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Autore: Exelle    27/07/2011    6 recensioni
“Savannah, eh?” disse Erik, dopo una breve occhiata a Charles, astenendosi dal fare altri commenti. “Credevo fossimo diretti da tutt’altra parte.”
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments, Movieverse, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Avviso ai lettori: La storia che ho scritto e quelle che seguiranno, mirano ad intersecarsi nella trama centrale del film X-Men, First Class. 
                             E' mia intenzione tuttavia, prendermi certe libertà, come il fatto che per questa prima parte ho spedito Erik e Charles in Georgia.
                             Se vi è utile qualche riferimento temporale, posso dirvi che attualmente E&C hanno lasciato Washington e dovrebbero tornare a Richmond, 
                             Virginia, alla base della Cia. Ma Charles non è molto entusiasta all'idea di tornare subito laggiù.
                             Buon divertimento. Exelle

 

There will be time… 
 
 
Ohne dich, zähl ich die Stunden ohne dich
Mit dir stehen die Sekunden
Lohnen nicht 
  
                                                                          Rammstein, Ohne dich
 

Savannah, Georgia 1962
 
Ai lati di Bonaventure Street, cominciavano a diradarsi le case. 
Le poche che ora rimanevano, basse case di legno bianco con gli infissi scrostati e zanzariere sbilenche, erano nascoste da giardini recitanti e alberi frondosi, su cui sembravano crescere abbondanti quantità  di muschio e altri nodosi rampicanti, in masse compatte.
Charles si stupì di come fosse riuscito a cogliere quei dettagli, oltre i vetri della macchina dove la pioggia tamburellava con violenza, scivolando subito via, all’apparenza densa, eppure tanto trasparente, per poi essere di nuovo rimpiazzata da altre grosse gocce rumorose spazzate via dai lenti tergicristalli.
Una macchina arrivò dalla direzione opposta, il suono del motore appena smorzato. Charles socchiuse appena gli occhi, mentre la luce gialla dei fari illuminava per un attimo l’interno del loro abitacolo. Per una frazione di secondo, riuscì a intravedere il viso di Erik, addormentato al suo fianco, ma non appena l’altra macchina passò oltre, ricaddero il buio e lo scrosciare indifferente della pioggia. E lui era di nuovo solo.
Dopo un paio di minuti, il paesaggio cambiò di nuovo. Sulla strada ricomparvero altri lampioni industriali, e caseggiati più grandi, con insegne colorate. La sagoma della macchina si specchiò sulle vetrine buie, mentre la pallida luce di qualche finestra solitaria, si rifletteva sui marciapiedi lucidi di pioggia.
Superò un ennesimo isolato, per poi svoltare in Maryland Avenue, sulla sinistra e poi ancora sulla destra, in un parcheggio apparentemente vuoto, illuminato dalla luce gelida di due grossi fari, posti abbastanza vicino all’ingresso del Monroe’s Motel - Con orgoglio di Savannah, Grazie e Arrivederci.
Charles parcheggiò la Plymouth a noleggio non molto lontano dall’ingresso. Spense il motore con un deciso giro di chiave, ma non le estrasse. Si limitò a slacciarsi la cintura e a mettersi più comodo sul sedile, appoggiando la testa contro il vetro gelido del finestrino e allungando la mano sul volante, ascoltando il tamburellare della pioggia sul tettuccio e guardando la tremolante luce dell’insegna duplicata in una delle larghe pozzanghere del parcheggio. 
Non hai il coraggio di svegliarlo…
Charles abbassò di scatto la mano dal volante, verso uno dei vani sotto al cruscotto, cercando, seppur vagamente, di non fare troppo rumore. Prese il pacchetto di Benson & Hedges che aveva comprato durante una delle soste, mentre attraversavano il confine con il Tennessee. Non le aveva nemmeno aperte, constatò. Non che fosse importante, ma  Charles solitamente non fumava. Lo aveva fatto ogni tanto a Oxford, per un certo periodo, e ancora ogni tanto, quando capitava, a qualche festa. Eppure, mentre lasciavano alle loro spalle il corso del Mississippi, aveva avuto la sensazione che prima o poi gli sarebbero servite.
Affondò una mano nella tasca della giacca, e rassicurato dalla presenza del suo accendino di metallo, aprì rapido la portiera e scese sotto la pioggia, ritrovandosi quasi subito con il colletto della camicia bagnato e la pioggia che gli scorreva giù per il collo.
“Maledizione” sibilò. Charles si voltò verso lo scuro abitacolo dell’auto, verso la lunga sagoma di Erik, nascosta dalla penombra. Stava ancora dormendo, ma Charles non corse rischi e richiuse la portiera con la massima delicatezza. Si avviò verso il limitare del parcheggio, in direzione opposta all’ingresso del motel, verso un largo spazio erboso dove crescevano numerosi alti cipressi e altri lussureggianti arbusti dalle larghe foglie. 
Gli avrebbero offerto un riparo migliore della striminzita tettoia di plastica all’altro angolo del parcheggio, vicino ad una vecchia Impala Chevrolet che doveva aver visto senz’altro tempi migliori.
Sentiva le spalle e buona parte della schiena fradice di pioggia, ma se non altro, al riparo dei grossi rami il rischio di farsi una doccia completa si sarebbe ridotto al minimo.
Dopo aver strappato l’involto delle sigarette, ne prese una, assicurandosi che la tasca in cui aveva deciso di riporle, non si fosse trasformata in una palude. Quando fece scattare l’accendino, assaporò con piacere la sensazione del calore della fiammella sulla pelle umida delle mani e del viso.
Fumò con calma, osservando la macchina da lontano al riparo delle fronde. La carrozzeria avorio sembrava luccicare debolmente, catturando la luce dei fari all’ingresso, mentre la pioggia continuava a cadere, a gocce così grosse che Charles si chiese se non avrebbero rovinato la vernice.
L‘idea di dover rimborsare anche le riparazioni alla società del noleggio, gli dava abbastanza fastidio.
Come gli dava fastidio l’essere scappato sotto la pioggia, con la banale scusa di una sigaretta di cui non aveva affatto bisogno, pur di non svegliare Erik.
Ripensò agli ultimi giorni, sentendosi molto stupido e avventato. Si erano presi la libertà di stare una settimana a Washington, vagando per la città come normali turisti, intervallando le loro visite con lunghe partite a scacchi. Non avevano nemmeno cercato qualcuno... Come loro.
Era come se non ne avessero avvertito la necessità.
L’ho fatto per Erik… si era detto Charles, e ancora continuava a ripeterselo, ogni volta che dubbi oscuri ed inspiegabili lo assalivano. L’aveva fatto per Erik che non aveva mai visto l’America e perché lui stesso, in fondo, non la conosceva veramente, standosene rinchiuso a Westchester County. 
Ma adesso, tra il rumore della pioggia scrosciante, il buio e l’odore umido e fangoso della terra e del bosco, quelle non apparivano altro che misere e fuggevoli scuse. Scuse che li avevano portati in Georgia con fin troppo ritardo e, almeno da parte di Charles, una crescente dose d’inspiegabile fastidio.
Non verso Erik, no. Si era dimostrato ben più che un semplice compagno di viaggio. Aveva un modo fin troppo diretto di dire le cose, a volte al limite di sferzanti sintesi che non ammettevano replica, ma quando applicava quella sua dote alle loro discussioni sulla fisica, sulla letteratura, spaziando dall’astronomia alla storia, Charles non poteva che sentirsi confortato ed ammirato.
Aveva l’egoismo di credere di aver trovato un suo eguale, ma forse Erik Lensherr era solo qualcuno che desiderava conoscere veramente. E Charles -nonostante lo volesse- non aveva intenzione di buttare al vento tutte le carte, leggendogli direttamente nella mente. Una volta tanto.
Charles gettò il resto della sigaretta per terra, schiacciandola nel terreno molle e seppellendola sotto un poco di terra nera. Rimpiangeva di averla fumata.
L’odore persistente del fumo sulle dita e nelle narici lo disturbava, così come il fatto di essere bagnato, lontano da casa, alle porte di uno squallido motel, in posti che conosceva a malapena.
Si accorse che tutti i suoi propositi di viaggio, andavano scontrandosi con la cruda realtà. 
Che il viaggio stesso stava finendo e questo lo metteva di malumore.
Gli stati del Sud rappresentavano l’ultima parte.  Niente viaggi lampo a Las Vegas, niente settimana oziosa nella capitale, niente lunghi giri per New York City in taxi costeggiando Central Park.
Solo strade interminabili a fianco di fiumi fangosi e desolate piane acquitrinose. Non dovevano più andare da nessuna parte, ma Charles voleva ostinarsi a proseguire quel viaggio ormai senza meta. Non sarebbero mai dovuti venire in Georgia, ma Charles voleva ancora tempo.
E ancora non poteva non sentirsi in colpa, perché lui aveva scelto quel modo per fare l’ultima parte del viaggio, lunghe ore di macchina intervallate da brevi soste in spiazzi polverosi. 
L’idea di risolverla con un paio di veloci scali in qualche aeroporto, aveva assunto dimensioni spaventose ed angoscianti, la brutta prospettiva di un sogno, poco prima di lasciare Washington. Allora, Charles aveva deciso. Anche se il viaggio era finito da tempo.
E adesso, non poteva non avercela con Erik per averlo assecondato, per essere finiti lì, per quella pioggia che non accennava a smettere. E lui era sempre più confuso.
Il grido di un uccello, o di un qualche altro animale che sostava in quei posti umidi e soffocanti, lo fece voltare. Charles scrutò tra il folto degli alberi, le mani affondate nelle tasche, stringendo nel pugno l’accendino, come se potesse servirgli, in qualche sciocco modo.
Avanzò di qualche passo nell’oscurità. Una goccia di pioggia gli cadde sul capo, per poi scivolare giù lungo la tempia. Prima che gli finisse nell’occhio, si passò una mano sullo zigomo, inspirando l’aria fredda della sera, sempre più teso e stanco. Si accorse che la fredda umidità che aleggiava in quel posto gli aveva incollato addosso i vestiti e di aver bisogno di una doccia, una doccia vera, per sfuggire a quel caldo appiccicoso …
Dovevano tornare indietro. Non era necessario recuperare un altro mutante, chiunque egli fosse, non lo era affatto. Aveva voluto partire per il Sud solo perché…
“Charles!”
Charles si riscosse, sgranando gli occhi e voltandosi di scatto. La luce del parcheggio non gli era mai apparsa così invitante. Si era allontanato di parecchi passi nel buio della macchia boscosa e ora tornò indietro, con l’unico riferimento delle luci del parcheggio, della macchina e dall’alta sagoma di Erik, proprio lì a fianco, stagliarsi sull’asfalto macchiato da ampie pozze.
“Charles!” disse ancora Erik ed ora sembrò girarsi proprio verso di lui, sotto la pioggia.
Nella fretta di raggiungerlo, Charles mise un piede in fallo e si ritrovò a scivolare inerte sul terreno. Cercò di aggrapparsi ad uno dei rami bassi di uno degli spogli rododendri, con il solo risultato di graffiarsi in malo modo. Arrossendo per l’imbarazzo, protetto dall’oscurità, si tirò velocemente in piedi spolverandosi alla bell’emeglio gli abiti, conscio che ora, oltre alle macchie di pioggia, dovevano essergli rimaste vistose chiazze di terra umida sui pantaloni.
Aggirò l’infida radice che l’aveva fatto cadere, tirando un sospiro di sollievo, quando i suoi passi incontrarono l’asfalto. Si passò nervosamente una mano tra i capelli, facendo vagare lo sguardo qua e là per il parcheggio, senza dar modo di voler incontrare quello di Erik. Non ancora.
Solo quando si ritrovarono a qualche passo di distanza, Charles posò gli occhi sull’amico, evitando accuratamente di far vedere quanto poco si sentisse a suo agio in quegli abiti sporchi e spiegazzati, sotto la pioggia che ormai andava scemando.
Quanto erano diventate importanti le apparenze, rifletté. 
“Savannah, eh?” disse Erik, dopo una breve occhiata a Charles, astenendosi dal fare commenti. “Credevo fossimo diretti da tutt’altra parte” aggiunse, aggiustandosi il colletto del giubbotto con un’occhiata perplessa all’insegna intermittente, dove le parole ‘Orgoglio’ e ‘Grazie’ lampeggiavano senza ‘G’ e senza ‘R’.
Charles affondò le mani sporche di terra nelle tasche, ondeggiando un attimo sui talloni, sentendosi vagamente colpevole.
“Ero stanco di guidare” mormorò. “Ti domando scusa. Avrei dovuto…”
Erik distolse la sua attenzione dall’insegna mal funzionante, voltandosi rapido verso Charles. Un’espressione cupa aveva attraversato i suoi occhi, facendo sentire Charles più che mai a disagio.
“No” disse. “Non chiedere scusa, avrei dovuto guidare io. Potevi svegliarmi, non mi sarei.. Arrabbiato.” 
Erik fece un breve, mezzo sorriso e Charles si sforzò di ricambiarlo, anche se lo sentiva molto diverso da quelli che si erano scambiati a Washington. Tuttavia, sembrava sincero.
Charles abbassò le palpebre, inspirando profondamente e sollevando una mano, in un gesto quasi di tregua e scusa, come se volesse interrompere quelle inutili divagazioni.
“E invece dovresti” mormorò. “Credo di aver commesso un errore.”
Charles aprì gli occhi e davanti a lui, ancora più vicino di prima, c’era Erik, a guardarlo, indecifrabile e funereo. Teneva il braccio posato sul tettuccio della macchina, e si era leggermente curvato verso di lui, in ascolto.
“Quale errore?” gli domandò.
L’acquazzone che li aveva sorpresi entrando nel circondario di Savannah ora non era niente di più che una pioggerellina di spilli d’acqua, che cadeva meschina sulle palpebre di Charles, che le sbatté di nuovo. Si sentiva sciocco, perché Erik non sembrava provare la minima irritazione a stare sotto quell‘acqua infida, né la volontà di allontanarsi dal parcheggio, da Savannah, da lui.
Charles prese un altro sospiro. Doveva dire a Erik la verità. Erano finiti lì per niente, il loro viaggio era terminato da un pezzo. Doveva dirgli che era ora di tornare indietro, riprenderei i contatti con la CIA a Richmond, chiudere la faccenda…
“Dobbiamo,” cominciò debolmente, ma Erik lo interruppe bruscamente, afferrandolo per il polso e spostandosi un poco alla luce, Charles con lui, verso i fari dell’ingresso, per poter vedere il taglio rossastro che attraversava il dorso della mano sinistra di Charles.
“Cosa hai fatto?”
Charles contemplò assorto la striscia di sangue e la pelle arrossata tutt’intorno. Doveva essere successo quando aveva cercato di afferrarsi a quei rami ed era stato così avventato, da non essersi nemmeno accorto di essersi ferito. Scosse la testa, cercando di impedire che quell’insignificante dettaglio potesse impedirgli di dire a Erik che era il momento di tornare a casa.
“Una sciocchezza. Sono solo caduto” disse sommessamente. Le lunghe dita di Erik gli cingevano ancora il polso e si scoprì quasi offeso, quando l’altro lo lasciò andare. Charles era rimasto così colpito da quel gesto, che non si era accorto che Erik stava ridendo, mettendo in bella mostra i denti, che in quella penombra apparivano bianchissimi ed affilati.
“Ti prego”, disse, smorzando appena il suo divertimento. “Dimmi che hai fatto tutto da solo!”
Charles si strinse nelle spalle, facendo un po’ di scena e guardandosi attorno nel parcheggio deserto. 
“Vedi qualcun altro qui?” replicò, recuperando il suo abituale tono rilassato. Erik scosse la testa, mentre un ultima smorfia divertita gli solcava il viso.
Batté una pacca rapida sulla spalla di Charles, che l’altro incassò divertito.  Poi gli passò le chiavi, mettendogliele nella mano non ferita.
“Vado a cercare qualcuno per farci dare una camera. Tu vedi di rimediarti qualcosa senza fango, in macchina” Erik si voltò rapido verso un punto ancora più lontano dalla lunga struttura a due piani del motel, oltre una recensione metallica, dove s’intravedeva una casa-roulotte con un piccolo giardino, che i cartelli indicavano come quella del custode. 
“Una camera?” domandò Charles perplesso, giocherellando con le chiavi, senza dare segno di aver capito il resto di ciò che Erik aveva detto.
Erik annuì, sovrappensiero, voltandosi verso di lui. “Una per te e una per me. Sempre che abbiano posto.” 
Erik lanciò uno sguardo eloquente al parcheggio deserto che Charles raccolse con la massima serietà.
“E’ un rischio che siamo disposti a correre?” domandò con un finto sguardo cupo.
Erik gli lanciò un’ultima occhiata divertita, prima di avviarsi verso lo spiazzo della roulotte. 
“Forse” disse, abbastanza lontano per non essere udito da Charles e abbastanza piano per non sentirsi da sé.
 
