Com’è
scritto nell’introduzione, questa storia è il
sequel de “I capelli di Legolas”
ed è difficilmente comprensibile senza aver letto la
precedente. Il mio,
insomma, è un modo carino per suggerirvi di leggerla!
Forse
sono calata un po’ di livello rispetto a I capelli di
Legolas, o forse no, non
so. Io ho scritto ciò che volevo scrivere nel modo migliore
che ho potuto, e
spero tanto che almeno qualcuno legga e mi dia un parere.
Sarà un po’ diversa
rispetto alla precedente, lascio ai malcapitati lettori
l’onere di giudicare.
Un ringraziamento speciale a tutti coloro che hanno inserito la
precedente tra
le preferite/ricordate o l’hanno commentata: Kira_U c h i h
a, MadameMina,
Amaerize, Ikumi91, Barby_Ettelenie_91, Chiby Rie_chan, Smolly_sev, oOo
LaViSvampita oOo, DebbieJ.
Vi era un profumo dolcissimo
nell’aria della stanza, ogni volta che
Legolas, scalzo nel cuore della notte, correva a rannicchiarsi nel
letto di
Gimli, contro il petto robusto del Nano, e gli cacciava i piedi gelidi
tra le
gambe perché glieli scaldasse. Tutte le volte Gimli faceva
finta di svegliarsi
nel sentirsi infilare improvvisamente tra le ginocchia due piccoli
piedi
ghiacciati, ma in realtà (anche se non l’avrebbe
mai detto a Legolas) a
destarlo dal sonno era il profumo di sottobosco e d’ebra
fresca che riempiva
improvvisamente la camera, sostituendosi al lieve odore
d’incenso che
caratterizzava la dimora di Elrond. “Legolas…cosa ci
fai qui?” “Ho freddo, speravo che mi
scaldassi un po’.” “Se tu non girassi sempre
scalzo, non avresti tutto questo
freddo." “Dai, ti
prego…fammi un po’ di coccole.” Così Gimli, fingendosi
scocciato, si arrendeva a tollerare
il gelo di quei piedi elfici e, girandosi nel letto, circondava il
corpo di
Legolas con le braccia e lo accarezzava piano, discretamente. Legolas
gli parlava
dolcemente con una voce che pareva un fruscio notturno, molto a lungo,
prima di
addormentarsi, spesso col volto nascosto nell’incavo del
braccio del Nano. Il
mattino seguente, svegliandosi, Gimli si beava della
serenità dipinta sul volto
dell’Elfo addormentato, molle della luce dorata di un novello
sole, Talora non
osava toccarlo, e lasciava che Legolas si svegliasse spontaneamente.
Erano le
volte, quelle, in cui Legolas gli appariva meravigliosamente bello ed
etereo,
quasi irraggiungibile, ed egli non osava toccarlo. Ma vi erano anche
delle
mattine in cui una luce meno intensa o più sfocata
proiettava sul suo volto
marmoreo un gioco di luci e ombre che, inspiegabilmente, lo rendeva
più terreno
e concreto, vivo. Erano le mattine in cui Gimli, non riuscendo a
resistere alla
tentazione di quel visto perfetto e di quella bocca lucente, lo baciava
teneramente. Ma poi Legolas non voleva mai alzarsi
e restava a lungo
avvinghiato a Gimli, che gli diceva pazientemente: “Legolas,
il sole si sta
alzando.” “E
chi sono io per
fermarlo?” “Nessuno. Ma
occorrerà che non siamo ancora qui quando
comincerà a scendere di nuovo.” “Oh Gimli, ti prego,
restiamo qui. Abbiamo visto abbastanza
orrori da meritare un po’ di riposo e d’amore.
