How to
become a legend ~
{ otto
piccoli grandi passi }
Uno: nasci con un dono.
La prima volta che
Katherine aveva sentito cantare il piccolo Michael, non vi aveva dato molto
peso. Tutti i suoi fratelli e sorelle erano soliti, a quell’ora della
sera, quando il fuoco del caminetto rendeva più piacevole stare stretti
assieme in una sola stanza, strimpellare qualcosa e canticchiare vecchi
strascichi di canzoni; e raramente la donna sollevava lo sguardo dal ricamo,
dal bucato o dalla Bibbia per posarlo sui figli, giacché scene simili si
ripetevano ormai troppo spesso per risultare nuove o sorprendenti. Così,
a stento si era accorta che la vocina di Michael era la più bella e
intonata di tutte.
Ma accadde un fatto, una
volta: suo figlio venne direttamente a posare le piccole dita sulle sue,
sfilandole via dai ferri e dalla lana, attirando la sua attenzione come gli
altri quasi non osavano fare.
« Mamma, guarda.
Guarda cosa faccio. »
Katherine lo
osservò a lungo; vide il modo in cui i suoi piedi sembravano volare sul
logoro tappeto davanti al fuoco. Vide, soprattutto, l’impegno che
permeava il suo visetto concentrato. Vide che era speciale.
Non sapeva ancora che da
allora in poi, ogni volta che il piccolo Michael avesse ballato e cantato, lei
si sarebbe fermata a guardarlo.
Due: entra nella storia.
John osservò il
giovane uomo che giocava al pinguino nella palestra deserta, inarcando
teatralmente un sopracciglio.
« Michael,
gentilmente, avrei bisogno che tu ti concentrassi. »
Non era facile lavorare
con lui. Dopotutto era ancora un ragazzino – talentuoso oltre ogni dire,
sì, ma pur sempre un ragazzino. Quanti anni aveva? Ventitré,
ventiquattro? A giudicare da come gli piaceva buttarsi a terra sulla pancia e
scivolargli ai piedi per fargli il solletico, gliene avrebbe dati meno di
quindici. Dio, lo faceva sentire così vecchio.
« Non sto
scherzando. Dobbiamo lavorare. Ola, dammi una mano! »
Ola gli lanciò
un’occhiata colpevole. Era palese che si stava divertendo come un’adolescente
al primo appuntamento. Non che potesse darle torto; ma un’alleata gli
avrebbe fatto comodo, Cristo santo.
« Andiamo, John,
non fare il guastafeste. » Michael si rialzò, soltanto per
prendere un’ennesima rincorsa e slanciarsi sul pavimento con un sorriso
abbagliante. « Mi sto esercitando per la mia parte. »
« Gran bel modo
» sbuffò il regista; ma non fu di rimprovero il suo tono –
non riusciva mai ad arrabbiarsi
davvero con quel dannato, bambinesco, incredibile ragazzo.
Non gli restò che
riprendere a sciorinare consigli per Ola, sopprimendo il sorriso che gli era
sorto in volto al pensiero che l’allegria di Michael avrebbe reso quel
lavoro il successo più grande
della storia della musica.
Tre: cammina sulla luna.
Era pazzesco. Un talento
pazzesco. Berry lo guardava, e non riusciva a ordinare alle proprie labbra di
richiudersi.
« Dica, signor Gordy, l’ha visto? Ha visto cosa fa? »
Neanche si ricordava
più chi gli fosse seduto
accanto, a strattonargli il gomito, indicandogli freneticamente il fenomeno che
si svolgeva dinanzi ai suoi occhi – come se ce ne fosse bisogno! Lo
vedeva bene da sé. Il bimbo minuscolo che tanti anni prima era arrivato
da lui, sperduto tra i fratelli, era ormai cresciuto, e oggi volteggiava su un
palco con un microfono in mano e un cappello in testa e compiva quella stessa
magia che Berry da molto tempo rimpiangeva.
