Film > X-men (film)
Ricorda la storia  |      
Autore: Exelle    02/08/2011    3 recensioni
Seguito di 'There will be time'
Charles si ritrovava catapultato in un territorio sconosciuto, dove tutto non poteva non sembrargli nemico ed ostile. Un posto dove l’unico riferimento era Erik, ma lui sembrava troppo lontano perché Charles potesse raggiungerlo.
Genere: Drammatico, Generale, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
  The Sweet Ashes  
 Charles and Erik (X-Men First Class) Pt. 2
 
Niente dura, 
poiché ciò che viviamo è relativo.
Quello che chiamerai ieri, rimarrà sepolto dal tuo presente.
Vorrei che tu andassi lontano,
Vorrei che tu andassi oltre.
(…)
Ma sono queste le meravigliose ceneri
 che offuscano i tuoi occhi, 
A renderti così amabile,
Così amabile.
 
                                     D. C.
 
 
Durham, North Carolina, 1962
 
“Vorrei che venissi a Westchester.”
Charles Xavier sollevò lentamente lo sguardo dalla scacchiera, congiungendo la punta delle dita. Aspettò con impazienza che Erik muovesse l’alfiere (H5) prima di riprovare a chiedere. Anche a costo di risultare irritante.
“Vorrei che venissi a …”
“Cos’è Westchester?” domandò Erik cautamente, fissando i pezzi dispiegati davanti a lui, come se cercasse di capirne lo schema e  poter così prevedere la mossa di Charles.
“Casa mia.”
“Tocca a te” replicò Erik con un cenno distratto. Aveva la testa leggermente china, perciò Charles non poteva vederlo bene in viso. Non ci riuscì nemmeno quando spostò poco più avanti la sua torre, che dopo solo qualche secondo, soccombette alla regina di Erik.  
“Erik.”
“Tocca di nuovo a te, Charles” mormorò Erik accarezzandosi il mento e guardandolo con attenzione. Non guardava la scacchiera. Stava guardando lui. 
“Sono stanco di giocare” rispose Charles in tono poco convinto.
Gli occhi di Erik sembrarono incupirsi leggermente. “Stai scherzando.”
Charles si passò una mano tra i capelli che gli erano ricaduti sulla fronte, sollevando le sopracciglia in una smorfia che forse sarebbe sembrata comica, in un altro momento. “Possiamo continuare dopo. Adesso rispondimi, per favore.”
Erik lo guardò perplesso, poi portò indietro le braccia, mettendosi più comodo sulla coperta. Aveva quasi fatto un sorriso, ma quando gli ricapitò di cogliere l’occhiata infastidita di Charles, tornò serio.
“Ci verrei volentieri” disse, con quanta più gentilezza possibile e un sorriso cortese.
Charles annuì, poi allungò la mano sulla scacchiera, ma non aveva nemmeno sfiorato uno dei pezzi che Erik chiese, nello stesso tono fin troppo gentile: “Perché me l’hai chiesto?”
“Non c’è un perché” Charles ritrasse la mano, posandola lentamente su un ginocchio. “Perché vorrei ritornarci con qualcuno.”
“Con Raven, magari?” suggerì Erik, lanciando un’occhiata fra gli alberi di una macchia boscosa, poco lontana. Per essere un parco pubblico, il Twin Lakes Park di Durham era fin troppo deserto, anche in un giorno feriale.
Forse era solo l’essersi allontanati tanto dalla strada e dai sentieri, fin troppo, per quella che avrebbe dovuto essere una breve sosta.
“Lei abita con me. Ci dovrebbe tornare comunque” disse Charles sorridendo. Cominciò a prendere i pezzi sulla scacchiera per riporli, ma Erik fece un pigro cenno con la mano e quelli levitarono, formando una fila ordinata, al loro posto nella scatola, posandosi con un leggero tintinnio.
“E’ divertente?” domandò Charles con sincera curiosità. 
Erik annuì. “Sì, se hai degli scacchi di metallo … E il potere di controllare il metallo.”
Charles lo guardò con un’espressione furba. “Allora dev’essere divertentissimo, amico mio.”
Erik corrugò la fronte, come se stesse fingendo di pensarci su. “Punti di vista, presumo. Tra noi due, quello che ha il potere più utile, in quasi ogni situazione, sei tu” Erik si sporse verso di lui per dargli un leggero colpetto sulla spalla. Charles ridendo glielo restituì, o almeno ci provò, perché Erik lo precedette, scansandolo e prendendolo per il polso. Cercò di trattenerlo, avvicinandolo a sé ma quando vide Charles arrossire violentemente, in quello strano modo, in cui il viso rimaneva pallido e affioravano solo preoccupanti macchie rosse, lo lasciò andare di colpo, come se si fosse scottato.
Charles abbassò istintivamente la testa, cominciando a sistemarsi nervosamente il posino della camicia. Poi si passò di nuovo una mano tra i capelli, ricacciandoli dietro alle orecchie e inspirando leggermente.
Sembrava voler far sparire quello sgradevole rossore dal viso calmandosi. Erik non ci mise molto a capire che non era un gran metodo e che non stava affatto funzionando. Si sentiva stranamente dispiaciuto nei confronti di Charles, come se avesse fatto qualcosa di avventato, qualcosa con cui Charles non era ancora pronto a confrontarsi. Non così velocemente, almeno. Perciò, cercò di toglierlo dall’imbarazzo parlando. 
“Mi farebbe piacere. Venire a West-Chester, intendo.”
Il colorito di Charles si ravvivò di nuovo, ma questa volta solo perché era sorpreso. Non certo per vergogna.
“Westchester. Niente pause” disse ridendo piano, tamburellando le dita sulla scacchiera e facendola poi scorrere come un coperchio sulla scatola stessa.
“Westchester” ripeté Erik correttamente, annuendo piano. “Fai spesso… inviti? Così?”
“Così come?” chiese Charles, cercando di usare un tono noncurante e allontanando un poco la scacchiera da sé, spostandola in modo che il lato della scatola coincidesse con quello del plaid. Erik appoggiò il palmo della mano sulla scatola, fermandolo, e Charles s’immobilizzò, tornando a guardarlo.
“Non ho mai invitato nessuno. Credo sia la prima volta che lo faccio, se devo essere onesto.”
Charles si aspettò che Erik cominciasse a fargli qualche domanda, indagando sul perché la sua vita sociale non fosse stata un crogiolo di meraviglie e allegre compagnie, naturalmente in termini più contenuti, ma non si sorprese nemmeno poi tanto, quando Erik commentò solo con un: “Capisco.”
Charles annuì di rimando. “Naturalmente dopo che avremmo finito a Richmond. Non dovremmo …”
“… Sottrarci ai nostri impegni. Lo so, Charles. Non ho certo intenzione di chiederti di andarci ora.”
Questa volta Charles non replicò, limitandosi ad alzarsi da terra, spolverandosi i pantaloni con fin troppa cura. Poi recuperò la giacca e la indossò aggiustandosi i risvolti delle maniche. Erik si scoprì a domandarsi perché facesse quella sceneggiata del controllarsi ogni volta le pieghe dei vestiti, mettendosi sempre in ordine. Non che gli desse fastidio. Charles poteva essere e fare qualsiasi cosa, con lui. Era Charles.
“Dobbiamo andare, adesso.”
Erik guardò la scacchiera, poi Charles, poi di nuovo la scacchiera. “Non abbiamo finito la partita.”
Charles si batté un dito sulla tempia. “Nessun problema. Ho memorizzato lo schema.”
La fronte di Erik si scolpì con un paio di linee di educata perplessità. “Perché penso che sia una scusa?”
Charles aprì una mano. Un gesto incurante e una faccia innocente, con cui cercò di simulare una sicurezza che non possedeva affatto. “Puoi fidarti di me. Oppure no.”
