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Autore: Afaneia    12/06/2011    3 recensioni
Vi era un profumo dolcissimo nell’aria della stanza, ogni volta che Legolas, scalzo nel cuore della notte, correva a rannicchiarsi nel letto di Gimli, contro il petto robusto del Nano, e gli cacciava i piedi gelidi tra le gambe perché glieli scaldasse.
(seguito di "I capelli di Legolas")
Genere: Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Gimli, Legolas
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Legolas e Gimli.'
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Com’è scritto nell’introduzione, questa storia è il sequel de “I capelli di Legolas” ed è difficilmente comprensibile senza aver letto la precedente. Il mio, insomma, è un modo carino per suggerirvi di leggerla!

Forse sono calata un po’ di livello rispetto a I capelli di Legolas, o forse no, non so. Io ho scritto ciò che volevo scrivere nel modo migliore che ho potuto, e spero tanto che almeno qualcuno legga e mi dia un parere. Sarà un po’ diversa rispetto alla precedente, lascio ai malcapitati lettori l’onere di giudicare. Un ringraziamento speciale a tutti coloro che hanno inserito la precedente tra le preferite/ricordate o l’hanno commentata: Kira_U c h i h a, MadameMina, Amaerize, Ikumi91, Barby_Ettelenie_91, Chiby Rie_chan, Smolly_sev, oOo LaViSvampita oOo, DebbieJ.

Vi era un profumo dolcissimo nell’aria della stanza, ogni volta che Legolas, scalzo nel cuore della notte, correva a rannicchiarsi nel letto di Gimli, contro il petto robusto del Nano, e gli cacciava i piedi gelidi tra le gambe perché glieli scaldasse. Tutte le volte Gimli faceva finta di svegliarsi nel sentirsi infilare improvvisamente tra le ginocchia due piccoli piedi ghiacciati, ma in realtà (anche se non l’avrebbe mai detto a Legolas) a destarlo dal sonno era il profumo di sottobosco e d’ebra fresca che riempiva improvvisamente la camera, sostituendosi al lieve odore d’incenso che caratterizzava la dimora di Elrond.

“Legolas…cosa ci fai qui?”

“Ho freddo, speravo che mi scaldassi un po’.”

“Se tu non girassi sempre scalzo, non avresti tutto questo freddo."

“Dai, ti prego…fammi un po’ di coccole.”

Così Gimli, fingendosi scocciato, si arrendeva a tollerare il gelo di quei piedi elfici e, girandosi nel letto, circondava il corpo di Legolas con le braccia e lo accarezzava piano, discretamente. Legolas gli parlava dolcemente con una voce che pareva un fruscio notturno, molto a lungo, prima di addormentarsi, spesso col volto nascosto nell’incavo del braccio del Nano. Il mattino seguente, svegliandosi, Gimli si beava della serenità dipinta sul volto dell’Elfo addormentato, molle della luce dorata di un novello sole, Talora non osava toccarlo, e lasciava che Legolas si svegliasse spontaneamente. Erano le volte, quelle, in cui Legolas gli appariva meravigliosamente bello ed etereo, quasi irraggiungibile, ed egli non osava toccarlo. Ma vi erano anche delle mattine in cui una luce meno intensa o più sfocata proiettava sul suo volto marmoreo un gioco di luci e ombre che, inspiegabilmente, lo rendeva più terreno e concreto, vivo. Erano le mattine in cui Gimli, non riuscendo a resistere alla tentazione di quel visto perfetto e di quella bocca lucente, lo baciava teneramente.

Ma poi Legolas non voleva mai alzarsi e restava a lungo avvinghiato a Gimli, che gli diceva pazientemente: “Legolas, il sole si sta alzando.”

“E  chi sono io per fermarlo?”

“Nessuno. Ma occorrerà che non siamo ancora qui quando comincerà a scendere di nuovo.”

“Oh Gimli, ti prego, restiamo qui. Abbiamo visto abbastanza orrori da meritare un po’ di riposo e d’amore. Tesoro, sono sereno, finalmente, mi sento in pace dopo tanti tormenti! Lasciami stare un po’ qui con te al caldo. Con te sento che sarei in pace per tutta la vita.”

