La Confraternita
della Rosa
Capitolo Primo
«Blake!
Per favore, scendi di sotto?»
«Scendo subito zia!», gridai sporgendomi
dalla finestra. Posai il libro che stavo leggendo, infilai le scarpe da
ginnastica, presi il cellulare, uscii dall’appartamento, mi
precipitai giù per
le scale – dalle quali rischiai di ruzzolare rovinosamente
– ed entrai nel
negozio d’antiquariato di mia zia.
«Eccomi!», dissi spalancando la porta a
vetri e facendo tintinnare i tubicini d’ottone del campanello
sospeso sopra di
essa. Il negozio della zia era un piccolo spazio ma molto luminoso. Le
vetrate
che davano sul marciapiede facevano entrare tutta la luce calda del
sole. I
mobili all’interno erano di un piacevole color beige ed al
soffitto erano
appesi tantissimi lampadari a bracci. Sulle mensole delle librerie
erano
disposti pezzi di argenteria, vasi antichi, piccoli soprammobili e
oggettini
d’arredamento. Alle pareti facevano la loro comparsa diverse
ed inquietanti
maschere etniche, tappeti persiani ed arazzi recuperati non so dove.
Sulla
parete di fondo in un angolo si apriva la porta che dava sul
piccolissimo
magazzino che in sostanza era poco più grande di uno
sgabuzzino ma che
conteneva molte più cose grazie agli enormi scaffali che ci
avevamo sistemato
dentro in modo strategico. Mi avvicinai al bancone sul quale zia Rachel
stava
chiudendo uno scatolone di media grandezza con lo scotch da pacchi.
«Dimmi», dissi tamburellando sul legno con
le unghie fissando lo scatolone con curiosità. A differenza
delle altre volte
non c’era scritto sopra niente, nemmeno un numero
né una lettera. Ero quasi
certamente sicura che dentro ci fossero vasi o qualcosa del genere, in
ogni
caso.
«Tesoro, puoi portare questo tra la 25ma e
Johnson? Io ho il negozio pieno, non posso muovermi»
«Ma certo zia. Non preoccuparti», dissi guardandomi
intorno. Solo in quel momento mi accorsi che il negozio era veramente
pieno.
C’era gente ovunque che dava un’occhiata a
qualsiasi cosa le capitasse sotto
tiro. Solo una volta ci era capitata una cosa del genere.
All’inaugurazione,
due anni prima. Presi lo scatolone e con attenzione, salutando la zia e
schivando miracolosamente alcuni clienti che mi si paravano davanti
all’improvviso, uscii dal negozio e mi avviai verso la strada
assolata della
venticinquesima. Il sole mi coceva la testa. Sentivo le gocce di sudore
scivolarmi lungo la schiena. Sapevo esattamente dove andare. Il
Collection era
il più importante negozio d’antiquariato della
città, nonché il più grande.
Oltretutto poteva vantarsi di collaborare con il museo archeologico e
quello
delle scienze naturali della città.
Le mie scarpe producevano uno strano rumore
sull’asfalto mentre mi chiedevo che cosa effettivamente
contenesse lo scatolone
che stavo trasportando. Dal rumore non sembravano vasi e, in effetti,
era un
po’ troppo leggero perché lo fossero realmente.
Doveva essere qualcos’altro,
per forza. Non ebbi molto tempo per pensarci perché pochi
minuti dopo mi trovai
davanti alla porta a vetri rossa del Collection. Entrai spingendola con
la
spalla e i ritrovai nell’ambiente familiare nel quale ero
stata molte volte.
Un’ondata di frescura offerta dall’aria
condizionata mi rigenerò.
«Ciao Matt!», salutai con un sorriso.
Matt era il mio migliore amico sin dai
tempi dell’asilo. Da quando si erano separati i suoi genitori
viveva da solo
con suo padre, mentre io da quando si erano separati i miei avevo
deciso di
andare a vivere con mia zia, con il consenso di entrambi, peraltro. Ero
sicuramente più felice con zia Rachel che con Jonathan
Oliver, avvocato che
stava fuori casa venti ore su ventiquattro, e Michelle Moore, avvocato
anch’essa. In pratica stavo sempre in casa da sola, quindi
quando loro si
separarono gli dissi che la mia intenzione era di andare a vivere con
zia
Rachel, anche perché era là che stavo quando loro
non c’erano. Per tornare a
Matt, era un bel ragazzo. Alto, capelli scuri, occhi azzurro-blu,
lineamenti
delicati. Aveva la mia stessa età, eravamo cresciuti insieme
tra casa nostra e
tutto il vicinato. Anche lui aveva lasciato la scuola al secondo anno
delle
superiori come me ed alle medie avevamo avuto una sottospecie di
storia, per
modo di dire. Adesso, tuttavia, eravamo solo grandi amici.