Non era l’artista
a mancargli; era la persona,
l’entusiasmo che gli leggeva negli occhi ogni volta che Michael
affrontava un pubblico.
Poi, d’improvviso,
lo vide accennare un movimento inconsueto: un istante dopo il pubblico
impazzì.
Sentì le persone
più vicine trattenere il fiato; lui stesso si ritrovò a seguire
trasognato il modo in cui Michael si muoveva sul pavimento liscio, nei suoi
mocassini neri, come a metà tra questa dimensione e quella
dell’armonia pura. Forse fu soltanto quello
il momento in cui Berry davvero capì chi aveva di fronte.
Quel ragazzo volava;
letteralmente.
Quattro: cura il mondo.
Un’unica notte, e quarantacinque
artisti si erano riuniti in uno stesso punto del pianeta a cantare per un
obiettivo comune. Là dentro Diana si era commossa. Solo grazie a quella
canzone si sarebbe potuto raggiungere un obiettivo simile.
« Ti ho mai detto
che amo ciò che scrivi? »
Sorrise timido, seduto
accanto a lei sui gradini esterni dello studio di registrazione. Lo vide
sfregarsi le mani nelle tasche. Era gennaio, e faceva freddissimo.
« Sei gentile. Ma
non viene da me; è la musica che vuole uscire. Sa di essere destinata a
cose più grandi di noi. »
Diana adorava il fuoco
che gli sentiva ardere dentro. Era perfettamente visibile, proprio là,
nel suo sguardo dolce e affamato di vita. Non si stupì delle parole che
gli sentì mormorare dopo un attimo di riflessione.
« È questo
che voglio fare, sai... Cantare parole che rendano migliore il mondo. Voglio
che la gente sappia che deve partire tutto da noi. » Si voltò, il
sorriso ancora stampato sulle labbra piene. « Pensi che potrei farcela?
»
Lei lo abbracciò,
sorridendo al calore che avvertì sulle guance di Michael prima di
avvolgerlo nella sua lunghissima sciarpa di lana. « Tu puoi fare qualunque cosa. »
Ci credeva con tutta se
stessa.
Cinque: non crescere mai.
« Allora, ti
piace? »
La fissava con una punta
d’ansia. Janet si concesse di ricambiare lo sguardo per un istante
più del dovuto, emozionata al ricordo delle tante sere passate insieme,
da bambini, a scambiarsi punti di vista cercando di non infastidire gli altri.
Michael ci teneva tanto, al suo parere: era sempre stato così. Era
sempre Janet la prima che doveva dire la sua, quando lui aveva pronto un passo
nuovo o una modifica a una canzone o qualunque altra cosa che valesse la pena
di essere messa in discussione – che si trattasse di un paio di calzini
di un certo colore o di una residenza da chissà quanti milioni di
dollari.
« Mi piace da
morire, Mike. »
Lui sorrise, raggiante.
In quel momento più che mai somigliò al bambino che era sempre
stato – che sarebbe sempre
stato. Neverland era l’unico posto davvero giusto
per lui. Sì, le piaceva da morire vederlo lì... così felice.
« Sapevo che
l’avresti detto! Ma adesso, sorellina, dovrai rispettare la regola numero
uno della mia nuova casa. »
Janet si allarmò.
« E quale sarebbe? »
Da chissà dove,
Michael tirò fuori una pistola ad acqua. « Bagnarsi! »
Già, lo diceva; Neverland era proprio l’unico posto giusto per Peter
Pan.
Sei: balla per tuo figlio, quando nessun altro può vederti.
Debbie soffriva
d’insonnia. Era una cosa piuttosto normale, dopo un parto così
travagliato; ma il piccolo Prince aveva già dimostrato di avere un bel
caratterino, e non c’era quasi nulla che riuscisse a tranquillizzarlo nei
momenti in cui faceva sentire la voce – che a giudicare dalle frequenze
doveva aver preso dal papà.