*_*_*
 
Per la modica cifra di 45 dollari a notte, il Monroe’s Motel offriva un servizio accettabile, - compreso frigobar, parcheggio gratuito, ampio bagno e possibilità di prolungare il soggiorno con prezzi convenienti -come Erik si era impegnato a ribadire, leggendogli enfaticamente una brochure, mentre lo accompagnava in una delle camere del primo piano, passando sotto al porticato verniciato alla meno peggio.
Charles poteva leggere un visibile aumento di disapprovazione nella sua voce mentre apriva la porta della stanza numero 23, entrando nel piccolo ingresso polveroso e nell’ancor più squallida camera, dove lo scarso arredamento di seconda mano, sembrava essersi fossilizzato nello stile di vent’anni prima.
Charles lanciò i vestiti che aveva recuperato nel bagagliaio e la sua piccola valigia sul letto, aspettandosi di vedere una nuvola di polvere sollevarsi nell’aria, ma non accadde. 
Rassicurato, si voltò verso Erik, scoprendolo ancora intento ad osservare l’attaccapanni di metallo nell’ingresso. Charles sospettò che lo facesse per non guardare lui.
Aveva chiuso la porta e, con crescente nervosismo di Charles, la sua disapprovazione sembrava addirittura essere accresciuta.
Charles si morse il labbro inferiore, mettendosi la mano ferita in tasca. Ora il taglio bruciava leggermente e decise di aspettare che Erik se ne andasse, per andare in bagno a lavare via il sangue secco. Decise di non fare l’ottimista; trovare del disinfettante lì dentro, equivaleva senza dubbio ad una speranza vana.
Avanzò verso Erik, chiedendosi perché non avesse preso nulla dalla macchina e interrogandosi sull’espressione apparentemente seccata che gli irrigidiva i lineamenti.
Probabilmente, Erik stava pensando a quanto era stato piacevole trascorrere la settimana precedente a Washington al Four Season, o alla bellezza della hall, o alla confortante presenza del servizio in camera…
“Solo per questa notte” disse Charles, appoggiandosi con noncuranza allo stipite della porta tra la camera e l’ingresso. “Mi dispiace di non aver scelto meglio” Charles pensò alla pioggia battente sul tettuccio dell’auto, il mal di testa e il caldo umido che gli impediva di pensare. A Erik che dormiva accanto a lui, mentre fuori tutto si faceva più scuro e sconosciuto. Al desiderio di fermarsi e tornare indietro.
Era stato indeciso e sciocco, e aveva guidato fino a superare il centro e poi era stato troppo codardo per tornare indietro, ed era stanco. Anche se quest’ultima sensazione non era affatto reale.  
Voleva essere stanco, ma non lo era.
“Non è un problema” disse Erik piano, socchiudendo appena le palpebre. “Sono stato in posti peggiori.”
“Al largo del porto di Miami?” disse Charles con tono leggero, mentre si allungava verso la porta e l’apriva, con un cigolio sommesso. Nel farlo, si ritrovò a cozzare contro Erik, che si era appena voltato verso di lui per fargli spazio nello scarso ingresso.
Inavvertitamente, o almeno così avrebbe detto a sé stesso più tardi, la testa di Charles si popolò di immagini confuse, grigie, nevose e perimetri di filo spinato. 
Deglutì lentamente, cercando di innalzare le sue difese psichiche ed uscire in fretta dalla mente di Erik, cercando di stringersi più saldamente alla maniglia della porta. Si appoggiò a quella con il suo peso, richiudendola, per poi girarsi senza avere il coraggio di mascherare l’espressione colpevole che sentiva dipinta  sul suo stesso viso.
Erik si era come ritratto, più lontano da lui. Charles poteva avvertire la sua rabbia aleggiare nello spazio che si era creato tra loro. Incerto sul da farsi, rimase in silenzio, ripensando a come avrebbe dovuto imparare a controllare quell’insopportabile talento per le battute inopportune, oltre alle scarse volte in cui s’infiltrava nelle menti altrui con quei trucchetti malriusciti da sensitivo.
“Mi hai letto nella testa, Charles?” domandò Erik in tono pacato, guardandolo come un fastidioso insetto.
O almeno, Charles ne ebbe quell’impressione, riuscendo a sentirsi solo più sconfortato e dispiaciuto.
“Mi dispiace...” replicò, scuotendo il capo e cercando di oltrepassare Erik per andare nella stanza, ma l’altro si interpose sulla porta. Charles si bloccò di colpo. Preferiva evitare di andare a sbattere contro la gente per trovare una scusa per leggergli nella mente. Lo sguardo gelido di Erik, era una conseguenza ben più che evidente.
“Perché continui a dirlo?” chiese Erik, accartocciando la brochure del motel nel pugno e fissando l’amico con calma raggelante. Charles si passò una mano sulla fronte. “Perché è giusto così…” Charles sospirò. Non aveva davvero scusanti, non sapeva nemmeno cosa dire.
“Quando avrai deciso di tornare a comportarti normalmente, fammelo sapere. Parlandone” disse Erik, gli occhi brillanti d’ira. Charles aggrottò la fronte, più per disappunto che per nervosismo.
“Normalmente? Cosa intendi dire?”
Erik fece un verso spazientito, poi riaprì di scatto la porta d’ingresso e uscì sul porticato a passo deciso, avviandosi verso la sua stanza. Charles lo seguì, almeno finché non svoltò un angolo della struttura, sparendo alla vista.
In quel momento, un pensiero, apparentemente estraneo, si dipanò nella sua mente.
Erik non aveva preso stanze vicine come aveva fatto di solito.
Charles sbatté il palmo della mano contro uno degli infissi della porta, facendo cadere un po’ della vernice scrostata sulle assi opache del pavimento. Sentiva la gola secca e una vaga sensazione di oppressione schiacciargli il torace, come se non riuscisse a respirare veramente. Si guardò intorno, la debole luce dei faretti appesi non illuminava nient’altro che lui.
Sono stato in posti peggiori. 
E Charles, Charles non era mai stato peggio.
 