«Ciao Blakie! Ti ha mandata la zia?»
«Sì, e chi sennò?», dissi
poggiando
delicatamente lo scatolone sul bancone. Mi ci appoggiai con i gomiti e
ripresi
fiato. Dopo essermi ripresa guardai male Matt e lo avvisai puntandogli
l’indice
contro.
«Non mi chiamare più Blakie, lo sai che lo
odio»
«Okay, come vuoi. Che hai qui dentro?», mi
chiese battendo una mano sullo scatolone. Io alzai le spalle,
indifferente, ma
in realtà morivo dalla curiosità di sapere che
cosa contenesse. Purtroppo però
la zia mi proibiva categoricamente di vedere le merci destinate al
Collection.
«Non lo so. Sai che non posso vederle»,
dissi e ancora una volta venni rapita dall’atmosfera magica
che si respirava in
quel posto. Statuette egizie, candele, incensi, ciondoli,
scacciapensieri erano
appesi ovunque. Su ogni mensola, comodino o ripiano c’era un
piccolo oggettino
ornamentale. Mi sentivo bene là dentro. Gli appassionati di
magia e scienze
occulte avrebbero detto che erano presenti vibrazioni positive. Io, che
non
rientravo in quella categoria, non sentivo nulla se non un reale senso
di
benessere.
«Ci diamo un’occhiata?», mi chiese
sorridendo, riportandomi alla realtà. Gli sorrisi di rimando
ma non con lo
stesso entusiasmo. Sapevo che lo faceva solo per stuzzicare me e la mia
dannata
curiosità. Per questo mi obbligai a scuotere la testa,
rassegnata. Avevo
sbirciato dentro agli scatoloni anche troppe volte.
«Stavolta passo», dissi sedendomi sul
bancone ed incrociando le gambe.
«D’accordo… se proprio non
vuoi», disse
alzando le sopracciglia e prendendo lo scatolone per metterlo sotto al
bancone.
Quando si rialzò notò qualcosa di strano che io
effettivamente non avevo
nemmeno scorto.
«Porti ancora quelle
scarpe?», mi chiese sbalordito. Io seguii il suo sguardo e
rintracciai le mie scarpe da ginnastica blu scuro. Non ci vedevo niente
di
strano, o quantomeno grottesco, quindi lo squadrai alzando un
sopracciglio.
«Perché?»
«Perché sono… vecchie!»,
esclamò. Abbassai immediatamente il sopracciglio e gli
rifilai uno sguardo omicida. Nessuno poteva dire che le mie scarpe
erano
vecchie, inoltre, le avevo comprate assieme a lui qualche anno prima.
Era stato
lui a consigliarmele e lui a commentarle con i pollici in alto in stile
“imperatore romano”. Matt provvide subito a
rimediare alla situazione, ma era
già troppo tardi.
«Oh, no. Scusa Blake, non… non volevo
veramente dire che…», lo zittii con un cenno della
mano e chiusi gli occhi assumendo
un’espressione fintamente offesa.
«Le mie scarpe non sono vecchie…»,
proferii
fiera di me stessa «sono vissute e piene di
personalità», conclusi poi alzando
il mento. Ero sicura che mi stesse guardando come una pazza ma a me non
importava. Le mie All Star avevano davvero molta personalità
e carattere. Erano
delle nonne, ma delle nonne piuttosto arzille che mi portavano
dovunque. Saltai
giù dal bancone e battei le mani l’una contro
l’altra prima di salutare il mio
migliore amico con un bacio sulla guancia. Mi avviai verso la porta
quando lui
mi fermò.
«Blake?»
«Sì?», risposi voltandomi.
«Sicura di non voler vedere che cosa c’è
nello scatolone?», mi chiese alzando un sopracciglio come
aveva fatto poco
prima. Io lo fissai di sbieco, poi scossi di nuovo la testa, uscii dal
Collection e lo salutai con la mano dalla vetrata prima di cambiare
idea,
tornare dentro ed aprire la scatola.