Erik distolse gli occhi da Charles, spostando lo sguardo sull’acqua scintillante del laghetto al centro del parco, a qualche decina di metri da loro. “Rimaniamo qui. Solo per stasera” disse a mezza bocca. Charles avrebbe potuto pensare che l’avesse dette forzatamente, ma Erik non aveva voglia di ripeterlo con più decisione.
Charles scosse il capo, non per negazione ma per cercare di scacciare la confusione che per un momento sembrò scombinare tutti i bei piani nella sua testa.
“Siamo a meno di tre ore da Richmond, Erik. Non ha senso fermarsi adesso.”
“Aveva senso finire a Savannah?” obbiettò Erik sollevando un sopracciglio e indirizzandogli un’espressione beffarda. Charles si mise le mani in tasca, dando un leggero calcio ad un sasso lì vicino. Sentì l’imbarazzo prendere di nuovo possesso di lui. Erik poteva evitare certe frecciate, anche se sentiva di meritarsele appieno. Si abbassò sui talloni, inginocchiandosi davanti ad Erik. Abbassò anche la voce, quasi inconsciamente, anche se il parco era vuoto e gli unici rumori sembravano essere quelli del vento tra i rami spogli o di qualche stridio dall‘altra parte dell‘acqua.
“Non chiedermi cose a cui non so rispondere. Per favore.”
“E’ proprio perché non sai come rispondere che te lo domando, Charles” Erik tese una mano verso di lui, come se volesse sfiorargli l’avambraccio, ma poi si bloccò, ricordando l’imbarazzo di Charles un paio di minuti prima e si limitò a lanciargli un’occhiata.
Charles si accorse di quello che avrebbe voluto fare Erik, ma non commentò. Sentiva la familiare sensazione di difficoltà a respirare assalirlo, come se ancora potesse risultare tremendamente difficile parlare con Erik, dopo quello che era successo la notte prima. Era sorprendente. Charles si chiedeva dove avrebbe trovato il coraggio di dirgli che dovevano avviarsi, quando l’unica cosa che desiderava era trovare un posto qualsiasi e replicare quello che avevano iniziato a Savannah.
Era così semplice lasciar marcire il suo senso del dovere e non pensare altro che ad Erik, a lui con Erik, ad ogni momento trascorso, ancora ed ancora, fino a entrare nella sua testa e rivedere il modo in cui Erik pensava a lui, ad entrambi… standogli così vicino. Era un qualcosa talmente monopolizzante, bello e capace di dare un’assuefazione che Charles non avrebbe mai ritenuto possibile.
I raggi del sole del primo pomeriggio filtrarono tra l’intreccio dei rami neri. Charles socchiuse appena le palpebre, un po’ infastidito, riparandosi gli occhi con la mano. Questo lo portò a distogliere lo sguardo da Erik e così facendo, sembrò che la sensazione di essere totalmente inerme si fosse allontanata.
“Sai che ti direi di sì. Ma dobbiamo andare” disse piano. “Ci sono cose più importanti da fare.”
“Cose più importanti, certo. Charles” disse Erik, ma mentre lo diceva la sua voce vacillò un momento, inasprita da una punta di frustrazione. “Sei tu che hai scelto. Io mi sto solo comportando di conseguenza.”
Charles avrebbe voluto ridere dal nervosismo, ma si trattenne, sapendo che poteva essere male interpretato.
“Io non ho scelto nulla” disse con calma forzata. “Solo… è successo. E credimi…”
Charles si sentiva come se all’improvviso l’atmosfera si fosse rarefatta, come se il freddo che lo rendeva incapace di agire coerentemente avesse preso il sopravvento. Eppure c’era il sole, e il vento che sentiva sulla pelle era tiepido, confortante. “… Non ne sono affatto dispiaciuto.”
Erik lo fissò per un lungo attimo, socchiudendo appena gli occhi, guardingo.“Ma sembra che preferiresti il contrario. Se questo è il prezzo da pagare, forse sarebbe stato meglio, non è vero?” replicò a bassa voce. 
Charles rimase in silenzio. Curioso come quelle che apparivano certezze nella squallida luce di una camera di un motel, sembrassero solo fragili sciocchezze, alla luce del giorno.
No, non tutte, si corresse, guardando Erik. Lui era ancora lì e forse ora poteva anche apparigli distante perché Charles doveva controllarsi, ritornare ad essere un poco sé stesso… ma non appena la situazione sarebbe cambiata, sì, sarebbe stato tutto come prima.
“Charles, perché lo fai?” domandò Erik dopo un paio di altri attimi silenziosi, scrutando la piccola riva erbosa.
“Cosa?”
“Ti rifiuti di vedere che le cose vanno bene” disse Erik freddamente.
“Forse non vanno così bene, se siamo arrivati a questo” replicò Charles neutro. “Erik, siamo a tre ore da Richmond, non ha senso fermarsi. Non qui.” si pentì del tono rigido che aveva usato e per un momento, pensò che Erik si sarebbe arrabbiato. Ma Charles dovette ricredersi ancora una volta.
“Scusami. Mi rendo conto che la mia sia una richiesta inappropriata” disse Erik, curvando appena la schiena. 
“Ma sono così egoista da volermi convincere che per adesso … Non ci sia niente da inseguire. Fare finta che non ci sia niente a parte …” Erik fece scemare la frase nel silenzio. Forse accorgendosi di quanto fossero strane quelle parole dette da lui. Si girò appena verso Charles, intercettando la sua espressione pensierosa con l’accenno di un sorriso.
Charles si ritrovò a pensare a quanto sarebbe stato bello abbracciarlo di nuovo, proprio adesso, cosicché dovette abbassare la faccia per dissimulare l’imbarazzo, cercando di ignorare il formicolio nelle braccia.
“Non lo è, non preoccuparti” ribatté mestamente Charles. “Sai che te l’avrei chiesto io, se tu non mi avessi preceduto” gli sorrise, ma Erik era tornato serio, concentrato su un qualche pensiero che Charles desiderava disperatamente conoscere.
“Quando saremo a Richmond… le cose dovranno cambiare. Cambieranno comunque, indipendentemente da noi, ma cambieranno. Lo sai.”
Charles si morse il labbro, nervosamente. Erik aveva detto quello che lui, per nessuna ragione voleva sentirsi dire; come se non ci avesse già pensato. 
Una volta alla CIA, avrebbe, avrebbero, dovuto prendere delle distanze. Non certo farsi coinvolgere così.
Stare distanti e muoversi dentro a confini precisi. Non era bene che qualcuno sapesse…
“Erik”  mormorò. Erik si voltò verso di lui e prima che Charles potesse pensarci ancora un secondo, un secondo che lo avrebbe, con tutta probabilità, fatto desistere, si sbilanciò verso di lui e lo abbracciò.
Non vide l’espressione sbalordita di Erik, ma capì di averlo sorpreso quando Erik, che non si aspettava certo un gesto del genere, ricadde indietro sulla schiena. Le braccia di Charles intorno al torace gli impedirono di finire del tutto a contatto con il terreno, ma la cosa non avrebbe avuto una grande importanza, perché Erik aveva cominciato a ridere, il viso appoggiato alla tempia di Charles. Si tenne solo leggermente sorretto, in modo da non schiacciare le mani di Charles fra lui e il terreno. Mettendogli una mano sulla nuca, ascoltò le parole di Charles, pensando a quanto fosse  piacevole nell‘averlo accanto. Nient’altro.
“Non cambierà niente. Non dirlo nemmeno per scherzo.”
Quasi per rimarcare quello che aveva detto, Charles lo strinse ancora un poco a sé, inspirando lentamente quell’aria che sapeva tremendamente di Erik.
Erik rise ancora, felicemente sorpreso dal gesto di Charles, e Charles stesso lo sentì sorridere contro la sua guancia, ma lui non era divertito, no. Era serio e triste assieme, perché Erik aveva dannatamente ragione. Charles poteva dire e fare in modo che non cambiasse niente, ma le cose stavano già cambiando. Lui stesso, stava cambiando e se non faceva presto qualcosa, avrebbe rischiato di finire a scontrarsi con quel lato di Erik che Erik teneva così ben celato alla sua vista, quel lato distruttivo e vendicativo che l‘aveva quasi messo alla mercé di Shaw. 
