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Autore: GreenSea    04/07/2011    1 recensioni
Odiavo la pioggia. Per quelli come me, era il caos più totale e la sventura più nera. Dovevamo correre qua e là, in cerca di riparo dalle bombe d’acqua che ci tempestavano dal cielo, ed aspettare che tornasse il sereno per poter procurarci qualcosa da mangiare.
Ma il peggio accadeva quando una persona di buon cuore ti vedeva, zuppo fino al midollo, accucciato sul marciapiede, rannicchiato come difesa contro il freddo, sotto un piccolissimo riparo temporaneo. E allora ti raccoglieva dalla strada, convinta di farti un favore, mentre ti privava soltanto della libertà.
Così successe a me, in un giorno tempestoso.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Durante la Tempesta…

 

 

Pioveva dirottamente. Il cielo era grigio, coperto da cupe e tumultuose nubi. Le gocce picchiavano forte contro l’asfalto, infrangendosi come palline di vetro. Ogni tanto un lampo illuminava il cielo burrascoso, mentre i fulmini esplodevano sovrastando addirittura il frastuono della pioggia battente.

Odiavo la pioggia. Per quelli come me, era il caos più totale e la sventura più nera. Dovevamo correre qua e là, in cerca di riparo dalle bombe d’acqua che ci tempestavano dal cielo, ed aspettare che tornasse il sereno per poter procurarci qualcosa da mangiare.

Ma il peggio accadeva quando una persona di buon cuore ti vedeva, zuppo fino al midollo, accucciato sul marciapiede, rannicchiato come difesa contro il freddo, sotto un piccolissimo riparo temporaneo. E allora ti raccoglieva dalla strada, convinta di farti un favore, mentre ti privava soltanto della libertà.

Così successe a me, in un giorno tempestoso. Una ragazza sui vent’anni mi scorse, rintanato in un angolino dove non batteva la pioggia, e si chinò, sorridendo di un sorriso che per lei era rassicurante, mentre per me rappresentava solo la fine della mia indipendenza.

Mi raccolse, dicendomi calorosamente: « Vieni, micino. Andiamoci a scaldare davanti al caminetto », mentre io mi dimenavo in cerca di scampo. Ma ormai era fatta: avevo perso la libertà.

Mi portò nella sua casa. Era confortevole, per un umano: dalle pareti color crema, calde e accoglienti, ai mobili dai colori chiari, con poltrone soffici ed il fuoco che scoppiettava allegramente nel caminetto.

Purtroppo, però, io ero un gatto.

Continuai a scrutarmi attorno, nella speranza di scorgere una via di fuga. Ma mi rassegnai totalmente quando vidi gli oggetti che aveva preparato in quello stesso momento la ragazza. Una lettiera e una ciotola di croccantini – rispettivamente, la catena e la palla di piombo che indossavano i prigionieri umani.

Così divenni l’animale da compagnia della ragazza. “Cosa c’è di male?” vi starete chiedendo. C’è molto di male: ero prigioniero in una casa umana, alla mercè di una ragazza che – per fortuna – non aveva figli, ma che mi costringeva a stare in casa quando diceva lei, non miagolare alla luna, non lasciare peli sui divani, non graffiare la mobilia e, cosa peggiore di tutte, a fare i miei bisogni in quella ciotola sabbiosa. E credetemi, di ciò la mia dignità risentiva terribilmente.

Un lato positivo era la presenza di un ragazzo. Così, mi sarei risparmiato di essere utilizzato come pupazzo.

Insieme, loro due erano quella che gli umani chiamavano “coppia”. Quindi, non vedevo il perché della mia presenza lì.

Purtroppo, però, non potevo far altro che rassegnarmi a vivere nella mia piccola calda prigione, in attesa di essere liberato, o in alternativa fuggire. Passarono quattro anni e, mentre invecchiavo, si allontanavano le possibilità di tornare alla mia vita in libertà. Alcuni gatti sostengono che sia nostro dovere, essere di conforto e di compagnia agli umani. Come avrete già capito, io non ero dello stesso parere, ma non ci potevo fare assolutamente niente.