Fuori era più fresco di prima. Capii il
perché quando alzai lo sguardo e vidi addensarsi dei
nuvoloni neri sopra la mia
testa. Accelerai il passo e in poco tempo fui di nuovo al Once Upon a
Time di
mia zia. Entrai e mi guardai attorno distrattamente. Tutta la gente di
prima
non c’era più e nemmeno zia Rachel.
«Zia?», chiamai. Nessuna risposta. Mi
aggirai furtivamente per tutto il negozio. Alla fine entrai nel piccolo
magazzino improvvisato e la trovai arrampicata su una scaletta nel
tentativo di
raggiungere le scaffalature più alte. La guardai con le mani
sui fianchi per
qualche secondo, poi decisi di far notare la mia presenza schiarendomi
la voce.
«Zia, che fai lassù?»
«Oh, ciao tesoro. Niente, stavo cercando
una cosa», disse vagamente. Non cercai di indagare oltre
– lo sgabuzzino era il
suo regno – ed uscii. Non feci in tempo a fare due passi che
mi sentii chiamare
di nuovo.
«Blake?».
Mi voltai facendo una giravolta sul piede
destro e tornai allo sgabuzzino.
«Sì?», dissi sbucando dalla porta con la
testa.
«Hai visto Matt? C’era lui al Collection?»
«Sì, perché?».
Non ero del tutto sicura di dove volesse
andare a parare. Era sempre molto vaga. Mi guardò
dall’alto della sua
postazione con un sorrisino sulle labbra ed allora capii. Aggrottai la
fronte
ed arricciai le labbra, preparandomi alla successiva affermazione che
avrebbe
fatto.
«Ti piace, non è così».
Ecco appunto.
«Zia!», esclamai ed uscii dallo sgabuzzino.
Ogni volta che mi mandava al Collection o che uscivo con Matt mi
chiedeva
sempre se mi piaceva. Probabilmente era convinta che fossimo ancora
“innamorati” dai tempi delle medie. Il che non era
proprio per niente. Sbuffai
in un misto di esasperazione e divertimento allo stesso tempo.
«Che c’è? Era solo una
domanda!», la sentii
dire e potrei giurare di aver captato un sorriso nella sua voce.
Sorrisi
anch’io e scossi la testa. Spinsi la porta a vetri
dell’ingresso e mi avviai di
nuovo verso l’appartamento. Le prime gocce di pioggia si
vedevano già sul
marciapiede che fino a pochi minuti prima bruciava sotto i raggi del
sole.
Rimasi a guardarle per un po’. Mi piaceva la sensazione e
l’atmosfera che
creava la pioggia in piena estate. Era fresca. Ossigenante. Ormai le
gocce
stavano cadendo sempre più fitte, perciò salii in
casa per evitare il diluvio.
Era piacevolmente silenziosa. Si sentiva solo il rumore delle macchine
che
passavano e il leggero suono della pioggia che batteva sul tetto e sui
vetri
delle finestre. Salii in camera mia, tolsi le scarpe e accesi lo stereo
a basso
volume. Le note di Be Your Love di Rachael Yamagata si sparsero per
tutta la
stanza, coprendo lievemente il suono leggero della pioggia. Mi lasciai
cadere
sul letto e mi addormentai circa mezz’ora dopo ma venni
svegliata ancor prima
di entrare nel mondo dei sogni dal campanello al piano di sotto. Aprii
gli
occhi, sbuffai e scesi di sotto ad aprire la porta. Mi trovai davanti
il volto
bagnato e sorridente di Matt.
«Che ci fai qui?», chiesi con gli occhi
spaventati dalla sorpresa.
«Niente. Volevo vedere che stavi facendo»,
disse continuando a sorridere candidamente mentre io lottavo contro
l’istinto
di richiudergli la porta in faccia e/o fargli notare che eravamo nel
Ventunesimo secolo e che esistevano i telefoni cellulari da diversi
anni.
«In realtà mi stavo addormentando. Tu
piuttosto, perché sei uscito senza ombrello?»,
dissi scostandogli una ciocca di
capelli bagnati dall’occhio.
«Lo sai che piove, vero?», chiesi
sarcasticamente.