Quel lato del suo carattere che li aveva portati ad incontrarsi e che Charles, ora, non sarebbe più stato in grado di affrontare, perché Erik gli aveva permesso di vedere che in lui non erano rimaste solo rabbia e vendetta, non solo odio e solitudine.
Eppure, sembrava quasi che le preoccupazioni di Charles per quello che sarebbe successo dopo, quando sarebbero tornati a Richmond, fossero state soffocate dal calore del corpo di Erik contro al suo, dal peso della sua mano alla base del collo … sembravano sufficienti a fargli dimenticare persino sé stesso.
Era così identico a quello che era stato la sera prima, che il senso di deja-vu avrebbe potuto toglierli il respiro.
Sentì Erik muoversi verso di lui, mettergli una mano sul viso e farlo voltare, in modo da guardarlo negli occhi, come per baciarlo, ma di nuovo, quello strano senso di malessere e imbarazzo che l’aveva colto poco prima, quando Erik l’aveva preso per il polso, sembrò attraversare Charles. Sbarrò gli occhi, irrigidendosi leggermente. Nonostante il desiderio di assecondare Erik fosse ben presente, si tirò indietro, distogliendo persino gli occhi da lui, fissando il canneto sull’altra riva piegarsi leggermente sotto alla spinta del vento, con un fruscio sottile, mentre piccole foglie curve piovevano sulla superficie dell’acqua.
Erik  riaprì lentamente gli occhi, guardandolo con le palpebre socchiuse. Appariva scontento e Charles non poteva dargli torto. Si sarebbe dato la colpa per il resto della giornata per aver rovinato quel momento. Non sapeva nemmeno cosa dire se non:
“Scusami ma …”
Erik raddrizzò la schiena, rimettendosi seduto. “Non importa” disse a voce bassa, senza nascondere il suo disappunto. Charles dopo una fugace, quanto involontaria occhiata attorno a loro, si curvò verso Erik, sfiorandogli brevemente la mano. “Non è perché non voglio, solo…”
“Ho capito, Charles” lo interruppe Erik nello stesso tono gelido con cui gli aveva risposto prima. “Risparmiami scuse in cui nemmeno tu riesci a credere. Te lo chiedo come favore.”
Charles abbassò il capo, passandosi lentamente una mano sulla fronte. Le parole ‘mi dispiace’ continuavano a rimbombargli nella testa e dovette fare uno sforzo per trattenersi dal dirle, per ripeterle finché Erik non avesse accettato le sue scuse. Era ingiusto, l’essere combattuto tra il volere Erik Lensherr e contemporaneamente cercare di convivere con un po’ di autocontrollo. 
Fin da quando l’aveva ammesso a sé stesso, Charles sapeva che non c’era mai stato niente di sbagliato nella considerazione di volere Erik, non c’era niente di sbagliato nel volerlo anche adesso e sempre… Ma Charles sentiva anche il crescente sospetto che la sua indecisione e le sue insicurezze, che di solito non facevano affatto parte di lui, stessero prendendo il sopravvento. 
Si alzarono entrambi, Erik prese gli scacchi mettendoseli sotto braccio mentre Charles si chinò appena, ripiegando velocemente il plaid e recuperando le chiavi della Plymouth, cadute fra l’erba bassa.
Quando si rialzò, vide che Erik si era allontanato verso la riva, dandogli le spalle. Charles camminò verso di lui, le scarpe che affondavano nel terreno sempre più soffice, man mano che si avvicinava all’acqua.
Camminò finché la sua ombra scura non venne riflessa dalla superficie liquida. Charles vide che era torbida e fangosa e si chiese perché, all’inizio, gli fosse sembrata azzurra e scintillante. Il sole non sembrava nemmeno poi così caldo, e anche se il vento rimaneva, non era più quella tiepida brezza piacevole intenta a schiaffeggiargli i lembi della giacca. Solo un’aria secca e fredda, intenta ad agitare le foglie morte sparse sul prato, a creare cumuli e a distruggerne altri.
Si mise a fianco di Erik, solo qualche passo più indietro, sollevando un momento la testa. “Verrà a piovere” mormorò, con un cenno verso il cielo color acciaio.
Erik si voltò verso di lui, scrutandolo attentamente, senza dar segno di averlo sentito. “Potremmo fermarci a mangiare qualcosa. Se per te non è un problema.”
Charles gli sorrise, un sorriso arrendevole che non avrebbe mai pensato di riuscire a fare senza risultare stupido. Si sentiva in colpa, per quelle inopportune reazioni che aveva ogni volta che Erik cercava di essere… onesto con lui. Per quella ritrosia e quell’insicurezza che lo portavano a comportarsi da debole e da indeciso, come se oltre al non sapere ciò che voleva non fosse nemmeno in grado di comprenderlo. Un atteggiamento così ipocrita
Charles si sentiva in colpa; Erik avrebbe potuto chiedergli qualsiasi cosa e lui l‘avrebbe accontentato. 
Perciò con un cenno, disse di sì. Per Charles andava bene.
 
 
O_O_O
 
 
Avevano lasciato Savannah quella mattina, sul tardi. Charles ne aveva qualche ricordo sfocato; poche ore scarse di sonno, nel caldo afoso della macchina, avevano confuso quei pochi che gli erano rimasti.
Si era svegliato aggrappato ad Erik, con i capelli schiacciati e il segno delle pieghe del cuscino a lato del viso, ed Erik l’aveva guardato, felice non divertito, e gli aveva detto che erano un paio di giorni che desiderava di svegliarsi in quel modo. E quando Charles gli aveva chiesto in quale modo, Erik l’aveva circondato con un braccio e l’aveva baciato sul collo, tenendolo sopra di sé. 
Gli aveva chiesto se l’avesse trovato strano; Charles, colpito, non si era aspettato una domanda tanto diretta, ma mai quanto nel sentire la sua stessa risposta, quando aveva detto ad Erik che forse, l’aveva sempre saputo. Da quando l’aveva incontrato, da quando erano riusciti a parlare tra loro.
Questa era una delle cose che Charles ricordava con certezza e l’avrebbe ricordata a lungo perché, improvvisamente, sembrava essere diventata una cosa dannatamente importante.
Charles si era comportato da egoista, chiedendo ad Erik di intraprendere il viaggio per il Sud-Est, quando era sempre stato chiaro che, ora che avevano rintracciato un buon numero di mutanti da addestrare, non avrebbero dovuto far altro che invertire la rotta e tornare alla base della CIA a Richmond. 
Ma era quella mattina era stato così lontano dal pentirsene, che quando aveva cominciato a ragionare, a ragionare davvero, cercando di impedire a sé stesso di crogiolarsi nei ricordi della sera precedente, a pensare ad Erik sopra di lui o anche solo al modo in cui l’aveva guardato prima di chiudere gli occhi, il peso dei suoi errori aveva minacciato di sopraffarlo.
Era stato immaturo e irrazionale da parte sua e la cosa peggiore, era il non riuscire a non incolpare anche Erik, che l’aveva assecondato. 
Improvvisamente, Charles si ritrovava catapultato in un territorio sconosciuto, dove tutto non poteva non sembrargli nemico ed ostile. Un posto dove l’unico riferimento era Erik, ma lui sembrava troppo lontano perché Charles potesse raggiungerlo.
 
 
^_^O^_^
 
 
Percorsero Ross Road accompagnati da una gracchiante versione di Walk the line, che provvidenzialmente sembrava alleviare il silenzio nell’abitacolo. 
La strana forma di rabbia ed insicurezza di Charles era sfumata lentamente e le poche volte in cui lui ed Erik si erano scambiati qualche indicazione sul cosa fare nell’immediato, aveva cercato di rispondere con tranquillità e cortesia. Lo stesso aveva fatto Erik, anche se appariva molto più convincente di lui, nell’ignorare il breve scontro di poco prima.
