano e, improvvisamente, risi anche io. Seguivo i movimenti del mendicante come incantata, lasciavo che i miei occhi si impigliassero nei suoi capelli lunghi e neri. Erano come onde del mare che si infrangevano contro quel tramonto troppo rosso. Onde nere contro il rosso. Forse era così che mi immaginavo l’amore. Delle onde di irrazionalità che sfioravano il mio cuore, inesorabili, nere, nere come la pece.
Ero incantata e incatenata. Il mio sguardo non si spostò da quei lunghi capelli neri e sporchi fino a che lui non si voltò.  Due occhi d’un azzurro mozzafiato si incastonarono nei miei. Il tempo era fermo, lo giuro. Tutti erano immobili, nessuno fiatava. Tutti erano paralizzati da quegli occhi, così simili ai miei. Tutti erano annullati da quel fulmine di energia che univa le nostre iridi. E tutti in quel momento sparirono, un deserto senza uomini e fra di noi distanze siderali percorribili in un solo secondo da quello scatto di energia, da quel fulmine che ci aveva unito. Le mie guance erano in fiamme, la gola mi si era seccata e i miei occhi erano pieni di lacrime. Abbassai lo sguardo e sentii quegli occhi sorridenti puntati su di me, sulle mie guance rosse e i miei orribili capelli biondi. Avrei voluto essere diversa in quel momento. Chi ero io rispetto a lui? Niente. Sapevo che ogni fibra del suo corpo era proiettata nell’Infinito, nell’indescrivibile, nel sublime. Mentre io, con i miei pensieri inutili, non ero altro che un guscio vuoto, un corpo senza vita.
Così i suoi occhi azzurri e penetranti come non mai si erano bloccati per quel momento sul mio viso. Sempre più rossa in volto abbassai gli occhi e fissai le mie scarpe: sentivo ancora quel suo indecifrabile sguardo inchiodato sul mio volto anche ora che mi dava le spalle. Mentre mi scendeva una lacrima lungo la guancia per l’emozione fortissima ed inspiegabile che avevo provato,  mi calzai il cappuccio sulla testa per nascondere ancora di più i miei insulsi capelli stopposi.
Alzai il mio sguardo e rimasi ad osservare i gesti quasi danzanti dell’accattone, beandomi di quei pochi attimi in cui i nostri sguardi azzurrognoli e stellari si incontravano.
Lasciai che il sole scendesse col suo rosso spietato e che a lui si sostituisse l’armonia decadente del crepuscolo con tutte le speranze della notte di Parigi, le parole sussurrate, le risate a squarciagola e le promesse d’amore mai mantenute.
Io rimasi lì, immobile come una statua, in quella piazza che formicolava di vita e di desideri. Continuavo a fissare quel ragazzo e continuai a farlo anche quando salutò il suo pubblico e raccolse i pochi spiccioli che aveva guadagnato. Ero immobile davanti a lui, e lui sapeva bene che i miei occhi non l’avevano lasciato andare neanche un attimo.
Inspirai profondamente e dolorosamente: non volevo che se ne andasse. Non potevo. Dovevo aggrapparmi con tutte le mie forze a quelle sensazioni di libertà e vitalità che mi legavano in maniera misteriosa ed incomprensibile a quell’uomo,  ai suoi occhi, ai suoi capelli, al suo modo danzante e disordinato di muoversi. Raccolsi tutto il coraggio che avevo e mossi piccoli passi verso di lui.
Mi guardò e la sua bocca si schiuse in un sorriso luminoso.
Cercando di evitare il più possibile il suo sguardo fin troppo penetrante e seducente, gli parlai: “Ho guardato il tuo spettacolo...” Ero nella più totale agitazione ma tentai di darmi un contegno e continuai: “Sei davvero molto bravo...”
Abbozzai un sorriso: cercavo di sembrare misteriosa e vagamente sprezzante per nascondere la mia agitazione e l’imbarazzante e sconfinata ammirazione che avevo nei suoi confronti.
Lui, alle mie parole, mi sorrise con una dolcezza che rese il suo volto ancora più affascinante. Era uno di quei sorrisi che riempie il cuore, che riscalda l’animo, che ti fa capire davvero cosa significa la parola amore. Con un gesto che mi sembrò infinitamente tenero mi scostò il cappuccio da sopra la testa, per guardare meglio il mio volto.
“Grazie” sussurrò a mezza voce fissandomi dritto negli occhi ma in maniera dolce, rassicurante e quasi paterna.
Gli fui grata di quei gesti e di quella specie di confidenza che era riuscito a stabilire fra di noi: mi misero a mio agio e riuscii ad essere almeno un po’ più naturale con lui.
Si presentò con movenze eleganti: si chiamava Pierre, Pierre Gringoire e, nonostante le apparenze di “sudicio accattone”, era un poeta e un filosofo. I miei occhi si sgranarono di meraviglia e, dopo aver semplicemente detto il mio nome, gli proposi: “Allora, Pierre, ti va di...cenare con me, stasera?”
Con un gesto estremamente teatrale si piegò a baciare il dorso della mia manina bianca dicendo: “Ma certo, dolce madmoiselle Fleur-de-Lys”
Entrambi scoppiammo a ridere di cuore e ci incamminammo nelle tortuose stradine di Parigi.