«Certo che sì», mi rispose
tranquillamente.
«Posso entrare?, chiese. Mi spostai dalla porta e lo lasciai
passare, fissando
dolorosamente le tracce d’acqua che aveva lasciato sul
pavimento immacolato.
Fece per sedersi sul divano color panna ma lo fermai appena in tempo.
Corsi
all’armadio a muro del salotto e gli lanciai un asciugamano
nero, uno della
parure che zia Rachel aveva comprato neanche due giorni prima e che non
era
stata mai usata. Almeno fino a quel momento.
«Tieni, asciugati. Se bagni il divano mia
zia ti uccide», dissi scuotendo la testa e gettandone a terra
un altro,
asciugando le pozze d’acqua.
«Sì, lo so purtroppo», mi rispose
ridacchiando. Dopo aver finito di scompigliarsi i capelli
poggiò l’asciugamano
di spugna accanto a lui e mi guardò, improvvisamente serio.
Non mi piaceva
quando faceva così. Cambiava umore troppo in fretta e troppo
facilmente.
«Che c’è? Perché mi guardi
così?», chiesi
leggermente preoccupata. Lui non rispose ma continuò a
guardarmi finchè,
sospirando, non aprì bocca.
«Ho visto che cosa c’era nello scatolone,
Blake…», disse. Io lo guardai tranquillamente. La
mia preoccupazione non era
servita a niente.
«Quella faccia da “mi è morto il
gatto”
solo per un vaso? O qualcos’altro,
insomma…», chiesi vagamente gesticolando con
le mani. Lui sembrava prendere la cosa più seriamente di
quanto non fosse. Gli
sorrisi ma, vedendo che non sorrideva con me, posai la mano sulla sua
cercando
di capire che cosa lo tormentasse. Aveva i pugni chiusi ed erano
talmente
stretti che le nocche gli erano diventate bianche.
«Matt, è tutto okay? Va tutto bene?»,
gli
chiesi preoccupata. Seriamente preoccupata.
«Blake, io…», iniziò a dire
ma venne
interrotto dalla zia che era entrata proprio in quel momento,
gocciolando su
tutto il pavimento.
Accidenti, pensai subito.
«Ragazzi, non sapete quanto piove fuori!
Non sono arrivata nemmeno a…».
Interruppe la frase a metà vedendoci.
«Vi ho disturbati, vero? Mi dispiace!»,
esclamò. Era sinceramente dispiaciuta. Scossi la testa e mi
affrettai a dire
che non c’era stato nessun problema. Dopotutto stavamo solo
parlando. Sembrò
crederci, così salì di sopra dicendo di andare a
farsi la doccia. Mi voltai di
nuovo verso Matt che proprio in quel momento si stava alzando e si
stava
avviando alla porta.
«Matt, aspetta!», lo chiamai afferrandolo
per un braccio.
«Che cosa mi volevi dire prima?», domandai.
Lui rimase in silenzio per un po’, poi mi diede una falsa
risposta: «Niente. Ci
vediamo domani…».
E così se ne andò. Io rimasi impietrita a
fissare la porta che si chiudeva con uno scatto. Lo sentii scendere le
scale di
corsa e sentii la porta principale dell’atrio richiudersi
sbattendo con forza.
Corsi alla finestra e lo vidi camminare lentamente verso casa sua, il
cappuccio
calato sul viso. Un brivido mi percorse la schiena quando si
voltò a salutarmi
con la mano. Mi sorrise, sì, ma il sorriso che campeggiava
sulle sue labbra non
fece in tempo a raggiungere i suoi occhi che era già
scomparso. Alzai la mano e
mossi lentamente le dita alzando gli angoli delle labbra in una strana
parodia
di quello che doveva sembrare un sorriso. Quando voltò
l’angolo mi girai e
trovai mia zia in piedi sul terzo gradino della scala che portava al
piano
superiore.
«Blake, va tutto bene?», mi chiese. Sapevo
che aveva capito che ero preoccupata. Non era da Matt comportarsi
così. Poi
però pensai che forse doveva aver avuto un momento
“no”.
Infondo,
tutti li hanno, pensai tra me
e me. Scrollai
la testa e risposi a mia zia con un sorriso ed un’alzata di
spalle. Senza saper
bene che fare sistemai i fiori al centro del tavolo da pranzo ed accesi
la tv.