Una volta, guardando il suo pallido volto elfico illuminarsi di mille sfumature dorate nella luce del giorno, Gimli s’intristì e gli rispose: “Legolas, tu ti accorgi bene che io sono molto brutto.”

Legolas lo guardò incredulo, colpito: era la prima volta che Gimli gli diceva qualcosa del genere. Ma guardandolo negli occhi, pronto a protestare, vide una luce melanconica nei suoi occhi scuri, che prima non gli aveva mai visto, come una specie di consapevolezza interiore, incontrastabile.

“Io non ho badato a questo quando mi sono innamorato di te” gli disse.

“E non pensi che ci baderai, prima o poi, durante tutti gli anni che ci aspettano?”

“No” rispose l’Elfo con decisione.

“Legolas, io invecchierò, diventerò come mio padre. Credi che sarò bello, allora?”

“Non lo so, Gimli, so che non me ne importa!”

Il Nano tacque tristemente per qualche secondo. Poi, scrutandolo fissamente, gli chiese: “Ora, forse, non t’importa. Tra dieci, vent’anni, certo, potrà non importartene. Ma tra sessanta, settant’anni, sarà ancora così?”

“Lo sarà” rispose Legolas semplicemente. “Io sono un Elfo, Gimli, e non sono già più giovane. Ho visto invecchiare molte e molte generazioni, e non ho paura di tale ciclo: noi Elfi non temiamo il giusto e naturale scorrere del tempo. Ho vissuto per tutti questi anni tra creature perfette, incorruttibili e gelide, e ora il freddo che la loro eternità di ghiaccio mi trasmette non lo sopporto più. Io sono diverso dalla mia gente, ho cercato per anni qualcuno di simile a me, qualcuno che fosse vivo, vivo sul serio in questo Mondo freddo e morto in cui dilagava l’Oscurità. E ho trovato te. E ora l’Oscurità è terminata e  io sono con te, ed è con te che vorrei stare per sempre, e non m’importa se diventerai vecchio, brutto o tutto il resto, io so che sei simile a me, se vivo proprio come me, sei tutta la vita che ho sempre cercato…”

Gimli aveva ascoltato queste parole in silenzio, seduto sul letto mentre Legolas era disteso, col capo reclinato in avanti sul petto. Era a petto nudo, e le sue spalle forti parevano curve del peso di una profonda riflessione. Legolas cercò di  toccare la sua schiena, ma Gimli, che non si era accorto affatto del suo gesto, si volse di scatto verso di lui.

“Legolas” disse improvvisamente, come se si fosse appena svegliato, con orrore e angoscia, da un sogno molto profondo. “Legolas, hai mai pensato che io devo morire?”

 

La notte seguente Legolas non andò d Gimli, poiché per tutto il pomeriggio il Nano gli era parso silente e cupo ed egli sentiva di dover riflettere a sua volta su tutto ciò.

Non aveva mai pensato davvero al fatto che Gimli sarebbe morto, e ben prima di lui, a dire la verità. Per lui era sempre stato tutto facile e leggero, solo un gioco scherzoso di baci e carezze. Gli pareva tutto così perfetto da dover necessariamente durare per sempre.

Ma Gimli era mortale quando lui non lo era, e per la prima volta Legolas tornò a sentirsi così come si era sempre sentito: eccessivamente, sgradevolmente perfetto, un Elfo che non era frigido come gli altri, ma che era costretto per sua propria natura a esserlo; come se fosse imprigionato  in un luogo al quale non sentiva di appartenere, ma dal quale non riusciva neanche a scappare.

Quella notte rimase nel suo letto a nascondere sotto il proprio corpo, ripiegandoli, i piedi gelidi, e non riuscì a vagare con la mente tra immagini di sogno: i suoi pensieri erano troppo melanconici per sognare, quella notte.

 

Il mattino arrivò portando con sé nuvole grigie e gonfie che davano un’idea della grandezza del cielo. Legolas si alzò con la testa piena di pensieri confusi e uscì presto dall’edificio, si gettò assetato, avido di verde, nei boschi che circondavano Gran Burrone, vagò  per la mattinata intera riempiendosi gli occhi di verde e di fresco.