La notte ormai scendeva bruna tingendo ogni anfratto della città dei suoi colori scuri ed al contempo scintillanti di mille sfumature, di mille colori luccicanti.
Giungemmo, mano nella mano e con il cuore che mi batteva all’impazzata nel petto a una piccola locanda accogliente, popolata da vecchi ubriachi, prostitute e giovani poeti scapestrati. Ci sedemmo l’uno accanto all’altra: iniziò a parlarmi di filosofia e di poesia. Lo ascoltavo estasiata. Le sue parole non erano i vuoti pettegolezzi dei salotti a cui ero così abituata, erano parole vive, parole eufoniche e bellissime. Ogni concetto che usciva da quella bocca sottile, sempre incurvata in un caldo sorriso, era un’opera d’arte.
Gli feci delle domande e lui mi rispose con l’atteggiamento di un benevolo maestro che educa la sua scolara. Improvvisamente il mio stomaco si strinse in una morsa dolorosa: come avrei voluto essere più interessante, come avrei voluto potergli dire della mia vita! Ma... io non avevo vissuto una vita: avevo respirato, avevo mangiato, avevo camminato, avevo parlato, sempre in modo educato e corretto. Non avevo mai sputato per terra. Avevo rispettato regole ferree nella danza ed in ogni mio movimento. Non avevo mai, mai vissuto davvero in quegl’ultimi 15 anni. Solo quel giorno, quel fatidico giorno in cui avevo abbandonato la mia casa per tuffarmi nell’odore della gente comune, nel suo formicolare e mescolarsi, avevo finalmente compreso cosa significava vivere. Pierre continuava a parlare imperterrito di architettura e poesia, ripescando concetti filosofici a destra e a manca e applicandoli ai più svariati episodi ed esempi.
Io lo ascoltavo con gli occhi sgranati. Fino a quel momento non mi ero mai fermata seriamente a riflettere. Rimasi in silenzio, la fronte corrucciata e gli occhi persi nel vuoto. Mi sistemai i capelli dietro le orecchie con aria distratta. Quella ricerca di risposte ma soprattutto di domande all’interno di me stessa, quel nuovo orizzonte che si era aperto nella mia mente, il mondo della poesia e dell’intelletto, mi dava un certo piacere. Avrei ascoltato per ore Pierre e per ore poi mi sarei interrogata instancabilmente sulle sue parole.
Mi stava guardando e mi sorrideva.
“Sei molto bella, Fiordaliso” mi disse “Sei molto bella quando rifletti.”
Il mio cuore ebbe un sobbalzo convulso. Alzai gli occhi e, con le gote rosse come il sole del tramonto e la voce tremante, gli sussurrai uno smozzicato ringraziamento.
Nelle mie orecchie echeggiò la sua risata gioviale e profonda. Risi insieme a lui, contenta di quell’intimità che ci circondava e che ci faceva sentire come se ci conoscessimo da sempre. Lui era tutto quello che sognavo senza saperlo.
Più tardi dopo aver cenato ci ritrovammo in un vicoletto buio e stretto. La notte ci avvolgeva in una dolce solitudine scura che mi faceva formicolare di curiosità ed aspettative. Ci tenevamo per mano e ci scambiavamo alcune parole senza importanza. L’importante, in quel momento, era l’atmosfera che d’un tratto era calata su di noi: speranze, desideri e paure ci stavano rivoltando lo stomaco e il cuore in un’unica stretta di eccitazione.
Sentii la sua mano cingermi il fianco, aderendo perfettamente alla mia persona, e stringermi a lui. Eravamo vicinissimi e soli, nel buio incantato di Parigi. Ci fermammo, così abbracciati l’uno all’altra. Mi voltai verso di lui, tremante, e lasciai che le sue braccia mi cingessero completamente i fianchi. Lo guardai negli occhi, con la bocca socchiusa e col cuore che batteva a mille nel mio petto. Lentamente, in un gesto armonioso e naturale, in un gesto che già si era scritto nel nostro destino nel momento stesso in cui i nostri occhi si erano incontrati nel tramonto per la prima volta , mi alzai sulle punte per trovarmi col mio viso, pallido e scialbo, vicino al suo, profumato di vino e di strada. Le nostre labbra si incontrarono in un bacio lungo come l’eternità. Era un dolce contatto il nostro, un segreto che scaldava il cuore, una gioia nascosta nel profondo dei nostri animi. Una lacrima mi rigò lentamente il viso. Quell’attimo era la cosa più perfetta che potesse esistere. Piano, la sua lingua si fece strada nella mia bocca e il nostro bacio di dolcezza e castità si fece d’improvviso bacio di passione e desiderio. Quando ci staccammo da quel vortice d’emozione, mi guardò con occhi spiritati e mi prese per mano. Iniziammo a correre, ridendo nervosamente, ancora pieni di quell’emozione che ci aveva avvolti per quegli interminabili istanti.
E così, uniti da un legame indissolubile, ci lasciammo inghiottire dalla notte di Parigi, scintillanti di desideri e di stelle.
  
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