Sentii il suo sospiro ed i suoi passi leggeri al piano di sopra
avviarsi verso
il bagno. Quando sentii l’acqua scorrere presi il telefono e
composi il numero
di Matt. Squillò a vuoto. Lo chiamai più volte
nel corso della serata ma non mi
rispose mai.
Quella sera mi addormentai con la cornetta
del telefono sull’orecchio.
«Mhm…», bofonchiai. Sentii un sospiro
rassegnato accanto a me e poi la morbida carezza di un plaid che mi
veniva
sistemato sulle spalle da qualcuno. La zia, senza dubbio, ma ero troppo
intontita per rendermene pienamente conto. Mi riaddormentai subito.
Così
presto, pensai. Non
sapendo
esattamente che fare mi alzai, ebbi un leggero giramento di testa come
al
solito e salii al piano di sopra. Entrai nel bagno azzurro e mi guardai
allo
specchio. I capelli non erano proprio un disastro ma li pettinai
comunque.
Dopodichè aprii l’acqua della doccia, mi spogliai
ed entrai. Il getto caldo
sulla mia pelle di mattina era una sensazione che avevo sempre amato.
Mi
rinvigoriva e in qualche modo mi rendeva più ottimista.
Chiusi gli occhi e
lasciai che l’acqua mi bagnasse la testa e il viso. Ripensai
al comportamento
di Matt di alcune ore prima. Non era mai stato così, per
quanto ricordassi. Se
oggi l’avessi visto, decisi, gli avrei chiesto chiarimenti.
Uscii dalla doccia
e mi avvolsi l’asciugamano blu attorno al corpo.
C’era così tanta nebbia che
non vidi il mobile ed andai a sbatterci contro con il ginocchio.
Soffocando un
gemito di dolore uscii dal bagno ed entrai in camera mia zoppicando. Mi
vestii
in fretta e raccolsi i capelli in uno chignon stretto e alto,
nonostante
fossero piuttosto lunghi, di modo tale che si asciugassero
più in fretta.
Quando tornai in salotto erano le otto meno un quarto e la zia era
già sveglia.
«Buongiorno! Hai dormito bene?», mi chiese
ironicamente. Io le lanciai un’occhiata altrettanto ironica.
«Vai pure di sopra, la doccia è libera»,
dissi. Ripensai dolorosamente alla botta al ginocchio che proprio in
quel
momento si fece sentire. Non potei fare a meno di fare una smorfia che,
purtroppo, non le sfuggì. Era una donna incredibilmente
attenta ad ogni più
minima cosa.
«Va tutto bene, Blake?», mi chiese.
«Sì, tutto bene. Ho solo preso una botta al
ginocchio uscendo dalla doccia», risposi sorridendo
«ma in realtà non fa
nemmeno più male», confermai mentendo. La
verità era che faceva un male cane.
Lei mi guardò perplessa e finì l’ultimo
goccio di caffè dalla sua tazza che poi
ripose nel lavello.
«Allora io vado di sopra, okay?»
«Okay!», esclamai sorridendo allegra. Mi
metteva di buon umore iniziare bene la mattina. Dopotutto, come si
dice, il
buongiorno si vede dal mattino.
«Anzi», disse lei fermandosi e voltandosi
verso di me «prima ha chiamato Matt. Ha detto che ha visto le
tue chiamate e
gli dispiace di non averti risposto. Ha detto che se vuoi puoi
richiamarlo
oppure vi vedete dopo…»
«Oh, d’accordo. Grazie!».
Da quando in qua prendeva i miei messaggi?
Mah. Salì al piano di sopra con un sorriso malizioso sulle
labbra che non mi
sfuggì.
Sempre
con la stessa idea, eh, pensai tra me
e me.
Meditai sul fatto di chiamarlo subito o no mentre mescolavo il
cioccolato nel
pentolino. Lo versai nella tazza proprio nel momento in cui
suonò il citofono.
Sussultai e alcune gocce si riversarono sul piano di marmo bianco.
«Ah, maledizione…», dissi raccogliendole
con il dito e portandole alle labbra mentre il citofono continuava a
suonare.
«Arrivo, arrivo, arrivo», cantilenai saltellando
alla porta per quanto il mio “infortunio” me lo
permettesse. Premetti il tasto
e parlai nella cornetta.
«Sì?»