Verso mezzogiorno scoppiò un temporale che si rovesciò con grande accompagnamento di tuoni e fulmini sulle campagne circostanti. Era un temporale buono che avrebbe portato frutti, ma Legolas, che avrebbe voluto potervi trovare una catarsi come la terra, non vi riuscì e dovette tornare lentamente sui propri passi verso Gran Burrone. Trovò Gimli seduto in un piccolo terrazzo coperto che dava proprio sull’ingresso e lo raggiunse, scavalcando con un balzo la bassa balaustra in marmo brunito che li separava. Andò di corsa a rifugiarsi tra le sue braccia e Gimli se lo strinse forte contro il petto.

“Dove sei stato tutta la mattina? Ero preoccupato.”

“Ho passeggiato nel bosco, non dovevi preoccuparti. Pensavi che volessi scappare?”

“Sì” ammise Gimli semplicemente.

Legolas gli accarezzò le labbra con la mano e gli disse seriamente, fissandolo negli occhi: “Non voglio scappare.”

Gimli gli baciò la mano e disse, in tono affettuoso di tenero rimprovero: “Senti qua come sei bagnato…”

“Un po’…”

“Vieni, andiamo dentro ad asciugarti e a toglierti questi vestiti bagnati.”

“Lascia, cosa vuoi che mi accada? Non ho freddo , e in ogni caso puoi pensarci tu a scaldarmi.”

Fuori scrosciava una pioggia intensa e fredda il cui suono faceva sognare una coperta calda e un bel fuoco, ma nonostante ciò Gimli rimase a stringersi contro il petto fradicio di Legolas.

“Hai pensato a ciò che ti ho detto?” gli chiese.

“Che cosa?” replicò Legolas con lo sguardo fisso davanti a sé.

“Legolas…”

“Lo so, lo so. Ci ho pensato. Ma…”

Calò il silenzio. D’un tratto, la voce di Gimli chiese nitida e forte.  “Vuoi finirla adesso?”

Legolas si girò pigramente sulle sue ginocchia, si stese supino. Guardava in alto, ma i suoi occhi non vedevano e, abbassando lo sguardo, d’un tratto Gimli si accorse che erano pieni di lacrime.

“Io non so vivere senza di te” disse Legolas con voce infranta. “Non posso lasciarti perché non saprei vivere…ma non potrò vivere neppure quando tu sarai morto e io sarò ancora qui. Sono disperato, Gimli. Non so come fare. Non so cosa pensare. Mi sento costretto in una tremenda contraddizione.”

 

Neppure quella notte Legolas compì il suo solito percorso tra i corridoi di Gran Burrone per rifugiarsi nel tepore del letto caldo di Gimli, ma rimase immobile e insonne tra le proprie coperte, sfatte, tormentate quanto lui. Il mattino successivo non vide Gimli da nessuna parte e il suo cuore ne sentiva la mancanza; lo cercò inquieto per tutto l’edificio, ma una sorta di timore inspiegabile lo tenne lontano proprio dalla sua camera, l’unico luogo dove plausibilmente avrebbe potuto incontrarlo. Era come se sentisse di non dovervi andare, come se avesse paura.

La pioggia benefica e torrenziale del giorno precedente aveva lasciato il posto a un sole tiepido e luminoso e Legolas, il cui cuore era inquieto e incostante quel giorno, scese a far quattro passi fuori, pur senza desiderare di allontanarsi tanto quanto il giorno prima. Sentiva di non volersi allontanare da Gran Burrone.

A un tratto, mentre passeggiava, udì un gran scalpitio di zoccoli in lontananza; era il suono prodotto da un cavallo solo, ma potente, un suono che Legolas ben conosceva…attese, senza sforzare troppo i suoi elfici occhi per venire lontano, che il cavaliere gli giungesse più vicino per poterlo riconoscere.