Forse lo ignorava davvero, attribuendolo alla stanchezza di Charles.
Avevano appena concordato di fermarsi da qualche parte in zona, senza andare verso il centro, quando individuarono ristorante poco lontano, dall’aria dismessa. Era una lunga costruzione di legno chiaro e vetro, in una zona alberata attraversata da viali piastrellati.
Uno di quei posti perfetti per funzionare da trappola locale per turisti, con una veranda laterale delimitata da una ringhiera chiara. 
Con un cenno Erik glielo indicò e Charles annuì, contraendo appena la fronte. Scesero dalla macchina, dopo aver parcheggiato in una fila di posti vuoti.
Erik si avviò spedito verso l‘ingresso, attraversando la strada, seguito pochi passi indietro da Charles, che con la scusa di infilarsi la giacca, cercava di prendere altro tempo.
“Va bene per te?” domandò Erik quando Charles lo raggiunse, fissando l’insegna dipinta agganciata alla sommità della porta che riportava, inspiegabilmente, il disegno stilizzato di uno squalo e la scritta RAWDON’S COURT FOOD. Sembrava non preoccuparsi minimamente del fatto che una domanda simile, sarebbe stata più utile se fatta in macchina.
“Ormai siamo qui” replicò Charles indifferente, infilandosi le mani nelle tasche dei pantaloni e guardandosi in giro per la strada deserta, pur di non vedere l’espressione di disapprovazione che Erik aveva assunto.
“Charles” Erik gli afferrò il braccio e Charles sentì la sua faccia arrossire leggermente. Non si era mai sentito in imbarazzo, non in quel modo, e provò sia il desiderio di dire a Erik che no, non c’era bisogno di mangiare, potevano anche andare a cercare una camera se lo voleva, sia di respingerlo.
“Ormai siamo qui” ripeté Charles con uno sguardo obliquo, pregando che Erik non si accorgesse di nulla. “Quindi per me va bene.”
Erik annuì lentamente, poi gli lasciò andare il braccio di scatto ed entrò nel ristorante. Charles disapprovò leggermente, quando vide che Erik non aveva nemmeno sfiorato le maniglie delle doppie porte per aprirle. Quelle si abbassarono da sole, docilmente, al suo passaggio. Quando Charles le afferrò per richiudere l’ultima porta dietro di sé, la maniglia rifiutò di abbassarsi al suo tocco, preferendo richiudersi da sola.
“Dannazione” sibilò a denti stretti, occhieggiandola con autentico disprezzo.
Charles fece vagare lo sguardo sulla scarsa clientela del ristorante, ma nessuno sembrava essersi accorto di lui, tutti intenti nelle loro conversazioni, nelle loro risate. Ci mise un po’ ad individuare Erik, appoggiato alla porta di comunicazione con il patio esterno, intento a scuotere leggermente la testa, ridendo.
Charles si sentì sorridere suo malgrado. Alzò le spalle e aprì le mani in un gesto di divertita sufficienza, per poi seguirlo ad uno dei tavoli apparecchiati fuori nella veranda. Questi, a differenza dell’interno del ristorante, erano tutti vuoti.
Non si sorprese più di tanto, quando vide che Erik aveva scelto il più distante dall’ingresso. Anzi, apprezzava la scelta perché sarebbe stata anche la sua, rifletté.
“Divertente” commentò Charles, lasciandosi scivolare sulla sedia di ferro davanti ad Erik.
“Che c’è?” rispose lui di rimando, concedendosi un’altra breve risata. “Adesso mi darai la colpa anche di quello?” 
Charles rimase un momento interdetto, ma fu Erik a smettere di ridere e a guardarlo, recuperando la sua abituale espressione ferma. “Scusami. Pessima uscita.”
“Se non altro,” disse Charles, allontanando della polvere immaginaria dal bordo del suo bicchiere. “Adesso sai che sono troppo debole per pensare di tirarti un pugno.”
Charles sollevò lo sguardo su Erik. Non aveva bisogno di leggere nella mente di Erik per vedere a cosa stava pensando: al momento in cui l’aveva colpito a Savannah, mentre stavano discutendo su… Su tutto e niente, rifletté. Su quanto fosse stata legittima la sua brama di leggere nella mente di Erik. E quella di Erik nel lasciarglielo fare.
“Vero” commentò Erik dopo un po’, lasciando che calasse di nuovo il silenzio, occupato dal cigolio dei fili metallici che sorreggevano le luci tese sopra di loro, il frinire degli insetti e il brusio dei clienti dentro al ristorante, oltre le vetrate. Non c’era vento in quella zona, ma Charles poteva vedere ondeggiare i rami degli alberi nel viale, contro il cielo grigio ed uniforme. C’era qualche sprazzo color arancio; forse non sarebbe venuto a piovere, forse Charles si era sbagliato.
“E’ stato ingiusto da parte mia” disse Erik.
“No, non è così. E’ accaduto, e tanto basta. Forse me lo meritavo” mormorò Charles. “Ma ora non importa più.”
Erik lo guardò interrogativamente, ma Charles si sentiva stranamente rilassato. Era il momento per dire quello che ormai gli ronzava in testa da quando si era svegliato in macchina, quel pensiero a cui, con lui abbracciato ad Erik non  aveva consentito di prendere forma. Erik stesso aveva già tirato fuori l’argomento al parco.
“Non importa perché non è successo” disse Charles, evitando di guardarlo direttamente negli occhi.
Erik inarcò un sopracciglio. Allungandosi sulla sedia, inspirò vistosamente, camuffando un ben più evidente gesto di derisione mista a disprezzo. “Per essere qualcuno che legge nella mente Charles, sei dannatamente prevedibile.”
Charles si chinò verso di lui, guardandolo fisso, convincendosi a farlo. “Non è per il motivo che credi.”
“Curioso” commentò Erik, ironicamente. “Perché a me sembra proprio così.”
Charles congiunse le mani, cercando di apparire quanto più distaccato possibile. “Sto facendo ciò che va fatto. Me l‘hai suggerito tu, ci saranno dei cambiamenti… Non saremo più solo io e…”
“E sei assolutamente convinto che sia quello che vuoi, giusto?” commentò Erik piano. Con un cenno verso l’ingresso, chiamò la cameriera che era appena comparsa sulla porta, intenta ad aggiustarsi il corto grembiule. Charles lasciò ad Erik il compito di ordinare, e per tutto il tempo tenne gli occhi fissi sulla tovaglia di un brutto color salmone. 
“Non è quello che voglio. Ma è quello che va fatto” rispose Charles non appena la ragazza scomparve tra i tavoli verso la porta.
“Creerebbe delle difficoltà. Anche tu lo sai, mi hai detto tu che le cose devono cambiare.”
Erik rise freddamente. “La scusa peggiore che tu potessi usare, Charles. Ti ho detto che le cose cambieranno, ma non di doverle cancellare del tutto.... Ma… Se è quello che tu vuoi. Ora vai pure a leggere nella mente di quella ragazza” disse con un breve cenno in direzione della porta dove era appena scomparsa la cameriera. “Sono sicuro che potrai essere affascinante anche con lei. Magari ti seguirà in camera, casomai ne trovassi una, se mai ti volessi fermare ancora qui.”
“Non…” Charles ad un certo punto si sentì molto stupido. Non pensava niente di quello che aveva detto, ma per il bene di lui, di Erik, di quella squadra che ancora non li conosceva e che li attendeva a Richmond, doveva farlo. Eppure, si trovava nella più nera difficoltà nel giustificare perché…
“Non me la sono portata in camera io. Mi ha seguito lei, ero un po’…” cominciò a spiegare Charles, pensando di nuovo alla sera precedente a Savannah.
Erik rise di lui, battendo piano la mano sul tavolo e guardandolo. “Non mi interessa, Charles. Non mi interessa questo. Non mi interessano le tue scuse, quando lo capirai?”