 
^_^_^
 
 
Erik ripercorse il tragitto che superava la sua stanza da quella di Charles a passi lenti ma decisi. Arrivò a metà strada, perfettamente in grado di vedere il numero 23 stagliarsi nitido sulla porta macchiata e chiusa, quando si fermò, inclinando appena il capo, pensando.
Guardò il quadrante dell’orologio, dove le lancette sembravano congiungersi sul numero 11, poi si appoggiò alla balaustra malmessa e scrutò l’oscurità, debolmente rischiarata dalla luna. Se non altro, le loro stanze non davano sul parcheggio, ma solo su una muraglia di alberi dai tronchi scuri e dai rami carichi di foglie, dietro cui giungeva il rumore di lenti corsi d’acqua, popolati da moltitudini insetti.
Erik si riscosse, tornando a guardare il 23 di ottone luccicare come metallo liquido, nell’alone biancastro delle luci del portico. Era passata un’ora da quando aveva lasciato Charles, e non aveva dubbi che quello era stato senz’altro un tempo fin troppo lungo, fin troppo inutile.
Non avrebbe voluto andarsene. Provava solo rabbia verso sé stesso e ne aveva provata fin troppa, mentre cercava di far capire a Charles quanta debolezza c’era nei suoi ricordi.
Era stato ingiusto ed egoista, scaricare la sua tensione su un gesto tanto insignificante. Erik avrebbe voluto far finta di niente, passare oltre, ma non ci era riuscito.
Come se Charles non sapesse già.
Charles sapeva fin troppo, rifletté.  Aveva potuto vedere ogni cosa tra quelle immagini confuse che si affrettavano a comparirgli nella testa mentre il sottomarino di Shaw scompariva in abissi più profondi e lontani.
Erik temeva che Charles potesse sapere ogni cosa di lui e la prospettiva più spaventosa, era il rischio di finire oggetto della sua compassione, o del suo odio, se avesse visto quei ricordi con una fisionomia definita, se avesse percepito l’orrore, la paura, la solitudine e la rabbia che li animavano.
Ma Erik era così spaventato e tentato da quella possibilità che non poté far altro che avvicinarsi alla porta della stanza di Charles, stringere la mano e bussare.
Aspettò per qualche lungo secondo, poi vedendo che Charles non rispondeva, riprovò.
Controllò l’orologio, fissando innervosito l’orologio. Charles non poteva essere uscito, o forse sì?
In fondo, lui aveva voluto fermarsi a Savannah, indipendentemente dalla volontà di Erik o almeno così gli era sembrato. Forse Charles era davvero stanco e l’idea di vederci qualcosa, dietro quell’atteggiamento remissivo e nervoso che aveva tenuto negli ultimi giorni, poco dopo essere partiti da Washington, era solo un’impressione.
O forse era solo un lato di Charles, un aspetto che lui non conosceva… del resto, come poteva? L’aveva incontrato da così poco tempo e per quanto ne avessero trascorso insieme da allora, rimaneva pur sempre un numero esiguo di settimane. Erik aveva la presunzione di credere di non poter risultare comprensibile nemmeno dopo anni, ma d’altronde, non si era mai tenuto accanto nessuno per così  a lungo.
E per quanto la dote di Charles, potesse apparire utile nel capire gli altri, Erik non intendeva rendergli la vita facile, per quanto quell’insolita prospettiva lo attirasse.
Alzò di nuovo il braccio con uno scatto, e le sue nocche avevano appena sfiorato il legno che la porta si aprì.
Lo spiraglio si allargò e la figura di Charles fece capolino nell’ingresso. Si era cambiato i vestiti, sostituendo l’abituale giacca con una camicia a maniche corte e una semplice maglietta. Dopo l’iniziale sorpresa, accennò un sorriso cordiale ed Erik dimenticò ogni cosa; lo scontro di poco prima, i suoi pensieri, l’incerto perché fossero lì, svanirono. Per la prima volta da lungo tempo, Erik avrebbe voleva vivere un po’ il presente e non perché ci fosse costretto.
 