Tesoro, sono sereno, finalmente,
mi sento in pace dopo tanti tormenti! Lasciami stare un po’
qui con te al
caldo. Con te sento che sarei in pace per tutta la vita.” Una volta, guardando il suo pallido
volto elfico illuminarsi
di mille sfumature dorate nella luce del giorno, Gimli
s’intristì e gli
rispose: “Legolas, tu ti accorgi bene che io sono molto
brutto.” Legolas lo guardò
incredulo, colpito: era la prima volta che
Gimli gli diceva qualcosa del genere. Ma guardandolo negli occhi,
pronto a
protestare, vide una luce melanconica nei suoi occhi scuri, che prima
non gli
aveva mai visto, come una specie di consapevolezza interiore,
incontrastabile. “Io non ho badato a questo
quando mi sono innamorato di te”
gli disse. “E non pensi che ci
baderai, prima o poi, durante tutti gli
anni che ci aspettano?” “No” rispose
l’Elfo con decisione. “Legolas, io
invecchierò, diventerò come mio padre. Credi
che sarò bello, allora?” “Non lo so, Gimli, so che
non me ne importa!” Il Nano tacque tristemente per
qualche secondo. Poi,
scrutandolo fissamente, gli chiese: “Ora, forse, non
t’importa. Tra dieci,
vent’anni, certo, potrà non importartene. Ma tra
sessanta, settant’anni, sarà
ancora così?” “Lo
sarà” rispose Legolas semplicemente. “Io
sono un Elfo,
Gimli, e non sono già più giovane. Ho visto
invecchiare molte e molte
generazioni, e non ho paura di tale ciclo: noi Elfi non temiamo il
giusto e
naturale scorrere del tempo. Ho vissuto per tutti questi anni tra
creature
perfette, incorruttibili e gelide, e ora il freddo che la loro
eternità di
ghiaccio mi trasmette non lo sopporto più. Io sono diverso
dalla mia gente, ho
cercato per anni qualcuno di simile a me, qualcuno che fosse vivo, vivo
sul
serio in questo Mondo freddo e morto in cui dilagava
l’Oscurità. E ho trovato
te. E ora l’Oscurità è terminata e io
sono con te, ed è con te che vorrei stare per sempre, e non
m’importa se
diventerai vecchio, brutto o tutto il resto, io so che sei simile a me,
se vivo
proprio come me, sei tutta la vita che ho sempre
cercato…” Gimli aveva ascoltato queste parole
in silenzio, seduto sul
letto mentre Legolas era disteso, col capo reclinato in avanti sul
petto. Era a
petto nudo, e le sue spalle forti parevano curve del peso di una
profonda
riflessione. Legolas cercò di
toccare la
sua schiena, ma Gimli, che non si era accorto affatto del suo gesto, si
volse
di scatto verso di lui. “Legolas” disse
improvvisamente, come se si fosse appena
svegliato, con orrore e angoscia, da un sogno molto profondo.
“Legolas, hai mai
pensato che io devo morire?” La notte seguente Legolas non
andò d Gimli, poiché per tutto
il pomeriggio il Nano gli era parso silente e cupo ed egli sentiva di
dover
riflettere a sua volta su tutto ciò. Non aveva mai pensato davvero al
fatto che Gimli sarebbe
morto, e ben prima di lui, a dire la verità. Per lui era
sempre stato tutto
facile e leggero, solo un gioco scherzoso di baci e carezze. Gli pareva
tutto
così perfetto da dover necessariamente durare per sempre. Ma Gimli era mortale quando lui non
lo era, e per la prima
volta Legolas tornò a sentirsi così come si era
sempre sentito: eccessivamente,
sgradevolmente perfetto, un Elfo che non era frigido come gli altri, ma
che era
costretto per sua propria natura a esserlo; come se fosse imprigionato in un luogo al quale non
sentiva di
appartenere, ma dal quale non riusciva neanche a scappare. Quella notte rimase nel suo letto a
nascondere sotto il
proprio corpo, ripiegandoli, i piedi gelidi, e non riuscì a
vagare con la mente
tra immagini di sogno: i suoi pensieri erano troppo melanconici per
sognare,
quella notte. Il mattino arrivò portando
con sé nuvole grigie e gonfie che
davano un’idea della grandezza del cielo. Legolas si
alzò con la testa piena di
pensieri confusi e uscì presto dall’edificio, si
gettò assetato, avido di
verde, nei boschi che circondavano Gran Burrone, vagò per la mattinata intera
riempiendosi gli
occhi di verde e di fresco. Verso mezzogiorno scoppiò
un temporale che si rovesciò con
grande accompagnamento di tuoni e fulmini sulle campagne circostanti.