Charles si morse il labbro, abbandonando la sua posa curva e rigida con cui era seduto e allungando la schiena sulla sedia. “Io ho detto che dovevamo andare in Georgia. E ti ho mentito.”
Erik sollevò il bicchiere vuoto in un falso brindisi di congratulazioni. “Sono contento che tu l’abbia ammesso.”
“… Nemmeno tu vuoi tornare a Richmond. Per questo siamo fermi qui e…” disse Charles, afferrando di scatto il piano del tavolo. Gli occhi di Erik furono attraversati da un luccichio soddisfatto.
“Quindi, nemmeno tu vuoi tornare. Due ammissioni sincere lo stesso giorno. Continui a sorprendermi, Charles.”
Charles aprì la bocca a mezz’aria, esterrefatto. “Non è quello che intendevo e tu lo sai” disse in fretta. “Stiamo solo allungando il percorso, prendendo del tempo che non possiamo concederci. Inutilmente.”
Erik lanciò uno sguardo verso il ristorante, tamburellando le dita bracciolo metallico della sedia.
“Il percorso. Capisco. Così è davvero colpa mia comunque” Erik ora era davvero furente, Charles lo capiva dal volto freddo e impassibile, come se il tono amareggiato non fosse stato sufficiente.
“Non lo è. Non lo è affatto, sono solo…”
“Confuso” replicò Erik leggermente rasserenato nel fare quella constatazione. “Charles, non credere che non ti capisca, se ne parlassimo…”
“E la tua vendetta verso Shaw?” disse Charles in tono serio ma evitando di guardarlo, sapendo quanto quelle parole fossero pericolose. “Non dirmi che hai intenzione di allungare il percorso anche per quella.”
L’espressione di Erik divenne cupa e pensierosa. “Non sai nemmeno di cosa stai parlando.”
Charles si sentì davvero ingiusto nell’aver posto quella domanda. Dopotutto, Shaw faceva parte di quelle incognite che Erik teneva ben lontano da lui, sapendo forse quanto fosse rischioso permettergli di vederle.
Sto facendo un casino. Sto facendo un casino, pensò Charles. L’ultima cosa che voleva era separarsi da Erik, non dopo essere stati assieme in quel modo. Charles sapeva che qualsiasi alternativa sarebbe stata insopportabile. Anche adesso, con lui seduto di fronte a sé, ad una distanza tanto irrisoria, il desiderio di toccarlo e di doversi trattenere assumeva tutte le sembianze di vero dolore fisico.
“Non me ne sarei mai andato da Savannah, stamattina. Non l’avrei mai voluto, ma dovevamo.”
Erik non disse niente, trincerandosi dietro il suo silenzio. Charles fu costretto a seguire il suo esempio, incapace di continuare. Rischiava solo di peggiorare la situazione.
La ragazza tornò con le ordinazioni e con un sorriso che si spense non appena intercettò l’espressione amareggiata di Charles. Si allontanò in fretta, evitando accuratamente di guardare troppo nella loro direzione.
Guardando il suo piatto, Charles si accorse di essere veramente affamato. Elaborare complicate scuse cervellotiche verso sé stesso e il suo comportamento degli ultimi giorni, del giorno prima, doveva avergli confuso il normale appetito. Allungò una mano sul tavolo, ma con suo disappunto, si accorse che le posate erano assenti. 
Alzando lo sguardo, incrociò quello di Erik che sembrava avere lo stesso problema. Entrambi sorrisero. Charles sapeva di essersi di nuovo arreso a sé stesso e a quello che voleva disperatamente. Quanto poco contava il suo senso del dovere, davanti ad Erik Lensherr.
“Vado dentro a chiederle” mormorò Charles, facendo il gesto di alzarsi, ma Erik era già in piedi, e con una pacca leggera sulla spalla lo invitò a risiedersi. “Torno subito”
Guardandolo allontanarsi, Charles si ritrovò a sperare che fosse davvero così.
 
U_U_U
 
Erik. Erik…
Va tutto bene, gli rispose Erik sperando che potesse sentirlo, mettendogli una mano a lato del viso, passandogliela fra i capelli e chinandosi verso di lui. 
Charles si lasciò sfuggire un altro gemito, mentre socchiudeva gli occhi e circondava la schiena di Erik con le braccia, cercando di tenerlo stretto, seguendo con le dita la linea della colonna vertebrale. La mano di Erik gli scivolò sulla nuca, accarezzandolo dolcemente.
Era stato tutto così semplice, quando erano usciti dal ristorante. Così normale, aspettarsi di sentire la voce di  Charles nella testa, chiedergli con tanta sicurezza quello che entrambi volevano.
Voglio stare con te, adesso.
Glielo leggeva negli occhi e sapeva che Charles leggeva lo stesso nei suoi. Le complicazioni non contavano nulla nemmeno per lui. Non quando così…
“Per favore.. Non…” riprese Charles, con il respiro spezzato. Non smettere. Per favore.
Erik mosse i suoi fianchi, un poco più in fretta, abbastanza per vedere l’espressione appagata di Charles, trasformarsi in una di estatica sorpresa. Aveva la faccia arrossata, gli occhi brillanti e lo guardava… Oh, Erik non poteva nemmeno descriverlo. Avrebbe voluto essere in grado di regalare a Charles, la felicità che in quel momento Charles stava dando a lui.
Non importava che fosse confuso, intimidito e attraversato da contraddizioni fuorvianti. Era Charles e tanto bastava. Anche se c’era un sentimento così diretto che lo legava a lui, di cui Erik cominciava a preoccuparsi. Avrebbe rischiato di scoprirsi troppo con lui, prima o poi…
Erik…
Erik sorrise, il respiro affannoso, allontanando le braccia di Charles dalla sua schiena e bloccandogliele sul letto. “Nicht denken, nicht jetzt ” disse piano, con un sorriso in cui mostrò appena i denti, senza nemmeno accorgersi di aver parlato in tedesco. Charles capendo, annuì, ma il suo gesto fu spezzato da un altro gemito roco. Girò appena la faccia sul cuscino, socchiudendo le palpebre.
Erik gli passò una mano sulla fronte, leggermente sudata. Smise di stringergli i polsi, credendo di avergli fatto male. Charles scosse appena la testa dicendogli di no, continuando a guardarlo con quei dannati occhi onesti. Erik si chiedeva se non fosse stato attraverso quelli che Charles poteva esercitare la sua capacità  di leggere dentro agli altri. Dentro a lui. Ne era quasi intimorito…
 Charles gli mise le mani al lato del viso. C’era quasi la stessa  paura di Erik sul suo viso, ma Erik non era ingenuo. La paura di Charles era di una natura diversa.
 Non pensare, Erik. Stai… stai con me, stai con me…
Le mani di Charles sulle sue spalle, nell’incavo delle clavicole sembravano così pesanti…
Stai con me.
Erik sentì la sua testa svuotarsi e fu come se l’unica cosa rimasta da fare non fosse altro che Charles, scopare Charles, baciare Charles. Nient’altro di più semplice, di più piacevole, di più amabile.
 
._:_:_:_:_:_:_:_.
 
 
Charles si lasciò cadere sul cuscino, spossato. Sentì Erik fare lo stesso accanto a lui. 
Per un po’, rimasero entrambi a guardare i cristalli finti del lampadario sopra di loro, recuperando lentamente il respiro, spalla a spalla. 
“Mi dispiace per quello che ho detto.”
Prima ancora che Charles finisse la frase, Erik si girò verso di lui, tenendosi sul fianco e sorreggendosi la testa con la mano. Aveva gli occhi ancora leggermente brillanti, un rivolo sottile di sudore sulla tempia.
“L’avresti detto comunque, perciò, che differenza fa?” chiese, aggrottando le sopracciglia scure, perplesso. 
“Nessuna. Tutto.”  Charles si spostò più vicino a lui, appoggiando la testa sulla sua spalla, sorridendo appena. “Non lo so.”