 
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Il bar era così affollato e rumoroso che non appena Charles ed Erik vi misero piede, avvertirono un’identica sensazione di disagio che nessuno dei due riuscì a percepire nell’altro.
Il primo a vincere la linea invisibile che li separava l’area dell’ingresso dagli altri avventori fu Charles, che sembrò calarsi nei suoi migliori panni di ex-universitario, meglio di quanto potesse fare il compassato Erik. 
Lo seguì, tra un paio di coppie affaccendate a ballare una triste canzone country poco lontano dal bancone a cui si diresse Charles, appoggiandocisi senza perdere tempo e lanciando occhiate interessate tra la folla. Erik, lo seguì, per nulla interessato a quella massa di persone normali, alle loro risa sguaiate, ai loro bicchieri mezzi vuoti e ai fili di fumo delle loro sigarette. Studiò le lucide travi di legno antico che fingevano di essere lì, dai tempi in cui quel locale non era che una bettola per i marinai che risalivano il Savannah, mentre Charles batteva una mano davanti alla giovane barista e con un gesto ed un sorriso, indicava una zona di tavoli semi occupati. Erik vide con la coda dell’occhio la barista, sorridere per qualcosa che Charles aveva detto, lanciandogli un’occhiata fin troppo interessata che Charles sembrò ricambiare.
Erik non riuscì a sentire la loro conversazione, perché Charles gli indicò rapido un paio di posti vuoti, lungo una delle pareti ingombre di quadri navali, bandiere e un orribile teschio di alligatore. Charles fece di nuovo strada, non prima di voltarsi e fare un altro cenno alla ragazza, che rise, afferrando una delle bottiglie su una delle mensole sopra di lei.
“Jess, ventidue anni e vive dall’altra parte del fiume” cominciò Charles non appena si furono seduti, l‘uno di fronte all‘altro. “Studia alla scuola d’arte di Savannah, ma sta pensando di lasciare. E’ un peccato, perché disegna davvero bene.”
Erik lo squadrò spazientito. “Cosa ci guadagni a saperlo?”
Charles scosse la testa. Che idiota, era ovvio che Erik non avrebbe apprezzato, non erano passate nemmeno due ore da quando si era messo a fare l’intruso nella sua testa e ora, era di nuovo lì, pronto a sfoggiare le sue capacità con l‘ultima persona con cui avrebbe desiderato farlo.
“Confesso che la mia sia un abitudine irritante” disse, alzando le spalle e sentendosi un po’ più sé stesso, nell’affermarlo sinceramene. Almeno per quella sera, voleva mettere da parte il ragazzo titubante e indeciso che si era mostrato negli ultimi giorni. “E Jess è fidanzata, quindi, inutile proseguire oltre.”
Erik fece un sorriso storto, ma non commentò. Rimasero un po’ in silenzio, Erik a osservare una stampa color seppia del porto di Savannah, Charles con lo sguardo fisso nel vuoto, ogni tanto distratto da qualche volteggio entusiasta sull’improvvisata pista da ballo.
La radio, a volume già abbastanza alto, aveva attaccato un’ ancor più rumorosa versione di She’s not there, e la banda di adolescenti a tre tavoli di distanza da loro, si stava alzando rumorosamente per accompagnare le uniche due ragazze del gruppo a casa.
Grazie, pensò Charles, rivolgendo il suo pensiero ad Erik, senza guardarlo. Preferì impuntarsi a fissare la coda bionda di una delle ragazze saltellanti sulla pista, che gli amici continuavano a chiamare Cindy, nonostante Charles sapesse che il suo vero nome era Rebecca Dobson.
Erik fece una smorfia contrariata, Perché? Pensò, rivolgendo la sua attenzione a Charles.
Per avermi fatto uscire. Ora sto meglio. Ero stanco di essere sempre… stanco.
Erik si tolse la giacca, prima di rispondere.
Potevi anche dirmelo mentre venivamo qui. Sia Charles che Erik, rividero loro stessi passeggiare per  Williamson Street alla ricerca di un locale aperto. Non c’è alcun bisogno che tu continui ad entrare nella mia testa. Non c’è differenza.
Charles si voltò di scatto verso di lui, fissandolo con occhi insolitamente allarmati.
C’è molta differenza.
Erik voleva davvero chiedergli quale fosse quella differenza, ma furono interrotti da Jess la barista che si affrettò a servire ciò che Charles aveva ordinato, per nulla interessata al perché due tizi venissero in un bar per stare in silenzio, a fissarsi.
Erik la vide sorridere a Charles con presunta aria complice, ma Charles, Charles fissava Erik e così toccò a lui ringraziare la ragazza, lasciandole cinque dollari in più di mancia.
Erik prese per sé uno dei due bicchieri di whiskey, facendolo dondolare con le dita, il ghiaccio semisciolto tintinnante all’interno. Faceva davvero troppo caldo.
Qual è la differenza?
Charles prese l’altro bicchiere, ma si limitò a spostarlo più vicino a sé.
Ci sono cose che riesco a dire a voce. Altre riesco solo a pensarle. Sono un essere umano, in fondo.
Una linea sottile si disegnò sulla fronte di Erik.
“Se tu fossi… umano, non ci saremmo mai incontrati” disse, bevendo un sorso di whiskey annacquato. Come se quella considerazione bastasse a ridefinire, ad aggiustare tutto.
Charles avvertì di nuovo quella sensazione di oppressione al petto, le tempie doloranti e le mani gelide, come se si fosse ammalato di colpo. Cercò di sistemarsi, mettersi più comodo, ma la tensione si era impadronita di lui. Non gli piacevano i punti che la loro conversazione stava andando a toccare.
E’ una differenza che non puoi capire allora, replicò Charles contrito, sapendo quanto quelle parole fossero ingiuste. Erik era semplicemente sé stesso, e lui non era in diritto di giocare a fare il melodrammatico contorto. Ma non poteva fare a meno. Se quello era il solo modo per riuscire a smuoverlo, a capire perché si dovesse sentire quasi dipendente da Erik… non c’era altra soluzione. E Charles, desiderava così tanto capirlo, a ma non era capace di desiderarlo fuori dalla sua testa, ed era così egoista che non poteva non fare a meno di farlo arrabbiare.
Si sentiva perduto, nel trovare ciò che così a lungo aveva cercato.
Erik sembrò non raccogliere la provocazione. Rimase in silenzio a lungo, non pensando a nulla in particolare. Di fronte a lui, Charles attendeva con terrore il momento in cui gli avrebbe detto di uscire dalla sua testa. L’avrebbe certamente fatto e lui..
E invece posso comprenderla, pensò Erik, chinandosi appena nella sua direzione, dall’altra parte del tavolo e lanciando un’occhiata verso il locale che andava svuotandosi.
Come?
Con sorpresa di Charles, Erik continuò ad assecondarlo, rispondendogli ancora nella mente. 
So che non l’hai fatto apposta. Non con cattive intenzioni, intendo.
Charles, attraverso la mente di Erik, riuscì a rivedere loro due al motel, lui che si sporgeva e, di nuovo, quelle immagini a cui riusciva a pensare solo come grigie e nebulose.
Ma non potevo dirtelo, spiegò Erik. Ci sono cose che possono essere solo pensate, e altre che possono essere solo dette, giusto. E non dipende da noi.
Erik aveva preferito andarsene, piuttosto che affrontare una discussione su quali ricordi Charles avesse visto. E Charles lo capiva e decise che d’ora in avanti, non avrebbe trovato scusanti.
Non avrei mai dovuto, è vero. Ma non ho potuto farne a meno.
Riabbassò rapido lo sguardo sul fondo del suo whiskey, dove il ghiaccio si era ormai del tutto sciolto. Aveva assunto un color miele più chiaro, quasi dorato, che Charles si ritrovò a osservare guardandone le sfumature, cercando di dissimulare il suo imbarazzo, finché Erik non gli toccò la mano, invitandolo ad abbassare il bicchiere. Charles, sentì una scossa del tutto immaginaria percorrergli il braccio. Prima che potesse trattenerlo, il bicchiere gli sfuggì dalle mani e finì sul tavolo, rovesciandosi, mentre una crepa sottile si disegnava sul vetro.
Il whiskey dorato si allargò sul tavolo tra di loro, dipanandosi sul tavolo di legno scuro come una mappa liquida. Charles prese rapidamente un fazzoletto dalla tasca dei pantaloni, affrettandosi ad asciugare il ripiano del tavolo, sotto lo sguardo imperscrutabile di Erik.
Ben presto il fazzoletto s’inzuppò del tutto e Charles fece che schiacciarlo nel piccolo posacenere di vetro opaco. Raddrizzò il bicchiere, che fortunatamente non si spezzò in mille frammenti, ma tenne lo sguardo obliquo a terra. Rimasero ancora in silenzio, finché Erik non si alzò, lasciando un paio di dollari sul tavolo, a debita distanza dalla macchia lucida di whiskey.
“Io torno indietro” disse lentamente. Charles si aspettò di sentirlo aggiungere qualcosa, ma quando alzò lo sguardo, Erik era ormai lontano e lui, era rimasto lì seduto, a chiedersi dove Erik volesse tornare.
Sentendosi umiliato dà sé stesso, Charles trattenne a stento un verso simile ad una risata, passandosi la mano sulla fronte. Scosse la testa, poi si girò verso il bancone e fece un cenno a Jess la barista.
 
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Ho provato la tua angoscia. Posso aiutarti.
Non ti impedirò di andartene. Potrei. Ma non lo farò.
Tra l’oscurità e la leggera nebbia, inevitabile conseguenza in quelle zone di caldo tropicale, oltre le alte sbarre di ferro intrecciato che delimitavano l’esterno del Bonaventura Cemetery, si stagliavano cupe sagome di pietra. Alte statue alate e curve, le mani giunte e le teste chine. Come creature seppellite sotto alle ombre degli alti cipressi neri, vegliavano tombe e lapidi, ossa e terra. 
Il cartello giallo paglierino delle visite guidate, affisso nella bacheca di legno all‘ingresso, era incredibilmente fuoriposto, assieme agli altri chiassosi opuscoli. Alcuni annunciavano un incontro alla Sorrel Weed House per discutere della risistemazione dell’area Nord-Est del cimitero, dove il terreno era diventato più instabile per la deviazione di un corso d’acqua, altri, invitavano un certo signor Felton, a ritirare le sue chiavi nel negozio di Dot Hammond, in Merchant Avenue.
The Bird Girl will judge you too aveva inciso qualcuno, su una delle assi che componevano la struttura. Erik la lesse, perplesso. La parola judge, era coperta da un leggero strato di resina, che invece di renderla meno leggibile, la faceva luccicare alla luce dei vecchi lampioni, come se fosse evidenziata.
Erik d’impulso provò l’istinto di cancellare quella scritta, anche se sapeva che non significava assolutamente nulla, che non era nulla, per lui. Si mise le mani in tasca, allontanandosi di qualche passo e avvicinandosi all’ingresso della grande area cimiteriale, tra le due tozze colonne squadrate, unite dal cancello di metallo torto in oscure volute ferrose. Una barriera tra i vivi e i morti.
Tra coloro che parlano e coloro che non parlano più.
Non sei solo, Erik. 
E invece lo era. Ormai era tanto ovvio e tanto stupido ribadirlo, che Erik ne era quasi annoiato. 
Ma quando era stato Charles a dirglielo non era stato così.
Non ti impedirò di andartene
Charles aveva mantenuto ancora la sua parola. Era rimasto seduto, senza dare alcun segno di volersi alzare. Con gli occhi fissi a terra, come sempre in quegli ultimi giorni. Non si guardavano. Non lo guardava. 
Ad Erik andava bene così. Pur di non vedere quell’espressione di perenne, risoluta aspettativa sul volto di Charles, Erik sarebbe stato felice di non doverlo guardare in faccia, mai più.
E soprattutto adesso che si comportava da debole, ricorrendo ad espedienti sciocchi pur di guardargli nella mente…
Non avrei mai dovuto, è vero. Ma non ho potuto farne a meno.
Finalmente Charles l’aveva ammesso, ma poteva comunque controllarsi. Anche se con lui, con lui non voleva farlo, come se Erik non l‘avesse capito. Il suo desiderio di leggere nella mente di Erik era diventato così evidente negli ultimi giorni, che Erik ne era quasi disgustato. Perché Erik stesso glielo avrebbe permesso, se solo Charles gli avesse parlato, e non usato contorti giri di parole e incomprensibili ripensamenti…
E Charles, anche se ora era riuscito in qualche modo, a parlare, continuava a fingere o a non accorgersene apposta, e tutto assumeva contorni meschini e falsi.
Non lo sopportava, non condivideva le ultime sue decisioni. Erik riprese a camminare, costeggiando il lato del cimitero. Avrebbe voluto entrare, ma era stanco, di una stanchezza diversa per quella di mancanza da sonno.
Non lo sopportava, perché non ammetteva che qualcosa stava cambiando.
Non lo sopportava perché Charles, nel suo egoismo, credeva che quel cambiamento coinvolgesse solo lui.
La pioggia ricominciò a cadere, leggera in gocce sottili e dritte come aghi, impercettibile e fresca, nella notte afosa. Andare avanti significava tornare da Charles, ed era ancora troppo presto.
Erik tornò sui suoi passi, nonostante la sensazione che di un vago mal di testa, pronto ad aggredirgli le tempie.
Con un cenno, la vecchia intricata serratura del Bonaventure Cemetery cedette. Il rumore cigolante del metallo antico, risuonò nel grande spazio deserto, salendo fino alle cime degli alberi.
Erik s’incamminò per il largo viale, senza guardare dietro di sé.
Se Charles voleva trovarlo, l’avrebbe trovato.
 