Gli apparve infine un cavallo bianco di grande stazza, privo di qualsiasi bardatura, sovrastato da un cavaliere grande e bello dai lunghi capelli dorati intrecciati di foglie. Pareva un Elfo giovane , ma non lo era; Legolas, che lo conosceva bene, sapeva che aveva visto trascorrere innumerevoli anni di Uomini.

Gli occhi alteri dell’Elfo si posarono su di lui e lo percorsero interamente. “Legolas…”

“Padre” rispose Legolas, inchinandosi.

 

I due percorrevano ora lentamente, a piedi, un sentiero ombreggiato nel bosco avanzando in silenzio l’uno al fianco dell’altro.

“Cosa ci fai qui?”

“Mi ha mandato a chiamare Elrond, ha detto che voleva che io ti parlassi con te” rispose Thranduil. “E’ preoccupato per te” soggiunse guardandolo.

“Tu non lo sei?” replicò Legolas.

“Un po’” ammise quegli.

Proseguirono ancora un po’ in silenzio senza guardarsi.

“Per che cosa sei preoccupato?”

“Vorrei che tu fossi felice” rispose Thranduil con semplicità. “Io ti amo molto, Legolas. Pensi che un Nano possa renderti felice?”

Legolas tacque, guardando tristemente il terreno.

“Non lo so più” disse.

“Cosa ti turba?” domandò Thranduil con pietà. Legolas rifletté un poco e rispose: “La sua mortalità.”

“A quella, figlio mio, né io, né te potremo porre un rimedio.”

“Lo so, ma…”

Calò di nuovo il silenzio. Dopo un poco, Legolas riprese: “Ti ho deluso, padre?”

Thranduil emise un sospiro profondo che gli gonfiò il petto. Il suo cavallo, che Legolas non aveva più visto da quando era partito per la Missione, pascolava placidamente a pochi metri di distanza da loro. Il cuore di Legolas era pieno d’imbarazzo al pensiero di ciò che gli avrebbe risposto il padre, perciò si avvicinò alla bestia e le rimase accanto, accarezzandone i fianchi morbidi e caldi.

“Come puoi avermi deluso, Legolas, dopo tutto ciò che di grande hai fatto durante la tua assenza?”

“Ma Gimli…”

Dopo un momento, una mano si aggiunse alla sua sul fianco del cavallo. Thranduil ora era accanto a lui e Legolas, chiudendo gli occhi, poteva concentrarsi sul suo respiro.

“Sei sempre stato diverso da me, Legolas, da tutti noi…e non so dirti se fossi migliore o peggiore di noialtri, eri solo diverso, eri…così lontano…”La sua voce s’interruppe un momento, come se egli si aspettasse una replica da parte di Legolas, o almeno uno sguardo. Ma quegli non reagì, gli occhi infissi sul crine bianco del cavallo e il volto impassibile e cupo, allora Thranduil proseguì: “Io ti ho sempre amato tanto, Legolas, ma tu sei sempre stato così distante da me, così perduto nel tuo mondo dietro ai tuoi sogni effimeri e incostanti… credo, malgrado tutto, di non averti mai capito fino in fondo, Legolas. Per questo motivo non sono né deluso, né amareggiato, né arrabbiato… sono solo preoccupato.” E soggiunse a bassa voce, prendendo con la mano il mento di Legolas per costringerlo a guardarlo: “Non vorrei saperti infelice.”

Legolas si morse le labbra. I suoi occhi erano colmi di lacrime ed egli, forse per vergogna, li volgeva lontano da quelli del padre.

“Mi sento come se lui fosse tutta la mia felicità” disse piangendo “E so che in un modo o nell’altro dovrò perderlo e da allora sarò infelice, che sia ora o tra cinquanta, sessant’anni… mi sento tanto triste, padre. Vorrei morire con lui, ma sono stato generato immortale. Ecco, mi sento mortale in un corpo immortale, mi sento come mi sono sempre sentito. Oh, padre, vorrei che tu potessi aiutarmi…”