Un giorno, però, qualcosa cambiò. Mentre stavo rannicchiato ai piedi del caminetto, dentro la casa infuriava una tempesta. La ragazza urlava e piangeva, lanciando libri e cuscini contro il ragazzo. Lui provò a tranquillizzarla, ma invano. Così salì al piano superiore e ritornò giù con delle valige, dicendo: « Bene, allora me ne vado. Tanto, Sharon è più divertente di un’isterica come te » e uscì sbattendo la porta.

La ragazza cadde a terra, dove rimase per diverso tempo, singhiozzando e gemendo. Ad un certo punto, mi stancai del rumore continuo che produceva, così mi diressi verso la cucina per mangiare i croccantini nella mia ciotola. Ma, mentre le passavo accanto, evidentemente fraintese, e mi afferrò e mi strinse al petto in una morsa dalla fuga impossibile.

Esasperato, attesi che si calmasse. Pian piano i singhiozzi si quietarono e i gemiti tacquero. Un po’ più tranquilla, mi fece accomodare sul suo grembo, accarezzandomi.

« Okay, sono calma » mormorò, come se potesse conoscere i miei pensieri. Mi diede un bacio sulla testa e mi poggiò a terra, sussurrando: « Grazie, Micio ».

Eh, già. Quello era il mio nome in quella casa. Micio. Ancora mi sorprendevo per la fantasia di certe persone. Ma, mentre la ragazza mi serviva i croccantini nella ciotola, mi confortavo per il fatto che mi sarebbe potuta andare molto peggio.

Per diverse settimane, però, continuò a ripetersi lo stesso episodio di quel giorno. Allora, nella speranza di quietarla, mi avvicinavo silenziosamente e mi accomodavo vicino a lei.

Così, siamo in due, a soffrire, pensavo. Tu hai perso il ragazzo, io la libertà.

Tale pensiero mi faceva sentire più vicino che mai a lei. Eppure, la parte più conservatrice di me continuava a ripetermi che tale sentimento era sbagliato. Non ero un cane, che si affeziona alla prima persona che vede.

Sono un gatto.

Continuavo a ripetermi quelle tre parole, cercando di convincermi. Non volevo affezionarmi a quella ragazza, colei che mi aveva fatto prigioniero, che mi aveva privato della libertà.

Eppure, non potevo evitare di preoccuparmi per lei.

Chi l’ha detto che il tempo è la migliore cura?

Ogni giorno era sempre peggio.

« Cosa posso fare, Micio? » mi chiese un giorno, con la voce rotta dai singhiozzi. « Il ricordo di ogni risata, ora scatena un pianto. Il ricordo di ogni sospiro, ora scatena un gemito. Il ricordo di ogni momento pieno di luce, ora fa annegare tutto nelle tenebre ».

Eh, già. Cosa potevo fare, io?

Con il tempo, la ragazza incominciò a temere il buio. Non usciva più con le amiche, di sera, e dormiva con un piccolo lumino acceso sul comodino. Anche la casa era sempre illuminata, giorno e notte.

Finché non arrivò una tempesta. Osservavo il cielo aldilà della finestra rigata dalla pioggia. Era grigio, coperto da scure nubi tempestose. Le gocce picchiavano forte contro il vetro della finestra, infrangendosi in piccoli plic. Ogni tanto un lampo illuminava il cielo burrascoso, accompagnato da un violento fulmine.

La ragazza era seduta accanto a me, e fissava ansiosa la tempesta che imperversava, quando si accorse di aver lasciato la bicicletta sotto la pioggia. Uscì per metterla al riparo nel garage, ma, quando tornò dentro, un fulmine esplose terribilmente vicino alla casa. La luce si spense, facendo sprofondare tutto nelle tenebre.

La ragazza cadde a terra e urlò, terrorizzata. Spiccai un balzo e mi diressi nell’atrio, quando notai un particolare che mi fece sussultare il cuore nel petto: la ragazza aveva lasciato la porta aperta.

Anche se fuori imperversava il temporale, non me ne preoccupai: finalmente, potevo tornare alla libertà. Ma allora, perché ero ancora immobile? Perché non correvo fuori, tornando alla mia vita randagia?

Volsi uno sguardo alla ragazza, poi nuovamente alla porta aperta… e la chiusi con una zampa. D’altronde, non amavo la pioggia.



Vincitore del 24° Concorso Letterario Nazionale Giovanile ” Roberto Bertelli”, Pontedera 2011.

  
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