 
 
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Il rumore scrosciante dell’acqua contro le piastrelle scadenti, risuonò quasi dolorosamente nelle orecchie di Charles. L’acqua gli finì negli occhi, nelle orecchie, appiattendogli i capelli sulla testa, offuscandogli la vista.
Non che ci fosse molto da vedere, in quel piccolo universo bianco e grigio che era il bagno della stanza al Monroe’s. L’acqua usciva quasi tiepida e Charles colpì con la mano la maniglia, spostandola da quella che avrebbe dovuto essere ‘calda’ a ‘fredda’. Il getto lo accontentò. Gelide gocce di acqua clorosa lo tempestarono avide. Si appoggiò con i palmi alla parete piastrellata, lasciandosi scivolare in basso, ritrovandosi inginocchiato nel basso strato d’acqua che si era formato nel piatto della doccia.
Tremava leggermente, ma non per l’acqua fredda che gli pioveva addosso. E la gola, la gola gli faceva male, come stretta in una morsa. 
No, solo un’impressione. In realtà bruciava appena. Ma preferiva immaginare di essere malato piuttosto che pensare o fare qualcosa che non fosse compatirsi. Stava diventando tutto dannatamente difficile. E lui così incapace.
Tenne la mano sul capo, mentre l’acqua e il piccolo bagno e la sua testa e la sua percezione, vorticavano tutt’attorno. Che importava? Voleva chiamarlo, non importavano le conseguenze.
Per dirgli cosa? Che sei ubriaco sotto la doccia? Lo troverà interessante. Come se obbedisse ai tuoi ordini.
All’improvviso, le conseguenze sembrarono pesare moltissimo e Charles si ritrovò ad abbassare la mano di scatto, colpendo una delle pareti scorrevoli di plastica smerigliata.
Si aggrappò alla maniglia dell’acqua, chiudendola e risollevandosi. Barcollando leggermente, uscì dalla doccia, posando con attenzione i piedi sulle piastrelle consunte, coperte da qualche scarso millimetro d’acqua.
Afferrò uno degli asciugamani posti sull’armadietto basso vicino alla porta, affrettandosi a recuperare i suoi vestiti e ad indossarli. Non aveva voglia di uscire da lì non vestito. 
Avrebbe dato un’impressione sbagliata.
L’orlo bagnato dei pantaloni lo infastidiva, così come la camicia spiegazzata che aveva messo per uscire, ma scoprì che erano solo dettagli insignificanti e sopportabili. Aprì di malavoglia la porta che dava sulla stanza, appiattendosi e tirando indietro le ciocche di capelli ancora umide che gli ricadevano sulla fronte.
“Dolcezza?” Jess la barista, alzò gli occhi da una delle brochure che stava leggendo con l’aria di chi non sa leggere, rigirando una sigaretta tra le dita smaltate di rosso. Doveva aver frugato nella giacca di Charles, ora abbandonata ai piedi del letto sfatto, perché le sue Benson&Hedges erano scivolate sul pavimento. Irritato, Charles le raccolse. Il pacchetto sembrava ancora umido di pioggia, o forse era solo perché era appena uscito dalla doccia. Si girò e le ripose in uno dei cassetti bassi dell’armadio.
“Fumatene una” disse Jess la barista, tornando a scorrere la brochure con l’aria di un pesce che prende il sole. “Può solo farti bene” aggiunse con un sorrisetto beffardo.
“Non fumo” disse Charles piano ma in tono cortese. Socchiuse appena gli occhi, mentre un giramento di testa più forte degli altri, lo costringeva ad afferrare il ripiano del mobile accanto a lui. Jess la barista fece un verso con la bocca, simile ad uno schiocco, per poi aspirare un’altra boccata dalla sigaretta senza commentare il fatto che le sigarette trovate fossero di Charles. 
“Potevi dirmelo che non reggevi l’alcool” disse con aria sufficiente. “Almeno avrei evitato di venire fin qui per …” Jess la barista inarcò le sopracciglia con aria esasperata, lasciando la frase in sospeso. Charles si astenne dal commentare, aveva bevuto davvero troppo per pensare di poter sostenere una conversazione con una sconosciuta. In altre circostanze l’avrebbe anche fatto, ma ora non sopportava nemmeno la vista di lei.
Jess la barista lanciò la brochure sul comodino, fece un ultimo tiro dalla sigaretta e dopo averla schiacciata nel posacenere, cominciò ad allacciarsi i bottoni della camicetta, lanciando, ogni tanto, occhiate astiose all’indirizzo di Charles.
Si alzò rapida dal letto, aggiustandosi la gonna e abbassandosi sul pavimento per recuperare le scarpe. Charles osservò le ciocche bionde muoversi in morbide onde, per poi ricaderle davanti al viso imbronciato, mentre si chinava appena per allacciare i cinturini alle caviglie.
Stava mormorando qualcosa, ma le uniche parole distinte che Charles riuscì a cogliere furono: stupido nordista. Non sprecò tempo ad entrarle nella testa; la stanza del motel rappresentava già una realtà abbastanza squallida in cui crogiolarsi.
“Un consiglio per te,” disse Jess la barista, aggiustando la lunga tracolla della borsetta attorno a sè. 
“Non bere. Così eviti di deludere qualche ragazza.” Poi gli si avvicinò e gli diede uno schiaffo leggero sulla guancia, fissandolo con uno sguardo che voleva essere in qualche modo seducente, ma che sul suo viso dai lineamenti infantili e puliti, sembrava solo una brutta smorfia.
Charles fece un verso simile ad una risata smorzata, cercando di trattenersi.
“Perdonami” disse. “Ma non sono stato io a chiederti di spogliarti e di fare quella sceneggiata.”
“Volevo solo essere gentile” disse Jess la barista con voce tagliente. “Va al diavolo. Impara a tornare a casa da solo.” Andò verso la porta, tremando per la rabbia e l’aprì di scatto.
Si girò ancora una volta, ma Charles le fece un cenno di saluto con la mano, con una faccia divertita, pur cercando di non apparire arrogante. Era contento che lei se ne andasse.
La ragazza scosse il capo, fece un verso di spregio e si allontanò, dopo aver sbattuto seccamente la porta. 
Nonostante il mal di testa, Charles cominciò a ridere, sempre più forte, con le lacrime che cominciavano a salirgli agli occhi, per quel gran ridere e davvero, non voleva smettere perché era tutto così divertente, e spassoso, e dannatamente allucinato che non c’era nient’altro da fare che lasciarsi cadere sul letto, rotolarsi tra quelle lenzuola ruvide e consunte e continuare a ridere, perché tutto era così divertente e lui era ancora così ubriaco, e gli occhi continuavano a lacrimargli. E quando sarebbe tornato Erik glielo avrebbe raccontato e allora avrebbero riso assieme, ed Erik gli avrebbe detto di non farlo più e allora Charles avrebbe potuto…
Charles si raggomitolò sul letto, le gambe intrappolate tra le lenzuola e le coperte, rigirandosi su di sé, afferrandone lembi con le mani, stringendo quella stoffa finché le nocche delle sue mani non sbiancarono, cercando di chiudere gli occhi e non pensare.
Le lancette dell’orologio appeso al muro segnavano l’una e dieci di notte, ma Charles non le vide. Sapeva già da solo che il tempo stava scorrendo fin troppo lentamente, e non aveva idea, riguardo a quando le ore avrebbero ricominciato a scorrere a velocità normale.
E la colpa di quello era di Erik, perché adesso, con il cervello attraversato da veleggianti pensieri e sfarfallii di sensazioni e memorie, in quell’universo offuscato, Charles riusciva a vedere distintamente quello che continuava a ignorare. 
Non c’era niente, niente di sbagliato, in quell’universo di nebbia, a parte il disperato desiderio di stare con Erik Lensherr, perché solo così il tempo avrebbe ripreso ad andare avanti. Ma aveva appena cominciato  a realizzarlo e a lasciarsi persuadere da quell’idea, che gli occhi gli si chiusero davvero e Charles si addormentò.
La mano ancora solcata dallo sfregio rosso,  vicino alla tempia, come se non aspettasse altro che trovarlo.
 