Era un
temporale buono che avrebbe portato frutti, ma Legolas, che avrebbe
voluto
potervi trovare una catarsi come la terra, non vi riuscì e
dovette tornare
lentamente sui propri passi verso Gran Burrone. Trovò Gimli
seduto in un
piccolo terrazzo coperto che dava proprio sull’ingresso e lo
raggiunse,
scavalcando con un balzo la bassa balaustra in marmo brunito che li
separava.
Andò di corsa a rifugiarsi tra le sue braccia e Gimli se lo
strinse forte
contro il petto. “Dove sei stato tutta la
mattina? Ero preoccupato.” “Ho passeggiato nel bosco,
non dovevi preoccuparti. Pensavi
che volessi scappare?” “Sì”
ammise Gimli semplicemente. Legolas gli accarezzò le
labbra con la mano e gli disse
seriamente, fissandolo negli occhi: “Non voglio
scappare.” Gimli gli baciò la mano e
disse, in tono affettuoso di tenero
rimprovero: “Senti qua come sei bagnato…” “Un
po’…” “Vieni, andiamo dentro ad
asciugarti e a toglierti questi
vestiti bagnati.” “Lascia, cosa vuoi che mi
accada? Non ho freddo , e in ogni
caso puoi pensarci tu a scaldarmi.” Fuori scrosciava una pioggia intensa
e fredda il cui suono
faceva sognare una coperta calda e un bel fuoco, ma nonostante
ciò Gimli rimase
a stringersi contro il petto fradicio di Legolas. “Hai pensato a
ciò che ti ho detto?” gli chiese. “Che cosa?”
replicò Legolas con lo sguardo fisso davanti a
sé. “Legolas…” “Lo so, lo so. Ci ho
pensato. Ma…” Calò il silenzio.
D’un tratto, la voce di Gimli chiese
nitida e forte. “Vuoi
finirla adesso?” Legolas si girò pigramente
sulle sue ginocchia, si stese
supino. Guardava in alto, ma i suoi occhi non vedevano e, abbassando lo
sguardo, d’un tratto Gimli si accorse che erano pieni di
lacrime. “Io non so vivere senza di
te” disse Legolas con voce
infranta. “Non posso lasciarti perché non saprei
vivere…ma non potrò vivere
neppure quando tu sarai morto e io sarò ancora qui. Sono
disperato, Gimli. Non
so come fare. Non so cosa pensare. Mi sento costretto in una tremenda
contraddizione.” Neppure quella notte Legolas
compì il suo solito percorso
tra i corridoi di Gran Burrone per rifugiarsi nel tepore del letto
caldo di
Gimli, ma rimase immobile e insonne tra le proprie coperte, sfatte,
tormentate
quanto lui. Il mattino successivo non vide Gimli da nessuna parte e il
suo
cuore ne sentiva la mancanza; lo cercò inquieto per tutto
l’edificio, ma una
sorta di timore inspiegabile lo tenne lontano proprio dalla sua camera,
l’unico
luogo dove plausibilmente avrebbe potuto incontrarlo. Era come se
sentisse di
non dovervi andare, come se avesse paura. La pioggia benefica e torrenziale del
giorno precedente
aveva lasciato il posto a un sole tiepido e luminoso e Legolas, il cui
cuore
era inquieto e incostante quel giorno, scese a far quattro passi fuori,
pur
senza desiderare di allontanarsi tanto quanto il giorno prima. Sentiva
di non
volersi allontanare da Gran Burrone. A un tratto, mentre passeggiava,
udì un gran scalpitio di
zoccoli in lontananza; era il suono prodotto da un cavallo solo, ma
potente, un
suono che Legolas ben conosceva…attese, senza sforzare
troppo i suoi elfici
occhi per venire lontano, che il cavaliere gli giungesse più
vicino per poterlo
riconoscere. Gli apparve infine un cavallo bianco
di grande stazza, privo
di qualsiasi bardatura, sovrastato da un cavaliere grande e bello dai
lunghi
capelli dorati intrecciati di foglie. Pareva un Elfo giovane , ma non
lo era;
Legolas, che lo conosceva bene, sapeva che aveva visto trascorrere
innumerevoli
anni di Uomini. Gli occhi alteri dell’Elfo
si posarono su di lui e lo
percorsero interamente. “Legolas…” “Padre” rispose
Legolas, inchinandosi. I due percorrevano ora lentamente, a
piedi, un sentiero
ombreggiato nel bosco avanzando in silenzio l’uno al fianco
dell’altro. “Cosa ci fai qui?” “Mi ha mandato a chiamare
Elrond, ha detto che voleva che io
ti parlassi con te” rispose Thranduil.