“Charles, non darmi risposte confuse. Se per te questo va bene …” Erik nel dirlo si curvò un poco verso di lui, guardandolo dritto in faccia e obbligandolo a sua volta a guardarlo, mettendogli una mano a lato del viso. 
“… Puoi provare ad ammettere che sia così. Non è detto che cambierebbe in peggio.” concluse, lasciandosi ricadere sulla schiena lentamente. Charles, rimasto in silenzio, lo sentì prendere qualcosa posato sul comodino, per poi appoggiarsi alla spalliera, sospirando.
Dopo un momento, si tirò su anche lui, allontanandosi i capelli che gli erano ricaduti sulla fronte e cominciando a guardare dove fossero finiti i suoi vestiti. Non fu difficile. La stanza era fin troppo piccola.
“Quando ho detto che non volevo tornare a Richmond…” cominciò, lanciando un’occhiata di sfuggita ad Erik, alle sue braccia incrociate e all’espressione seria con cui fissava la luce color arancio del pomeriggio, fuori dalle intelaiature bianche della finestra. “Intendevo…”
“… Ti stavi sbagliando. Va bene, ho capito il messaggio” concluse Erik per lui.
“Non è vero. Ma è quello che dovevo dire. Non sono mai stato tanto sicuro di qualcosa, come adesso.”
Erik fece un verso spazientito. Facendo stancamente un cenno con la testa, indicò a Charles dov’era finita la sua camicia, ma vedendo che Charles non si muoveva, chiese: “Questa storia durerà ancora a lungo?” 
Storia?” domandò Charles, chiedendosi perché Erik si dovesse riferire a… No, non voleva pensarci. Riusciva solo a sentire un fitto, tormentoso dolore allo stomaco al solo pensiero di… 
“Questa storia di te che passi le ore in piedi a parlare di sciocchezze, arrabbiandoti per nulla” spiegò Erik, incurante dell’imbarazzo crescente di Charles. “…Per poi... Comportarti diversamente” concluse, accennando al letto sfatto e al disordine della stanza. Erik si frenò un momento, accorgendosi lui stesso di quanta insofferenza ci fosse nella sua voce, prima di riprendere, in tono più riflessivo:
“Davvero vuoi far finta che non sia successo?” chiese, chinandosi verso di lui, sfiorandogli il mento e cercando di sorridere, per quanto quella domanda fosse difficile da fare.
“O intendi usare i tuoi metodi?”
Charles scosse piano la testa. Era confuso ed Erik era furbo; voleva farlo parlare solo quando era così… vulnerabile. E tutto solo perché  lui era lì, vicino a lui. 
“No” disse infine.
“Perché?”
Charles lisciò le pieghe del lenzuolo tra loro con la mano, pensando a cosa rispondere sinceramente. Poi si portò la mano alla tempia, tenendo gli occhi bassi su quella stoffa bianca e ruvida.
Perché mi piace stare con te. Penso che non vorrei nient’altro, nient’altro che te. Sempre.
“Ecco. Lo sai” aggiunse Charles, parlando normalmente.
Erik, nel sentire la voce di Charles invadergli la mente, scosse la testa, poi fece un sorriso affilato e si sporse verso di lui, trattenendolo per le spalle e tirandolo dolcemente verso di sé. Charles si lasciò andare docilmente e si ritrovarono a baciarsi, lentamente, come se cercassero di prolungare il momento, come se Erik stesse cercando di fargli dimenticare ogni cosa che non fosse loro.
Charles avrebbe voluto che fosse davvero così.
Erik gli prese la mano e gliela avvicinò alla tempia, vincendo la debole resistenza di Charles, finché Charles stesso non lo assecondò. Sorrise appena contro le labbra di Erik e poi ricominciò a baciarlo, mentre con la mano libera gli circondava la testa, cercando quasi di aggrapparsi, come se scivolare fra i pensieri altrui potesse diventare pericoloso.
Forse lo era.
Charles chiuse gli occhi, sistemandosi davanti ad Erik. Percepiva solo visioni confuse, ma un’innegabile sensazione di felice abbandono, prese presto possesso di lui. Gli piaceva quel mondo, fatto di flebili suoni distorti e frasi spezzate che si perdevano tra un’infinità d’immagini, dove compariva soprattutto il suo stesso volto, visto con gli occhi di Erik. Charles vedeva il suo stesso viso anche adesso, percependo il desiderio di Erik in sintonia con il proprio, come se il suo respiro spezzato sulla pelle, nella realtà, non fosse abbastanza.
Scopami, pensò Erik. Forse lo disse, ma Charles era al di là di ogni confine materiale. Sentiva un debole senso di frustrazione crescere prepotentemente nella mente di Erik, le sue mani strette sulla schiena con le dita appena contratte. Come se lo esigesse, subito.
Charles gli sorrise, baciandolo ancora, per poi spostarsi, seguendo con le labbra la linea della mascella di Erik. Sentiva il desiderio crescere in lui, le membra formicolanti, la vaga percezione del sangue che gli scorreva nelle vene, annebbiando tutto ciò che lo circondava. Oh, Erik.
Lo avrebbe preso, sì,  ma Charles era sempre più tentato da quelle figure più scure che si affastellavano tra i pensieri di Erik, più lui aspettava. Altre cose interessanti da vedere, pensò ingenuamente, quelle che Erik cercava di tenere sempre fuori, anche adesso, mentre era lì con lui a permettergli di vedere i suoi pensieri. 
Colse bagliori di metallo e fiamme, ritrovandosi un giardino sporcato di neve, una strada in Europa. 
C’era Erik e poi non c’era. E poi vedeva ancora sé stesso, e si sentiva sempre più debole, sempre di più, man mano che capiva ciò che Erik provava per lui…
Charles. La voce di Erik lo chiamava, ma lui non sentiva. Non la voleva sentire adesso, l‘avrebbe portato via da lì. A che serviva? Era fin troppo dentro di lui, più di quanto potesse immaginare …
Ora era in una zona soleggiata e ventosa; il rumore di uno sparo, alte montagne in lontananza, comparve del sangue. Onore e sangue.
Erik si sentiva sempre più confuso, mentre le barriere che aveva creduto di erigere attorno a ciò che non voleva mostrare a Charles si facevano sempre più sottili. Avrebbe potuto abbassargli il braccio, ma l’idea di lasciarlo andare avanti a frugare tra le sue memorie non sembrava più tanto terribile adesso …
“Charles …” ripeté, quasi controvoglia, un misto di attesa e irritazione. Stava vedendo troppe cose …
Charles arretrò, ci provò, percependo il crescente fastidio di Erik e di nuovo quell‘immagine di sangue, sfumare nel nero. Voleva vedere di più, lo voleva con una punta di disperazione, ma controvoglia, si allontanò mentalmente da lui.
Era come indietreggiare nel nulla, lasciando ciò che sembrava essere l‘unica cosa vera. 
Gemette piano, quando Erik si distese meglio sotto di lui, anche se si erano appena sfiorati. Ora che stava uscendo dai suoi ricordi più profondi però, Charles si accorse di quanto Erik, il vero corpo di Erik, non solo il mondo della sua mente, fosse anche distante, mentre facendogli scivolare le mani sulle braccia, lo invitava ad abbassarsi, attirandolo un poco verso di sé. 
Charles cercò di cancellare quella sgradevole sensazione di lontananza, in fretta. Poi, Erik lo afferrò più saldamente per le braccia, come se volesse lottare, abbassandogli la mano che teneva vicino alla tempia con più decisione. 
Charles si sentì trascinare del tutto fuori dai pensieri di Erik, come se lo stessero strappando via dall‘unica presa sicura. L’immagine del sangue balenò un’ultima volta davanti agli occhi di Charles, mentre una lama scintillante scompariva nell’oblio, e il contatto si spezzò.