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La ragazza bionda gli passò a fianco, scendendo precipitosamente le scale. Erik la guardò appena, ma riuscì a collegare la sua faccia con la ragazza che li aveva serviti al locale. Se lei avesse riconosciuto Erik, non lo diede a vedere. Continuò a camminare per il parcheggio, dribblando le pozzanghere, con i tacchi che risuonavano decisi sull’asfalto, fino a venire inghiottita dalle ombre della strada.
Lui non la vide andar via, perché mentre Jess la barista sparisce da questa storia per non farvi più ritorno, Erik arrivò al primo piano del motel, camminando sulle assi cigolanti del porticato, passando accanto alle porte chiuse e alle finestre scure delle stanze vuote. 
Girò l’angolo e per quanto potesse sembrare melodrammatico, non ci mise che un attimo a ritrovarsi davanti alla porta della stanza 23. La notte si era fatta solo più fresca, rispetto a quando si era fermato davanti a quella stessa porta, poche ore prima.
Era stata una serata così maledettamente confusa. 
Erik sfiorò la maniglia e prima ancora che potesse pentirsene, fece scattare gli ingranaggi della serratura. Rimase colpito, quando vide che in realtà non ce n’era bisogno; la porta era aperta, Charles non si era dato la minima pena nel chiuderla. O forse…
Erik entrò deciso, attraversando il piccolo ingresso. Si bloccò solo sulla soglia della camera, a debita distanza, per vedere la figura di Charles sdraiata scompostamente sul letto, il viso nascosto tra le braccia.
Sembrava aver ingaggiato una lotta con le coperte, dal modo in cui le stringeva tra le mani pallide. 
Come un bambino che non riesce ad dormire.
The Bird Girl will judge you too** ricordò Erik senza una precisa ragione. Che diritto aveva lui di giudicare l’atteggiamento di Charles? Per quanto adesso apparisse diverso dal ragazzo arrogante che l’aveva trascinato fuori dalla baia di Miami, cercando di assoldarlo in un progetto che gli era fin troppo familiare ed era fin troppo sbagliato..
Andarsene non era la fine di nulla, era solo questione di tempo.
“Erik” mormorò Charles muovendosi  appena. Erik si riscosse dai sui stessi pensieri. Credendo che Charles si fosse svegliato, fece un passo nella sua direzione, per poi fermarsi, vedendo che in realtà continuava a dormire, tenendo le palpebre così serrate che c’era da chiedersi se non gli facessero male.
Non gli avrebbe chiesto scusa per averlo lasciato da solo; Charles aveva scelto di non fermarlo e se le conseguenze erano quelle, era adulto, poteva accettarle.
Andarsene da Savannah, quella era la soluzione. Tornare alla base della CIA per cominciare il lavoro, quella era la cosa giusta da fare. 
No, la cosa giusta da fare è trovare Shaw. Trovarlo ed ucciderlo. Perché per quello Erik era lì e il resto era solo cornice. E comunque dovesse andare, Charles rientrava in quella zona d’ombra, poco fuori la luce del suo vero obbiettivo, che presto o tardi avrebbe cessato di essere importante.
O così aveva creduto.
Charles era davvero un egoista, se pensava che le cose stavano cambiando solo per lui. Che fossero cambiate solo per lui
“Non c’è niente da cercare qui” disse, come se davvero Charles fosse in grado di rispondergli. Forse avrebbe potuto, se non fosse stato così sciocco da finire vittima di sé stesso.
C’era una parola, in tedesco, per definire il malessere che affliggeva Charles, quella stessa afflizione che Erik trascinava con sé fin da troppo tempo e di cui non si sarebbe mai liberato.
Sehnsucht si chiamava e, come Erik sapeva bene, non c’era modo per vincerla ma solo… rassegnarsi.
Ed Erik era ciò che provocava la Sehnsucht di Charles e, come Erik aveva capito, Charles era l’unico modo che lui aveva per allontanarla da sé.
Una considerazione tanto semplice e netta, che non riusciva minimamente ad esprimere. L’avrebbe fatto, perché il coraggio non gli mancava. Ma come poteva, se Charles continuava a dimostrarsi tanto…
Forse Erik stava sbagliando. Forse…
Sarebbe stato più semplice, pensò, togliendosi la giacca e posandola sulla sedia nell’angolo, se Charles fosse rimasto con quella ragazza. Se avesse preso qualche stupido impegno con quella donna della Cia, Moira. Ne sarebbe stata più che felice, il suo apprezzamento per Charles non era poi così difficile da indovinare.
Charles fece un altro verso nel sonno, impossibile da classificare come una qualche parola, spostandosi sul fianco e allungando di un poco il braccio, lasciando andare le coperte. Come se cercasse qualcosa attorno a lui.
Lei s’è n’è andata pensò Erik, ma non lo disse a voce alta. Anche se Charles non l’avrebbe sentito, gli sarebbe stato troppo difficile dirlo.
Charles si stava tormentando per nulla, la soluzione era così semplice. Tendeva a complicarsi la vita, anche quando aveva tutto, a farsi carico di problemi non suoi…
Era un impiccione, ecco cos’era, pensò Erik sedendosi sul bordo del letto. La sua stessa mutazione confermava quell’indole del suo carattere. Un’impiccione ubriaco, e stanco, e incapace di capire ciò che era meglio per lui. Nell’idea del mondo che Charles aveva, non c’era niente di difficile. Gli piaceva solo crearsi complicazioni.
E in quel mondo semplice che era la vita di Charles, Erik non ci voleva entrare.
Ma, si disse, mettendosi più comodo e appoggiando la schiena alla spalliera di legno bianco, non c’era niente di male a stargli solo un po’ vicino.
 