«Ehi, sono io. Posso salire?». La voce
tranquilla di Matt contribuì a svegliarmi ancora di
più.
«Certo! Ti apro subito», dissi sorridendo e
premendo l’altro tasto. Il citofono produsse il
caratteristico e fastidioso
rumore gracchiante e poco dopo sentii il campanello di casa. Corsi ad
aprire la
porta con la tazza tra le mani. Matt era davanti a me, sorridente
solare e
allegro. Fu una bella vista dopo il suo comportamento del giorno prima.
Dopo il
suo incupimento.
«Ciao!», mi salutò esclamando e dandomi
il
buongiorno. Lo salutai a mia volta e lo feci entrare. Mi sedetti sul
divano e
portai le ginocchia al petto. Lui mi seguì ma rimase seduto
normalmente.
«So di doverti delle spiegazioni per il mio
atteggiamento di ieri», mi disse a voce bassa. Io annuii
fissandolo. Fece un
respiro profondo e iniziò a parlare.
«Ieri pomeriggio ho guardato che cosa c’era
nello scatolone che mi avevi portato. Non era un vaso, né si
trattava di altri
pezzi di archeologia», mi disse. Io lo guardai interrogativa.
Passai al
setaccio tutto ciò che avrebbe potuto essere. Alla fine me
lo disse lui stesso
prima che potessi arrivare alla situazione.
«Era un libro».
Rimasi leggermente sbalordita e sorpresa.
C’era bisogno di fare tutte quelle cerimonie solo per un
libro?
«Ma… se era solo un libro perché non me
l’hai detto subito? Al Collection ne avete tantissimi.
Perché questo dovrebbe
essere diverso?», gli chiesi. Lui continuava a guardarmi con
uno sguardo cupo
ma che avrei riconosciuto tra mille e che, oltretutto, mi fece venire i
brividi.
«Non è una cosa che ti posso spiegare.
È
una cosa che devi vedere», disse quasi sottovoce. Sospirai.
Non avevo idea di
che cosa stesse dicendo. Per me quello poteva essere un libro antico
come un
altro.
«D’accordo», dissi infine
«però prima devo
avvisare mia zia».
Con un tempismo perfetto, infatti, zia
Rachel scese le scale con un asciugamano a mò di turbante a
coprirle i capelli.
«Oh, ciao Matt!»
«Zia, noi usciamo okay?», dissi infilando
le scarpe ed afferrando il giubbotto contemporaneamente.
Dopodichè mi trascinai
Matt fuori dalla porta, sulla quale comparve poco dopo la zia.
«Dove andate?»
«Matt mi deve far vedere una cosa al Collection»,
dissi avviandomi verso le scale «non preoccuparti. Non faccio
tardi», le
accertai anche se sapeva perfettamente che ogni volta che uscivo con
Matt non
facevo mai tardi. O, meglio, era lui che non faceva mai far tardi a me.
La
salutai con la mano mentre scendevamo i primi gradini di marmo. Lo
guardai di
nascosto. Il suo viso era rilassato, eppure nella sua espressione
notavo
qualcosa di vagamente preoccupato. Il tragitto fino al Collection fu
silenzioso, interrotto solo dalle vico dei passanti,
dall’abbaiare dei cani e
dal rumore delle auto. Mi fece entrare per prima aprendomi la porta
– abitudine
che aveva preso sin da quando mi aveva conosciuta – e se la
richiuse alle
spalle facendo tintinnare i campanelli appesi sopra la porta. Mi voltai
appena
in tempo per vederlo girare il cartello di avviso
‘aperto/chiuso’ su ‘chiuso’.
Mi venne incontro e mi fece segno di seguirlo in magazzino. Non
c’ero mai stata
prima di allora. Era una stanza indubbiamente più grande del
nostro sgabuzzino
e molto più fornita. Tutto era catalogato con precisione e
riuscii a scorgere
di sfuggita alcune etichette scritte a pennarello sugli scatoloni. Non
riconobbi
quello che avevo portato io il giorno prima. Era nascosto dietro ad
altri più
grossi che Matt riuscì a spostare con facilità.
Si inginocchiò davanti alla
scatola e la aprì, estraendo poi con estrema cautela il
libro al quale aveva
accennato. Era coperto da un panno color crema.