Charles riaprì gli occhi, tenendo appena le palpebre socchiuse, stranamente compiaciuto nel vedere l’espressione irrequieta di Erik. Ma poi la soddisfazione passò e improvvisamente tutto si fece immobile.
Si accorse di stare respirando affannosamente e che Erik non era più sdraiato sotto di lui, ma si era rimesso quasi seduto, appoggiato sui gomiti e lo scrutava, guardingo.
“Charles?” disse con voce roca, le sopracciglia leggermente incurvate. 
Charles deglutì, mordendosi il labbro inferiore. Si sentiva stranito, ma non c’era niente di nuovo in lui, né in Erik… niente di cui essere sorpresi.
Ma allora, perché tutto gli appariva così distorto?
“Io …” Inspirò profondamente, mentre la sensazione di oppressione al petto si faceva più forte, impedendogli di trovare la forza per parlare. Si chiese se Erik fosse arrabbiato, se avesse davvero capito cosa lui avesse visto. Cosa avesse cercato.
Poi lo vide scuotere il capo, come per scacciare un insetto o un pensiero molesto e gli tese una mano, sfoggiando un incerto, brillante sorriso. Charles sentì il senso di oppressione aumentare ancora di più, il viso irrigidito in una sciocca smorfia d’insoddisfazione. “Scusami.”
“Colpa mia” disse Erik con una alzata delle spalle, spostando lo sguardo da lui alla sua mano tesa, invitandolo ad afferrarla. “Era il momento sbagliato.”
Charles non domandò a cosa si riferisse Erik. Prese lentamente la sua mano ed Erik la strinse nella sua, tirandolo verso di sé. Erik sembrava essere diventato dannatamente protettivo, soprattutto quando circondò le spalle di Charles con un lungo braccio, baciandolo leggermente sulla tempia. “Siamo entrambi stanchi” mormorò.
“Sì. E’ senz’altro così” disse Charles annuendo e stendendosi con lui, sentendo la familiare stretta di piacere nel sapersi vicino così ad Erik, allontanare la sensazione di schiacciamento ed afasia.
“Non vuoi sapere cos’ho visto?”
Erik sospirò, passandosi una mano tra i capelli. Poi, socchiudendo lentamente le palpebre mormorò:
“Mi fido della tua capacità di giudizio, Charles.”
“Grazie” rispose Charles lentamente, anche se sapeva che non era la risposta che voleva dare. “Erik.”
“Che c’è?” Charles sentì la stretta del braccio di Erik allentarsi attorno alle sue spalle. Evitò di guardarlo in faccia, dicendo in tono cordiale: “Adesso dobbiamo andare. Si è fatto tardi.”
Charles scostò un poco le lenzuola, come per alzarsi, ma si era appena rimesso seduto, quando avvertì gli occhi di Erik su di sé. Sentiva formicolare la nuca, sapendosi osservato.
“Se davvero questa è una brutta situazione per te e se non credi di poterla gestire… Chiudiamola qui” disse Erik all’improvviso, senza dar peso al tono leggero con cui aveva parlato prima Charles, così che Charles che ci mise qualche secondo a realizzare che cosa l’altro gli avesse detto. “Come?”
“Finiamola qui.”
Charles aprì la bocca, ma appena per respirare, incapace di dire qualcosa. Erik lo fissò ancora per un po’, poi con un cenno, aggiunse: “Mi dispiace. Non avrei dovuto assecondarti. Avevi ragione.”
“E‘ per quello che ho visto?” domandò Charles in fretta. Non cercò più di evadere lo sguardo di Erik; rimase solo lì, impotente, a guardarlo. Gli stava dicendo qualcosa di sensato. Qualcosa con cui lo stesso Charles avrebbe dovuto trovarsi in accordo, perché pensava e aveva suggerito la medesima cosa, ma era così difficile sentire la voce della ragione parlare attraverso Erik, in modo così convincente, diversamente da lui.
“Non è per quello. Anche se mi da’ abbastanza fastidio, sapere che tu non ti sia fidato di me. Ma non voglio sapere cosa tu abbia fatto nella mia testa, ora. Stiamo parlando d‘altro.” distolse per un momento lo sguardo da Charles, sospirando. “Non riusciresti a convivere con questo nemmeno un attimo, non con quello che avremo da affrontare con Shaw…”
“Mi ritieni così debole? Certo, io cerco solo scuse, Erik. Ma tu sai cosa è vero” Charles si strinse nelle spalle, cercando di trovare il coraggio e le parole.
“Me ne sono accorto” commentò Erik. “Il problema è che sono scuse convincenti, sotto qualche punto di vista.” Si passò una mano tra i capelli, lisciandoli all’indietro, lentamente. “Hai ragione. Finiamola qui o non andremo mai avanti.”
“Tu sai che non lo penso davvero. Sai che non vorrei, non adesso che…” Charles si sporse verso di lui, le braccia irrigidite, la voce smorzata: “Non mi importa. Non me ne importa assolutamente niente, in verità, di quello che potrebbe succedere. Non ho mai preteso… E non ho intenzione di pretendere niente da te. Se correremo dei rischi per.. Questo… Non m’importa. Possiamo lavorare per la CIA e stare… così… gestire entrambe le cose.”
“Detto da te, Charles, suona abbastanza falso. Tu che non pretendi?” commentò Erik, ritraendosi leggermente da lui. “Come quando hai preteso che ti aiutassi con la CIA?”
“Non essere ingiusto adesso. Sai che non l’ho fatto. Lì, la scelta era tua.”
“Può essere stata anche una scelta, ma adesso sembra rivelarsi solo come un legame imposto.”
Charles si morse il labbro, contraendo appena le dita. “Non lo è, non lo è assolutamente, lo sai. Ti prego di credermi.”
Erik lo guardò, scettico. I ruoli sembravano essersi rovesciati, e si sarebbero rovesciati ancora ed ancora, finchè o dei due non si fosse deciso. Charles ne era conscio quanto lui, ma non appariva disposto ad ammetterlo.
“Ti sto dicendo la verità. ” replicò dopo, piuttosto aspramente, vedendo che Erik non parlava; controvoglia, si alzò dal letto, afferrando la sua camicia, abbandonata su una sedia, e se la rimise, abbottonandola il più rapidamente possibile, tenendo gli occhi bassi. Recuperati gli altri vestiti, finì di indossarli, cercando di levigare eventuali spiegazzature con le mani.
“Tu vedi questo come un errore” disse Erik in tono fermo. Non era una domanda.
“Errore, sì” rispose Charles, pensando a quanto quella parola fosse sbagliata ma tuttavia senza correggerlo.  Quando l’ultimo bottone fu al suo posto, sollevò gli occhi, le braccia abbandonate lungo i fianchi. Erik si era alzato ed ora era a pochi passi davanti a lui, la testa appena inclinata, le mani leggermente tese. Non sembrava affatto imbarazzato dal parlare senza avere addosso nulla; Charles sentì l’imbarazzo affiorargli in viso e distolse gli occhi da lui, mentre un’altra contrastante considerazione lottava contro quella maledetta voglia di Erik. 
Erik era bello. Molto più di bello probabilmente, e lui, Charles, non era niente di speciale. Per la prima volta si chiese cosa Erik ci trovasse in lui, che a parte qualche scarsa dose di charme e battute preconfezionate che funzionavano generalmente con le ragazze, non aveva nulla di specificatamente attraente.
“Lo vedi davvero come un errore?” gli chiese ancora Erik, interrompendo le sue divagazioni mentali.
“Succede, quando ci si fa’ trascinare e non ci si controlla” gli disse ancora Charles, senza battere ciglio.
“Adesso di cosa stai parlando?” domandò Erik incrociando le braccia. “Sei di nuovo confuso?”
Charles s’infilò la giacca, guardandolo con una risolutezza nuova. O forse era solo quella che aveva messo da parte quando aveva conosciuto Erik, che rifaceva la sua comparsa.