“E’ preoccupato per te” soggiunse
guardandolo. “Tu non lo sei?”
replicò Legolas. “Un
po’” ammise quegli. Proseguirono ancora un po’
in silenzio senza guardarsi. “Per che cosa sei
preoccupato?” “Vorrei che tu fossi
felice” rispose Thranduil con
semplicità. “Io ti amo molto, Legolas. Pensi che
un Nano possa renderti felice?” Legolas tacque, guardando tristemente
il terreno. “Non lo so
più” disse. “Cosa ti turba?”
domandò Thranduil con pietà. Legolas
rifletté un poco e rispose: “La sua
mortalità.” “A quella, figlio mio,
né io, né te potremo porre un
rimedio.” “Lo so,
ma…” Calò di nuovo il silenzio.
Dopo un poco, Legolas riprese: “Ti
ho deluso, padre?” Thranduil emise un sospiro profondo
che gli gonfiò il petto.
Il suo cavallo, che Legolas non aveva più visto da quando
era partito per la
Missione, pascolava placidamente a pochi metri di distanza da loro. Il
cuore di
Legolas era pieno d’imbarazzo al pensiero di ciò
che gli avrebbe risposto il
padre, perciò si avvicinò alla bestia e le rimase
accanto, accarezzandone i
fianchi morbidi e caldi. “Come puoi avermi deluso,
Legolas, dopo tutto ciò che di
grande hai fatto durante la tua assenza?” “Ma
Gimli…” Dopo un momento, una mano si aggiunse
alla sua sul fianco
del cavallo. Thranduil ora era accanto a lui e Legolas, chiudendo gli
occhi,
poteva concentrarsi sul suo respiro. “Sei sempre stato diverso
da me, Legolas, da tutti noi…e non
so dirti se fossi migliore o peggiore di noialtri, eri solo diverso,
eri…così
lontano…”La sua voce s’interruppe un
momento, come se egli si aspettasse una
replica da parte di Legolas, o almeno uno sguardo. Ma quegli non
reagì, gli
occhi infissi sul crine bianco del cavallo e il volto impassibile e
cupo,
allora Thranduil proseguì: “Io ti ho sempre amato
tanto, Legolas, ma tu sei
sempre stato così distante da me, così perduto
nel tuo mondo dietro ai tuoi
sogni effimeri e incostanti… credo, malgrado tutto, di non
averti mai capito
fino in fondo, Legolas. Per questo motivo non sono né
deluso, né amareggiato,
né arrabbiato… sono solo preoccupato.”
E soggiunse a bassa voce, prendendo con
la mano il mento di Legolas per costringerlo a guardarlo:
“Non vorrei saperti
infelice.” Legolas si morse le labbra. I suoi
occhi erano colmi di
lacrime ed egli, forse per vergogna, li volgeva lontano da quelli del
padre. “Mi sento come se lui fosse
tutta la mia felicità” disse
piangendo “E so che in un modo o nell’altro
dovrò perderlo e da allora sarò
infelice, che sia ora o tra cinquanta,
sessant’anni… mi sento tanto triste,
padre. Vorrei morire con lui, ma sono stato generato immortale. Ecco,
mi sento
mortale in un corpo immortale, mi sento come mi sono sempre sentito.