Thranduil non aveva nulla da dirgli, ma i suoi occhi erano pieni di compassione, mentre egli accarezzava piano i pallidi capelli di quel figlio angustiato e infelice, provando dentro di sé una profonda tristezza. Dopo un poco, Legolas proseguì:  “Non mi senti affatto come voi, non mi sento fatto come voi... che brutta disgrazia sentirsi continuamente, per tutta la vita dalla parte sbagliata! E ora che ho trovato la parte giusta, un po’ di serenità, finalmente…decidere se avere un po’ di tregua, un po’ di felicità per poco, per poi tornare a un tormento ancora maggiore, o continuare a patire per tutta la vita di questo disagio inguaribile, ma solo…”

Thranduil si sentiva profondamente impotente. Quanto avrebbe voluto potergli concedere un po’ di pace, la mortalità, poiché Legolas sembrava desiderarla tanto ardentemente…”

“Legolas” gli disse “Vorrei tanto saperti aiutare in altro modo, che con il mio affetto solamente…”

“Devo decidere da solo” disse Legolas. Appariva più calmo, ora, e non gli tremava più il mento come quando Thranduil lo aveva toccato, ma i suoi occhi erano ancora lucidi e tristi. “Si è sempre soli quando bisogna decidere, dopotutto.”

“Desideri che resti?”

“Preferirei essere solo” mormorò Legolas dopo un attimo di silenzio. “Non vorrei cacciarti, padre, ma… bisogna che scelga da me.”

Allora Thranduil salì di nuovo sul suo cavallo bianco. Legolas non si mosse, ma rimase immobile accanto alla bestia, lo sguardo a terra.

“Qualunque cosa accada, Legolas” gli disse “che tu scelga lui ora, o qualcun altro tra qualche tempo…qualunque cosa accada, spero che sia in grado di capirti, di partecipare di te più di quanto io non sia riuscito a fare in tutti questi anni. Mi auguro davvero che il tuo cuore possa trovare pace in questo Mondo, Legolas.”

 

Quel pomeriggio riprese il temporale torrenziale iniziato il giorno prima, e nel primo pomeriggio un concerto di pioggia scrosciante e tuoni si rovesciò su Gran Burrone. Nonostante il frastuono, era un sollievo per l’animo di Legolas quello spettacolo tormentato del cielo. Se ne sentiva appagato.

L’inizio della pioggia lo aveva sorpreso sotto un albero, immobile nel luogo in cui suo padre lo aveva lasciato, mentre si torceva le lunghe mani senza scopo. Sarebbe volentieri rimasto lì, egualmente immobile, se la pioggia non fosse scrosciata più intensa fino a diventare, nel giro di pochi minuti, un temporale cupo e tempestoso che percuoteva con forza il suo volto e il suo corpo, ormai completamente fasciato dalla leggera tunica bagnata. Alla fine, a malincuore, egli dovette alzarsi e avviarsi verso l’edificio.

All’inizio aveva camminato a passi lenti, distratto, coll’animo intento a ben altro. Ma poi, a poco a poco, egli si era sentito prendere da un’inspiegabile terrore, da un’angoscia insopportabile, dall’ansia di aver poco tempo… Per questo motivo, a poche centinaia di metri da Gran Burrone, egli spiccò una corsa folle e immotivata, e non cessò di correre: entrò nell’edificio come una folata di vento e percorse come un tornado corridoi e scale arroccate, urtando stipiti e mobili, travolto com’era lui stesso dai suoi propri pensieri.

Entrò nella camera di Gimli aprendo la porta come un riscontro di vento. Si fermò sulla soglia col petto anelante che chiedeva aria e percorse lentamente la stanza con gli occhi stanchi, chiudendo la porta dietro di sé.

“Legolas…” disse Gimli colto alla sprovvista, stupito, impacciato, imbarazzato. Ora era in piedi davanti a lui, gli occhi infissi sul suo corpo affannato e molle di pioggia, sul suo petto anelante che andava su e giù, allo stesso ritmo del suo respiro ansimante. Ma l’Elfo non rispondeva. “Legolas…che succede?”

“Forse per la tua morte precoce devo vivere solo?” gridò Legolas infine, con voce straziata, ma finalmente decisa e libera da tutta quell’angoscia straziante…

E Gimli si gettò tra le sue braccia e lo baciò, con tutto l’amore bruciante che la sua anima mortale poteva provare.

 

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