« Con te è
sempre così docile. Ma cosa gli fai? »
Quando la sentiva
lamentarsi così, Michael le indirizzava il suo sorriso più
sognante, come se la risposta fosse semplicemente troppo bella per poter essere
espressa a parole. Debbie aveva smesso di fargli
domande quando aveva capito che, se non parlava, era perché
l’emozione di essere padre arrivava in certi momenti a togliergli ogni
parola.
Poi, un giorno, uscendo
dal bagno si ritrovò a passare davanti alla stanza in cui aveva lasciato
Prince e Michael insieme; e alle parole improvvise – « Va bene, ma
questa è l’ultima volta, ok? » – non resisté
all’impulso di fermarsi a guardare.
Nel suo lettino, Prince
rideva e agitava le manine, mentre davanti a lui Michael esibiva i suoi passi
migliori solo per il piacere di veder sorridere suo figlio.
Ciò che esprimeva
con quella danza andava al di là di qualunque descrizione. Non
l’aveva mai visto ballare così; mai.
Con discrezione, Debbie chiuse la porta.
Sette: non lasciarti abbattere.
Liz lo aveva visto piangere
spesso, da quando quella brutta storia era iniziata. E le aveva detestate tutte, una per una, le lacrime che aveva
visto scorrere sul suo volto provato e stanco; non era così che avrebbe
dovuto essere. Michael era famoso per i suoi sorrisi luminosi e per la sua
risata contagiosa. Quel pianto faceva solo del male a lui e a chi gli stava
intorno.
Ma, a poco a poco, lo
aveva anche visto risollevarsi. Era fatto così. Lottava da sempre:
contro le voci, contro le gelosie, contro le menzogne gratuite – questa
non era altro che una di quelle, certo più pesante e più
dolorosa, ma ugualmente falsa. Ce l’avrebbe fatta. Liz
lo conosceva troppo bene per poter anche solo immaginare il contrario.
Sempre più spesso
lo vedeva farsi coraggio, andare incontro a quei microfoni spianati a testa
alta, con la silenziosa tranquillità di chi sa di essere innocente, e ha fiducia. Questo era Michael. Non si era aspettata nulla di diverso da lui.
« Non so se ce la
farei senza di te » le diceva spesso; ma non era vero.
Il tredici giugno,
mentre il giudice parlava e la folla fuori dal tribunale esultava, per la prima
volta fu Liz a piangere; ma di gioia.
Otto: fai piangere il mondo.
Miliardi di persone in
tutto il mondo sentirono morire un pezzetto di sé, quando la bara
ricoperta di fiori rossi si portò via l’ultimo passo di danza di
Michael Joseph Jackson, un uomo che era riuscito a diventare una leggenda.
Spazio
dell’autrice
Ecco, non so come
definirla.
Mi è venuto
in mente di scriverla nel cuore della notte, dopo una commossa visione del
tributo realizzato per Michael Jackson in occasione degli Annual
Grammy Awards del 1993,
quando gli fu conferito il premio alla carriera direttamente dalle mani di sua
sorella Janet. Come disse lei stessa, Michael era, prima ancora che un mito vivente,
suo fratello: un essere umano entrato
nella leggenda. E sulla scia di quel tributo ho deciso di descrivere quelle che
sono secondo me le cose che l’hanno reso immortale: il talento, Thriller, il moonwalk,
We are the world e l’impegno
umanitario, Neverland e lo spirito bambino, il
rapporto con i figli, l’innocenza troppo tardi dimostrata, e in ultimo il
fatto che, andandosene, sia riuscito a far piangere il mondo intero. Il tutto
andava necessariamente filtrato dagli occhi di alcune delle persone più
importanti della sua vita – Katherine Jackson, John Landis,
Berry Gordy, Diana Ross, Janet Jackson, Debbie Rowe, Liz
Taylor... e tutti i suoi fan. Perché Michael non è una di quelle
leggende astratte e lontane che ci passano accanto senza toccarci. Sono sicura
che, anche tra cento anni, ci sarà qualcuno che vivrà della sua
musica e che piangerà un po’ per lui.
It’s all for L.O.V.E.,
Aya ~