Oh, padre,
vorrei che tu potessi aiutarmi…” Thranduil non aveva nulla da dirgli,
ma i suoi occhi erano
pieni di compassione, mentre egli accarezzava piano i pallidi capelli
di quel
figlio angustiato e infelice, provando dentro di sé una
profonda tristezza. Dopo
un poco, Legolas proseguì: “Non
mi senti
affatto come voi, non mi sento fatto come
voi... che brutta disgrazia sentirsi continuamente, per tutta la vita
dalla
parte sbagliata! E ora che ho trovato la parte giusta, un po’
di serenità,
finalmente…decidere se avere un po’ di tregua, un
po’ di felicità per poco, per
poi tornare a un tormento ancora maggiore, o continuare a patire per
tutta la
vita di questo disagio inguaribile, ma solo…” Thranduil si sentiva profondamente
impotente. Quanto avrebbe
voluto potergli concedere un po’ di pace, la
mortalità, poiché Legolas sembrava
desiderarla tanto ardentemente…” “Legolas” gli
disse “Vorrei tanto saperti aiutare in altro
modo, che con il mio affetto solamente…” “Devo decidere da
solo” disse Legolas. Appariva più calmo,
ora, e non gli tremava più il mento come quando Thranduil lo
aveva toccato, ma
i suoi occhi erano ancora lucidi e tristi. “Si è
sempre soli quando bisogna
decidere, dopotutto.” “Desideri che
resti?” “Preferirei essere
solo” mormorò Legolas dopo un attimo di
silenzio. “Non vorrei cacciarti, padre, ma…
bisogna che scelga da me.” Allora Thranduil salì di
nuovo sul suo cavallo bianco. Legolas
non si mosse, ma rimase immobile accanto alla bestia, lo sguardo a
terra. “Qualunque cosa accada,
Legolas” gli disse “che tu scelga
lui ora, o qualcun altro tra qualche tempo…qualunque cosa
accada, spero che sia
in grado di capirti, di partecipare di te più di quanto io
non sia riuscito a
fare in tutti questi anni. Mi auguro davvero che il tuo cuore possa
trovare
pace in questo Mondo, Legolas.” Quel pomeriggio riprese il temporale
torrenziale iniziato il
giorno prima, e nel primo pomeriggio un concerto di pioggia scrosciante
e tuoni
si rovesciò su Gran Burrone. Nonostante il frastuono, era un
sollievo per l’animo
di Legolas quello spettacolo tormentato del cielo. Se ne sentiva
appagato. L’inizio della pioggia lo
aveva sorpreso sotto un albero,
immobile nel luogo in cui suo padre lo aveva lasciato, mentre si
torceva le
lunghe mani senza scopo. Sarebbe volentieri rimasto lì,
egualmente immobile, se
la pioggia non fosse scrosciata più intensa fino a
diventare, nel giro di pochi
minuti, un temporale cupo e tempestoso che percuoteva con forza il suo
volto e
il suo corpo, ormai completamente fasciato dalla leggera tunica
bagnata. Alla fine,
a malincuore, egli dovette alzarsi e avviarsi verso
l’edificio. All’inizio aveva camminato
a passi lenti, distratto, coll’animo
intento a ben altro. Ma poi, a poco a poco, egli si era sentito
prendere da un’inspiegabile
terrore, da un’angoscia insopportabile, dall’ansia
di aver poco tempo… Per
questo motivo, a poche centinaia di metri da Gran Burrone, egli
spiccò una
corsa folle e immotivata, e non cessò di correre:
entrò nell’edificio come una
folata di vento e percorse come un tornado corridoi e scale arroccate,
urtando
stipiti e mobili, travolto com’era lui stesso dai suoi propri
pensieri. Entrò nella camera di
Gimli aprendo la porta come un
riscontro di vento. Si fermò sulla soglia col petto anelante
che chiedeva aria
e percorse lentamente la stanza con gli occhi stanchi, chiudendo la
porta
dietro di sé. “Legolas…”
disse Gimli colto alla sprovvista, stupito,
impacciato, imbarazzato. Ora era in piedi davanti a lui, gli occhi
infissi sul
suo corpo affannato e molle di pioggia, sul suo petto anelante che
andava su e
giù, allo stesso ritmo del suo respiro ansimante. Ma
l’Elfo non rispondeva. “Legolas…che
succede?” “Forse per la tua morte
precoce devo vivere solo?” gridò
Legolas infine, con voce straziata, ma finalmente decisa e libera da
tutta
quell’angoscia straziante… E Gimli si gettò tra le
sue braccia e lo baciò, con tutto l’amore
bruciante che la sua anima mortale poteva provare. .