«Vieni», sussurrò. Pensai che avesse
paura
di svegliare qualcuno che dormiva a pochi metri da noi. Lo seguii fuori
dal
magazzino e mi richiusi la porta alle spalle mentre lui andava ad
appoggiare il
libro su un piano lontano dall’entrata. Quando fui accanto a
lui mi lanciò una
breve occhiata e subito dopo scoprì il volume. Rimasi quasi
senza fiato. Era un
tomo rilegato splendidamente. Sulla copertina in pelle si scorgevano
diverse
figure mitiche e molte figure tribali che si riproducevano anche sulla
costa
perfettamente conservata. La prima cosa che saltava
all’occhio era l’assenza
totale di parole. Né un titolo né tantomeno un
autore. Non che me lo fossi
aspettato. Anche da chiuso aveva un’aria solenne.
Istintivamente abbassai lo
sguardo per poi tornare a guardare Matt.
«Di che epoca è?», gli chiesi. Lui
sospirò
in risposta, alzando le spalle e sbattendo le palpebre un paio di
volte.
«Non lo so»
«Nemmeno tuo padre…?»
«No, nemmeno lui», mi rispose
semplicemente, fissandomi. Riuscii a sostenere il suo sguardo solo per
pochi
secondi, poi tornai a guardare la copertina elaborata del volume.
Fissai gli
occhi su un punto in particolare. Era un’immagine in un
angolo alto, una
semplice immagine tribale con all’interno una rosa intarsiata
di una bellezza
ed una precisione assolutamente mai viste. Ci passai le dita sopra con
una
delicatezza che non sapevo nemmeno di avere, timorosa di rovinarlo in
qualche
modo.
«È così… solenne»,
constatai. Non mi veniva
in mente un’altra parola adeguata a quello che stavo vedendo.
«Mai vista una cosa del genere»
«Ho l’impressione che sia dell’epoca
medievale…
o giù di lì», disse Matt gesticolando.
Mi voltai verso di lui con un’espressione
strana e sospetta.
«O giù di lì?», ripetei.
«Sì. Insomma, è papà
l’esperto… io tengo d’occhio
il negozio, nient’altro», mi disse continuando a
gesticolare. Lo presi per i
polsi e gli misi le mani lungo i fianchi, zittendolo.
«Beh, se tu già sei riuscito a dargli
un’epoca
storica per approssimativa che sia… sei tu
l’esperto, mio caro Watson!», dissi assumendo
un’espressione fiera. Mi avvicinai a lui posandogli una mano
sulla spalla e ci
appoggiai il mento.
«Dai. Dopotutto è un libro, no?», dissi.
Lo
sentii annuire e sospirare.
«L’hai già aperto?», domandai.
Lui scosse
la testa.
«No, non ancora», mi disse.
Mi tornò in mente una sua famosa battuta
per farmi cedere e decisi di usarla stavolta in mio favore.
«Ci diamo un’occhiata?», gli chiesi
alzando
un sopracciglio e spostando lo sguardo dal tomo a lui. Mi
guardò di sbieco, poi
sorrise. Aveva capito che avevo preso da lui. Alzai le spalle e lo
guardai di
nuovo.
«D’accordo. Apriamolo»,
esclamò ad un
tratto. Mi sorrise e si avvicinò al libro.
Sollevò la copertina di poco, per
guardarmi.
«Sei sicura?», mi chiese serio. Io annuii
energicamente, sorridendo appena. Annuì a sua volta e
trattenemmo entrambi il
respiro mentre lui sollevava la copertina rigida…
Angolo Autrice
Bene, primo
capitolo di una nuova Fic –
originale stavolta, diciamo una piccola pausa da Eleventh... che
comunque non mi passa nemmeno per la mente di interrompere eh, sia
chiaro – che poi tanto “nuova” non
è, anche perché in effetti l’ho
iniziata nel 2009, poi oggi sistemando le scartoffie in camera da letto
me la
sono ritrovata tra le mani e mi sono detta…
perché non continuarla?
Quindi, appunto, ecco qui il primo
capitolo. Che dire… spero vi piaccia! E in ogni caso fatemi
sapere che ne pensate!
Grazie mille!
xoxo Jin
© Be
Your Love by Rachael Yamagata (WMG – Warner Music
Group)
© Blake,
Matt e tutti i personaggi de “La
Confraternita della Rosa” by me ;) (Nicole Gasperi)