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 I suoi sogni si popolarono di nebbia e neve, gelido vento e ore interminabili. Grate di metallo correvano accanto a strade sterrate, coperte di brina e fango. Grida soffocate laceravano l‘atmosfera.
Ma lui non c’era, non era lì. Non aveva mai vissuto niente del genere. 
Charles capì di essere dentro ricordi non suoi, ma stranamente quella considerazione aveva scarsa importanza, in quell’universo grigio e cupo. 
La notte tagliente illuminava un paesaggio freddo, intervallato da bassi caseggiati di legno e fari bianchi puntati nell’oscurità. C’era un crescente brusio di voci, e il rumore di spari, e ancora grida, e faceva sempre più freddo e Charles non sapeva più a cosa credere, finchè non si ritrovò sdraiato su un bianco tavolo, portato via dall’ombra e dalle grida. Poi una voce, gelida come il paesaggio davanti a lui disse,
Dies ist kein Platz mehr für dich. 
Ora avvertiva la sua schiena nuda, ritrovandosi sdraiato su un tavolo dal piano marmoreo, freddo e lucido, con venature d’ossidiana. Non poteva muoversi, lacci rigidi e terribilmente stretti gli bloccavano polsi e gambe.
Il soffitto della grande stanza era tutto bianco, riflessi di metallo e vetro, la luce sempre più forte…
Charles spalancò gli occhi, il respiro affannoso. Sopra di lui, il soffitto giallo slavato della camera al Monroe’s, la luce bassa del lampadario clemente con il suo risveglio.
Sapeva che non c’era niente da temere, ma il suo cuore batteva troppo veloce e lui era così spaventato. Sentiva i polsi ancora stretti, bloccato in una morsa che l’avrebbe immobilizzato per sempre, non più in grado di fare alcunchè….
“È stato abbastanza interessante?”
Charles si sentì come se l’avessero colpito tra le spalle. Trasalì, mettendosi seduto, gli occhi spalancati. Ci volle tutto il coraggio che gli era rimasto in corpo, per guardare Erik, seduto sull’altro lato del letto, intento a far rigirare, levitando, una moneta argentea tra le dita. Non era il solito gioco di prestigio, no.
“Cos’è?” domandò Charles, gli occhi fissi sul piccolo scintillante oggetto. Gli occhi di Erik s’incupirono e la moneta sparì in una  delle tasche dei suoi pantaloni, nascondendola alla vista dell’altro.
“Non hai risposto alla mia domanda, Charles” insisté, reclinando appena il capo sulla spalliera e fissando ostinatamente dritto davanti a sé.
Charles si morse il labbro, mentre con una mano si aggiustava il colletto della camicia, accaldato. Sentiva nuovamente il bisogno di una doccia, ma almeno adesso la testa non gli doleva più.
“È stato terribile” rispose dopo un attimo di riflessione, sistemandosi i capelli dietro l’orecchio. “Come se tutto stesse crollando.”
Erik fece un verso simile ad una risata soffocata, intrecciando le mani sul petto. “Quanto sei ingenuo.”
“Perché?” chiese educatamente Charles, le braccia irrigidite.
“Credo sia inutile discuterne” disse Erik con un sorriso freddo, ostinandosi a non guardare nella sua direzione. “Sei esattamente come tutti gli altri. Essere umano fino in fondo, Charles.”
Charles scosse il capo in segno di negazione. Improvvisamente, si sentiva carico di rabbia e nervosismo, l’accumulo di quei residui di malumore e insoddisfazione che l’avevano accompagnato in quei lunghi giorni.
“Se essere umano significa soffrire per quello che ti è successo …” Charles sollevò gli occhi su di lui con decisione, “… Allora hai ragione, lo sono. Ma se credi che la mia sia solo pietà, allora sei tu l’ingenuo.”
Gli occhi di Erik s’incupirono se possibile, ancora di più ma Charles non ne fu affatto intimorito, anzi, si sentiva vivo, dopo tanti giorni passati nell’apatia. E aveva una tremenda voglia di urlare ed aggredirlo, se solo fosse servito a fargli distogliere la vista da quella brutta tappezzeria.
“Come sapevi che sarei riuscito a vedere nella tua mente?” chiese, cercando di ignorare l’indifferenza di Erik, il quale rispose solo dopo un lunghissimo momento.
“Quando le persone sognano,” disse piano, “Abbassano le loro difese. La coscienza si disintegra e tutto… sfuma nel nulla, semplicemente. Come allontanare il controllo da sé per prendere in considerazione tutto ciò che ci circonda, senza punti fissi” aggiunse, mentre una linea sottile gli si disegnava tra le sopracciglia.
“Considerando il fatto che dovevi essere abbastanza ubriaco” aggiunse, “… Non ti sarebbe stato difficile lasciarti andare ed entrare nella mente di qualcuno, vicino a te.”
“Allora tu ne sei immune” replicò Charles. “Perché forse è troppo da esseri umani, vero?”
Erik si mosse così in fretta che Charles percepì solo la sensazione del colpo all’addome, mentre un verso goffo e strozzato, gli sfuggiva  dalle labbra, facendogli pensare a quello simile di un cartone animato.
Si afflosciò su sé stesso, ricadendo sul letto, inerme. Strabuzzò gli occhi e si mosse appena, tenendosi lo stomaco. Era davvero doloroso e il respiro spezzato a metà sembrava essere solo il male minore, rispetto ai puntini rossi che avevano cominciato a danzargli davanti agli occhi.
Avvertì un movimento accanto a lui; Charles si ritrasse, pensando che Erik volesse colpirlo ancora e chiuse gli occhi. Poteva entrargli nella mente e contrattaccare, ma non lo voleva fare. Non ad Erik.
Ci mise un po’ ad accorgersi della mano di Erik posata sulla sua spalla, di come si era solo spostato più vicino e di come lo stesse guardando, i freddi occhi azzurri illuminati da un briciolo di apprensione.
“Charles?” disse con voce rotta.
Per quanto apparisse assurdo, c’era qualcosa di confortante nel sentire la sua presenza così vicino, il suo viso leggermente abbronzato sopra di lui. Charles si passò il palmo della mano ferita sugli occhi, sfregandosi via il velo di lacrime che gli offuscava la vista.
“Mi hai colpito!” disse in un rantolo. Cominciò a tossire, girando appena il viso per non doverlo fare proprio davanti ad Erik che, tenendolo per la spalla, lo aiutò a rimettersi dritto e seduto. Charles sentì una risentita morsa nello stomaco, quando lui si allontanò e non era certo per colpa del pugno che aveva ricevuto.
“Mi dispiace” disse Erik, scostandosi e sedendosi sul ciglio del letto. Ora gli dava in parte la schiena e Charles fu assalito dalla voglia malsana di provocarlo e farsi dare un altro colpo.
“Mi dispiace” ripetè Erik con voce atona.
Le sopracciglia di Charles si corrugarono in una smorfia scettica. “Certamente.”
“Non ero venuto qui per discutere su cosa fosse umano e cosa invece fosse mia prerogativa, Charles” disse Erik, recuperando il suo normale tono risoluto.
Charles, respirando ancora flebilmente, si portò le dita alla tempia.
E allora per cosa sei venuto? 
“Smettila” ringhiò Erik, girandosi di scatto e squadrandolo dall‘alto in basso. “Non c’è nessuno, non c’è alcun bisogno di usare i tuoi trucchi.”
Così potrai colpirmi di nuovo, cogliendomi di sorpresa?
“Hai la mia parola che non lo farò, Charles. Ma te la sei cercata” replicò Erik sollevando appena le spalle, con l’ombra di un sorriso divertito, prima di tornare serio. “Mi dispiace veramente.”
Charles strinse leggermente gli occhi, concentrandosi, le dita ancora appoggiate a lato della fronte.
Perché volevi che ti leggessi nella mente?
“Perché sapevo che lo volevi fare” rispose Erik impassibile. “... Di nuovo.”
Non è vero, gli disse Charles nella mente, cercando di mettere in quel pensiero quanta più intensità possibile.
“Dillo, allora” gli disse Erik con sguardo di sfida. “Se lo pensi veramente, dillo. Non è difficile.”
Charles rimase in silenzio. C’era solo una risposta che riteneva opportuna.
“Grazie.”
Ed era sincero. Era felice che lui gli avesse permesso di guardare fra i suoi ricordi e pensieri. Ma ora quella soddisfazione appariva troppo intrisa di malinconia, per essere vera felicità. 
Erik fece un piccolo cenno di assenso col capo, come a stabilire che la conversazione, almeno su quell’argomento, si fosse conclusa. Tuttavia, Charles non aveva finito.
“Ma perché tu me l’hai permesso?”
Erik s’irrigidì e distolse lo sguardo, spostandosi impercettibilmente da lui, nonostante non fossero più vicini. Charles poteva immaginare quanto si affannasse a cercare una risposta, dal modo rabbioso in cui osservava il pavimento. “Credevo…” cominciò, ma la frase gli morì sulle labbra. “Sono stato debole” disse, contemplandosi il dorso delle mani.
“Non è vero” Charles scosse con decisione la testa. Avrebbe voluto avvicinarsi a lui, ma la situazione era già abbastanza precaria senza che lui si trascinasse sul letto come un’amante respinta. Rabbrividì nel pensare a quell’immagine, ma continuò: “L’ho capito, Erik.”
“Cosa?”
Charles si morse un poco il labbro prima di spiegarsi. Perché gli sembrava così difficile, trovare delle parole appropriate?
“Il fatto che tu sia sopravvissuto…” disse lentamente, “Non vuol dire che tu sia peggiore degli altri. O più abbietto. O inferiore.”
Erik aprì le mani in un gesto incredulo, gli occhi gelidi.
“Non parlare di cose che non sai. Fortuna, è stata solo … una maledetta…”
Fu nell’ascoltare quelle parole spezzate che Charles vinse l’imbarazzo e si protese verso di lui, afferrandogli il polso, nello stesso modo in cui Erik l’aveva preso quando si era accorto che si era tagliato.
“Tu credi che si possa provare solo pietà, ma non è quello ti tormenta. Sei terrorizzato, all’idea che qualcuno capisca qual è il prezzo di essere sopravvissuto ad una cosa così atroce” disse Charles in fretta, sentendo una fitta nel costato, come se gli stessero stringendo il torace con dei lacci. Ma non si arrese a sé stesso; Erik doveva capire, pensò disperatamente, doveva capire che lui sapeva e che non l’avrebbe lasciato andare. Non così.
“E quale sarebbe, questo prezzo?“ domandò Erik con un sorriso storto, irrigidendosi sotto la stretta di Charles. Sembrava volesse aggiungere qualcosa, ma Charles lo precedette.
“Credere di essere i peggiori tra gli uomini. Credere di non poter mai diventare migliori di quello che si è” disse in un soffio, allentando la presa attorno al polso di Erik.
“Perché se tutto ci viene portato via, e tutto attorno a noi muore, rimane solo dolore. Non è giusto, ma soprattutto, non è vero” concluse Charles. Si accorse di stare tremando, nonostante il caldo che affliggeva la stanza e la maglietta appiccicata alla schiena per colpa del sudore.
Quando smise di parlare, cadde il silenzio; si ritrovarono a fissarsi, osservandosi nell’azzurro reciproco dei loro occhi, ma mentre quelli di Charles erano così pieni di certezza e sincerità, quelli di Erik erano imperscrutabili.
“Posso andarmene ora?” disse Erik in tono freddo, dopo altri interminabili attimi. Si alzò, distogliendo lo sguardo da Charles, ancora accanto a lui, la faccia leggermente arrossata.
Sai che non lo voglio. Gli occhi azzurri di Charles si posarono su di lui, lucidi e quasi sereni. Erik si sentì quasi vacillare, nel sentire la voce di Charles risuonargli nella testa, come se l’avesse gridato, e l’altro ne approfittò per afferrargli il braccio, trattenendolo.
Charles sapeva di non essere molto forte, perciò fu con un certo piacere che notò che Erik, non solo non si scostava, ma si voltava ancora verso di lui. Gli occhi di Erik tuttavia, erano così pieni di risentimento che Charles sospettò di stare sbagliando ogni cosa.
“Hai intenzione di parlarmi nella testa, ancora ed ancora, finché non me la farai scoppiare Charles?” disse Erik astioso. Charles sapeva di stare rischiando ben più che la sua faccia, in quel momento. Ma l’idea di superare quel baratro, non lo atterriva affatto. Non con Erik.
Resta qui. Con me.
“Non riesco nemmeno a guardarti, Charles. Come pensi anche solo di chiedermi una cosa del genere?”
Charles rimase con la bocca semi aperta, mentre un cupo rossore gli invadeva il viso. Abbassò le spalle, rimanendo in ginocchio sul letto e lasciando andare il braccio di Erik, poi socchiuse gli occhi, lasciandosi sfuggire un sospiro. 
Ci sono cose che possono essere solo pensate, e altre che possono essere solo dette, ricordò Charles. E allora decise.
“Resta con me” disse. Erik si fermò vicino alla porta della stanza, senza voltarsi.
“Ti lascerò libero dall’impegno con la CIA, se vorrai, ma almeno per adesso… Resta con me” Charles si rese amaramente conto che quella, più che una dichiarazione, era terribilmente simile ad una supplica.  
Ma non c’era tempo per pentirsi.
Aveva anche cominciato a pensare a quanto, già di per sé, fosse strana la parola dichiarazione che Erik gli piombò addosso, afferrandolo per le spalle e schiacciandolo con il suo peso sulle coperte sfatte.
Charles ricadde all’indietro come un semplice sacco di ossa e carne, con così tanta forza che sbatté i denti.
“Che cosa hai detto?” disse Erik, con una voce simile ad un sordo ringhio. Charles comprese che qualcosa non andava, nel momento stesso in cui non riuscì ad alzarsi. Ci provò, ma Erik lo teneva stretto, schiacciandogli le spalle con le braccia tese.
“Cosa..” cominciò Charles, ma il resto della frase si perse in un rantolo. Il fatto di avere l’intero peso di Erik addosso, giocava propriamente a suo sfavore.
“Se ho bene inteso” disse Erik con leggero affanno, “Intendi liberarmi da un qualche impegno che io avrei preso. Corretto?” si scostò leggermente, in modo che Charles potesse respirare abbastanza per rispondergli.
La faccia di Charles fu attraversata da un susseguirsi di emozioni; stupore, sgomento e vergogna. Che idiota.
Ancora una volta, aveva applicato il suo talento per pronunciare le parole meno adatte all’occasione, davanti alle persone sbagliate.
Davanti all’unica persona con cui avrebbe desiderato essere tutt’altro. 
Aveva rovinato tutto e non poteva non capire Erik, che a quanto vedeva, sembrava pentirsi di essergli andato addosso in quel modo. Ma non sembrava nemmeno volersi spostare.
“Sono un’idiota” mormorò, girando di un poco il viso, in modo da non dover incrociare lo sguardo di Erik.
“Un vero impiccione” disse Erik di rimando, in tono serio. Charles annuì e la sua guancia sfregò contro il ruvido lenzuolo. Sapeva incredibilmente di detersivo, rifletté.
“Sono stato infantile” disse in un sospiro. Non sapeva più cosa dire. Erik se ne sarebbe andato ed era tutta colpa sua. Che diritti aveva su di lui? Assolutamente nessuno.
“Molto egoista da parte tua, davvero” replicò Erik, lasciandogli andare le spalle e appoggiando le mani ai lati del capo di Charles. “Praticamente un ragazzino viziato.”
Charles corrugò le sopracciglia. Si sarebbe aspettato qualcosa di più perfido da Erik Lensherr.
Vincendo la sua ritrosia e il suo disagio, Charles guardò sopra di sé, ritrovandosi a fissare il viso di Erik, ancora più vicino a lui. Sorrideva appena, ma in modo gentile e tranquillo. Per una volta, la sua fronte non sembrava solcata da rughe di preoccupazione. Charles ne rimase colpito. Stava… Scherzando?
Charles sentì le sue labbra aprirsi in un sorriso. Improvvisamente era euforico, e prima che riuscisse a trattenersi, cominciò a ridere.
“Che c’è?” disse Erik, leggermente perplesso. L’improvviso scatto d’ilarità di Charles, sembrava averlo confuso. 
“Niente…” disse Charles cercando di smettere di ridere. “Davvero, non sei tu. Solo…”
Cercò di scostarsi i capelli che gli erano ricaduti sulla fronte, ma si scontrò con il braccio di Erik che cercò di spostarsi, sollevandosi, ma Charles lo trattenne, mettendogli lui stesso un braccio sulla schiena, avvicinandosi ancora di più.
Sentendosi la faccia in fiamme, Charles nascose il viso nell’incavo della spalla di Erik, incapace di pensare a qualcosa di coerente.
“Credo sia l’eventualità peggiore in cui mi sia mai trovato” bisbigliò con un sorrisetto, ad un soffio dalla pelle di Erik, che lo allontanò un poco da sé per guardarlo in faccia.
“L’eventualità peggiore?” gli domandò, aggrottando le sopracciglia in un’espressione interrogativa. 
“Ne esiste una migliore?” aggiunse, studiandolo con attenzione, mentre gli occhi di Charles si riempivano con un luccichio furbo. E allora, sapendo che non avrebbe potuto sopportare l’idea di un’altra risposta incredibilmente saccente ed incredibilmente irritante, Erik lo baciò e ogni eventualità -peggiore o migliore che fosse- scomparve, sconfitta da quel semplice gesto.
Era qualcosa di dolce e cauto assieme, e Charles si sorprese nel sentire quanto fosse diverso da ciò che si era aspettato e immaginato. Eppure, così tanto giusto, come se Erik fosse anche e soprattutto, un essere gentile.
Le labbra di Erik indugiarono ancora un momento sulle sue, poi, lo sentì allontanarsi, sentendo una fitta di dolore attraversagli il petto, salendogli per la gola, come se all‘improvviso gli fosse mancata l‘aria.
Lo teneva ancora stretto a sè, e quando riaprì gli occhi, incrociò ancora i suoi, intenti a guardarlo, come se non si aspettasse altro che vedere la sua reazione.
“Charles…” mormorò. “Charles.”
Charles spostò poco più in su la testa, appoggiando la fronte alla sua finché quasi non si vide riflesso negli occhi chiari di Erik. “Non potrebbe mai essere meglio, Erik” Charles inclinò un poco il capo, e lo baciò di nuovo e questa volta, sentì che Erik, pian piano, si lasciava andare, accarezzandolo gentilmente a lato del viso, affondandogli le lunghe dita nei capelli, ancora leggermente umidi per la doccia.
Charles spostò la mano che cingeva la schiena di Erik fino a sfiorargli la nuca, inarcandosi appena mentre l’altro lo spingeva di nuovo con la schiena sul letto e cercando, per nessun motivo, di lasciare che si allontanasse da lui, o smettesse di baciarlo, o facesse qualsiasi altra cosa che non fosse essere lì con lui.
Quasi come se Erik avesse intuito le paure di Charles, gli prese la mano libera nella sua, avvicinandogliela alla tempia, a suggerirgli di leggergli nella mente.
“Non posso” disse con voce bassa, accorgendosi di quanto si sentisse troppo esaltato, debole e spossato e di come facesse fatica a non pensare ad Erik, che era lì con lui, sopra di lui, ad una distanza talmente vicina che avrebbe potuto respirarlo.
“Non te lo sto chiedendo” replicò Erik, mettendogli ancora una mano a lato del viso, sfiorandogli appena le orecchie. Charles scosse lentamente il capo. “Non voglio. Non adesso. Non ora che…”
“Charles…” cominciò Erik in tono vagamente spazientito. “Lo faccio per te.”
Charles sentiva il suo cuore battere, tanto era teso. Provava un’insolita paura all’idea di vagare nelle mente di Erik, mentre lui stesso non era in grado di mantenere un certo autocontrollo. Avrebbe potuto vedere cose che Erik non sarebbe riuscito a nascondergli e non se la sentiva di fare una cosa così poco onorevole, sbirciando indiscrinatamente tra i suoi pensieri più reconditi.
Oserò turbare l'universo?  In un attimo solo c'è tempo.. “ disse Erik, mentre Charles gli sfiorava la mascella con il dorso della mano, quasi in segno di scusa, concludendo al posto suo:
…Per decisioni e revisioni che un attimo solo invertirà*. Erik, non posso permetterlo.” Cercò di mettere un po’ di convinzione nel suo tono, ma sembrava così difficile, dire qualcosa di cui lui stesso non era convinto, adesso.
“Non c’è solo sofferenza, Charles” replicò Erik, riabbassandogli la mano vicino al capo con fermezza. “Ho avuto anche dei momenti buoni. Riesci a crederci?”
Charles rimase in silenzio, sotto lo sguardo attento di Erik. Poi si concentrò, abbassando le palpebre e distendendo appena la fronte. Con la mano libera toccò la fronte di Erik che si spostò, sdraiandosi sul fianco, allungandosi accanto a lui.
… Charles fu travolto dal freddo e dall’oscurità, dal gelo dell’acqua e dal bruciore nei polmoni, come se stesse annegando. Bolle evanescenti salivano lente attorno a lui, che impotente e fin troppo arrabbiato, non trovava il coraggio di risalire in superficie. Se l’avesse fatto, quel gesto si sarebbe risolto solo in un misero fallimento e ne aveva abbastanza di sentimenti come vergogna e delusione. Morire poteva anche apparire accettabile, piuttosto che ritornare ad aspettare…
Lasciali andare, disse la sua stessa voce nella sua stessa testa. Calma la tua mente. Lasciali andare, Erik… 
Si sentì afferrare al petto da mani agitate che lo strattonavano, implorandolo di tornare in superficie.
Finirai per morire. 
Protese una mano nell’acqua nera, mentre fioche luci azzurrine sparivano negli abissi, i polmoni roventi. Charles si girò un momento e intravide il suo stesso viso implorante, in quel liquido mondo di tenebra.
E rispetto ad un istante prima, quando aveva desiderato morire, tutto mutò. La vergogna non sopraggiunse e Charles, che era Erik, ma adesso era come se fossero la stessa persona, sentì un sentimento inatteso riscuoterlo dall‘abisso. Gratitudine.
Qualcuno lo stava salvando e non c’era alcun senso di umiliazione in quella consapevolezza. Solo accettazione. E non avrebbe permesso che quel qualcuno morisse con lui.
Non lo avrebbe permesso, mai.
Cominciarono a risalire, mentre l’acqua vorticava lenta attorno a loro.
 
[_^_^_^_]
 
 
Charles si svegliò con il suono tamburellante ed insistente della pioggia sul tetto. 
Scostò la sua camicia da sotto di sé. Ci si era addormentato sopra e sentiva i segni dei piccoli bottoni impressi sulla faccia, come marchi. Non era ancora giorno; dalle tende accostate non filtrava alcuna luce, solo i bagliori biancastri del temporale lontano. 
Le lancette dell’orologio con la scritta opaca ‘Living Monroe’s’ appeso alla parete, segnavano le quattro e venti del mattino. Charles provò una certa soddisfazione, nel vedere che il tempo aveva ripreso a scorrere in modo normale. Accanto a lui, Erik si mosse nel sonno, muovendo la testa sul cuscino e lasciandosi sfuggire un sospiro. Charles scostò alcuni vestiti sparsi ai piedi del letto buttandoli a terra, cercando di muoversi il meno possibile per non svegliarlo, poi si ridistese lentamente, scostandosi un poco.
La stanza era ancora dannatamente calda, perciò evitò di mettersi troppo vicino a lui, ma quando Erik lo cercò nel sonno, posandogli un braccio sul petto, Charles non lo allontanò.
Mentre l’ultimo bagliore di un lampo sfumava nel buio, Charles chiuse gli occhi e tornò a dormire.
 
 
 
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Il grande cartello sul ciglio sulla Route 17 annunciò:
State lasciando Savannah, Georgia (147.527 Ab) Tornate presto nella nostra città! Vi attendiamo!
Erik gli diede appena un’occhiata, sorpassandolo. Allentò la presa sul volante, tornando a guardare dritto davanti a sé, l‘asfalto illuminato dalla calda luce del sole.
Avevano oltrepassato il corso del Savannah qualche chilometro più indietro, ma il paesaggio era ancora dominato da ampi corsi d’acqua, alcuni solo stagnanti, su cui si allungava l’ombra di canneti giallastri e altri alberi di palude. Nugoli di insetti si appostavano fra le acque verdastre, ronzando fastidiosi.
A Erik, dispiaceva un poco l’idea di non aver visto granché della città. Si chiedeva se sarebbe tornato e in quel caso, se avrebbe dovuto ricorrere all’inganno, esattamente come aveva fatto Charles.
Ma un’ipotesi del genere, rifletté, presupponeva che fosse Charles a doverci tornare con lui.
Si girò verso Charles, guardandone la testa posata contro il vetro del finestrino, gli occhi chiusi, le braccia abbandonate e i capelli leggermente appiccicati alla tempia.
Sorrideva. Forse era solo un’impressione di Erik, o forse solo la luce del sole sulla sua faccia, ma sì, sembrava sorridere. Erik si scoprì a fare lo stesso, mentre tornava a guardare la strada, dove un altro cartello annunciava l’ingresso nell’area di Port Wentworth. 
The Bird Girl will judge you too pensò. Ci sarebbe stato tempo per decidere, per giudicare e per scegliere, si disse. Ci sarebbe stato tempo per capire e per distruggere e per risistemare le cose, ancora una volta.
Ma per adesso, si disse, andava bene così.
Esattamente così.
 
 
 
Note.
** Ispirata alla statua della Bird Girl (Bonaventure Cemetery, Savannah)
* T.S. Eliot The Love Song of  J. Alfred Purfrock


Al solito, se vi è piaciuta utilizzate il box recensione. Mi fa' sempre piacere ricevere critiche costruttive. Che dire, era il mio primo tentativo di storia pseudo slash. 
Come me la sono cavata?

Saluti, Exelle
  
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