“Io mi sono fatto trascinare. Entrambi, forse. Sto rischiando di compromettere quello che ho detto alla CIA e questo…” Charles prese un sospiro; sapeva chiaramente di stare dicendo tutto il contrario di ciò che avrebbe dovuto dire ad Erik, prima di aggiungere: “Questo va contro me stesso e tutto quello che avevo deciso di fare.”
“Sarebbe mettersi a classificare mutanti, immagino”  mormorò Erik, spazientito.
“Sarebbe fermare Shaw e impedire che quelli come noi, si ritrovino a dover rivestire una posizione poco onorevole. Coesistere” spiegò Charles. “Non distruggere.”
“Non consideri che se Shaw vince, non saremo noi a doverci preoccupare di lui?” chiese Erik impassibile. Charles finse di non sentire quello che quelle parole significavano in realtà.
“E’ nostro dovere aiutare la CIA. Il genere umano.”
“Capisco questo” rispose Erik. “ Ma non capisco bene quello che tormenta te.”
“Tranquillo. Tu stesso hai posto la soluzione. Finiamola qui” Charles tese un braccio, come per dargli una stretta di mano. “E’ meglio per entrambi.”
Erik scostò la mano di Charles, invitandolo ad abbassarla. “L’ho detto perché penso che sia quello che tu voglia. Perché è quello che tu hai detto a me. Non ho forse ragione?”
Charles lo guardò negli occhi. Stranamente si sentiva rasserenato, nonostante la mancanza di spiegazioni da parte di Erik. Si aspettava di sentirsi debole od afflitto, ma a quanto pareva non era così. Voleva Erik, Erik lo sapeva. Ma non c’era altra soluzione, se volevano andare avanti. Quello stato di perenne confusione ed abbandono, quel sentirsi quasi intrappolato e dipendente da Erik, quel volerlo assecondare e capirlo e giustificarlo a tutti i costi, avrebbe potuto degenerare. Occorreva mettere le distanze. Doveva imporsele.
Il fatto che fosse stato Erik a prendere la decisione definitiva, rendeva tutto più facile.
“Credo tu abbia ragione, amico mio” Charles lo guardò e ora che lo aveva detto, si sentiva perduto, perché sapeva che la sua espressione tradiva esattamente l’opposto, di quello che in realtà avrebbe dovuto esprimere. Non era affatto giusto. Era come spalancare un abisso, era come darsi un colpo di grazia.
Prima che potesse trattenersi, in scanso alla dignità, all’onestà e al senso del dovere, disse: “Quando avremo finito, con Shaw, la CIA e il resto… Vieni a Westchester…” avanzò verso di lui, le braccia un poco allargate, fino ad essere del tutto di fronte a lui, a tenerlo saldamente per gli avambracci, il suo viso ad una così scarsa distanza dal suo. “Vieni a Westchester con me. Te ne prego, Erik. Quando avremo…”
Erik fece un mezzo sorriso. Sarebbe potuto apparire quasi perfido, ma in realtà faceva solo fatica a sorridere per tutta la tensione che aveva in corpo.
“Non sai nemmeno come finirà, Charles. Non chiedermi di fare promesse che non posso mantenere.”
“Non è una promessa” mormorò Charles, infiacchito da quello che credeva essere sarcasmo. “E’ solo… solo una richiesta…” avvicinò ancora un poco di più il viso a quello di Erik, inclinando appena il capo. L’immagine di quando lui stesso l’aveva respinto nel parco, un paio d’ore prima, gli balenò nella testa. Era ipocrita, così ipocrita da parte di Charles… ma non poteva farne a meno. Solo lui ed Erik, solo lui ed Erik, chiusi al sicuro e niente di mezzo, nessun ostacolo, nessun pericolo… Tutto il contrario di quello che avrebbero dovuto affrontare alla Cia se avessero… Ma Charles poteva convincerlo a cambiare idea, lo sapeva.
Erik si chinò un poco verso di lui e Charles azzardò un sorrisetto di trionfo che svanì, non appena Erik si divincolò dalla sua presa, mettendogli le mani sulle spalle e allontanandolo da sé. 
“Devo vestirmi, Charles. Siamo in ritardo” lo oltrepassò senza nemmeno un’occhiata. Charles lo sentì armeggiare con la cintura, ma non si voltò. Si sentiva fin troppo affaticato e incapace di lottare ancora. Ma doveva farlo o avrebbe perso tutto. Avrebbe perso Erik.
“Cosa dobbiamo fare?” chinò appena il capo, tendendo l’orecchio e fissando la brutta moquette.
“Andare a Richmond” rispose Erik con fin troppa tranquillità. Troppa, perché Charles la potesse sopportare. Si voltò di scatto, sollevando un poco la testa, come se lo volesse sfidare.
“Per te è sempre tutto chiaro, non è vero? Se c‘è un problema, basta una soluzione netta.”
Erik smise di allacciarsi la camicia, fermandosi a guardare un momento davanti sé. “Può essere” disse infine con un’alzata di spalle. “Ma preferisco essere così che intrecciare compromessi che non riuscirei a gestire.”
Charles sapeva che quella era una diretta critica al sui modo di fare, anche se lui si sarebbe permesso di definirlo ‘diplomatico’ e non con i termini brutali usati da Erik, ma ebbe la lungimiranza di non ribattere.
Non voleva litigare con Erik.
“Non voglio litigare con te, Charles.”
Charles vide che Erik lo stava di nuovo osservando, forse aspettandosi una reazione d’ira o di nervosismo. Ma Charles non era così; Erik aveva giusto, poteva capire, poteva capire perfettamente.
“Non lo voglio neanch’io. Ma ho paura che possa diventare un‘eventualità” Charles non voleva dire perché. Sperò che Erik capisse lo stesso. La delusione di averlo avuto e di doversene distaccare così, gli sembrava un motivo dolorosamente ragionevole che non aveva bisogno di ulteriori parole.
Solo... Charles non capiva se fosse lo stesso anche per Erik e questo lo stava davvero destabilizzando.
“Sono stato egoista a non pensare alle conseguenze che questo avrebbe avuto” mormorò Erik prendendo la giacca e dandogli le spalle. “Se tornassi indietro…”
“No” replicò Charles. “Sei stato solo onesto. E non ho intenzione di fartene una colpa, amico mio.”
Sei adulto, fattene una ragione, pensò Charles, scrutando con odio il suo riflesso nello specchio nell’angolo.
Si chiese se quella critica fosse rivolta a lui o ad Erik. Preferì non rispondersi.
“Come se non fosse successo” disse Erik, mentre Charles si avvicinava alla porta, sfilando le chiavi della macchina dalla tasca. Uscire da lì, da quella piccola stanza scadente, uscire alla luce, all’aria fresca.
“Ti sbagli” Charles sorrise, cercando di essere cordiale e mascherare quello che in realtà cominciava a prendere forma dentro di lui, nel suo cuore. Il male che Erik gli stava facendo e quello che lui stava facendo a sé stesso, con quella volontà di costruire quella che a tutti gli effetti sarebbe stata una menzogna, sorretta da entrambi, come una barriera.
“Stanno solo cambiando le cose. Ti aspetto alla macchina. Non metterci troppo, Erik.”
Erik annuì, ma Charles non lo vide, era già fuori  e aveva chiuso la porta della stanza dietro di sé.
Era arrivato a metà del corridoio, un lungo corridoio intervallato da basse luci, piante scialbe e strette finestre, quando sentì una fitta al petto, attraversarlo come una scarica elettrica. Si mise una mano sotto alla giacca, aprendosi in fretta un bottone della camicia. Si toccò, ma non c’era niente, solo quel dolore al costato, che saliva alla gola, rendendogli difficile respirare. Quel dolore che in realtà era solo la traduzione fisica della sua rabbia e della sua frustrazione. Si appoggiò con la fronte alla parete e prima di potersi trattenere, la colpì con un pugno deciso, con un calcio e ancora con un altro pugno.
L’avrebbe colpita ancora ed ancora, fino a sfinirsi, se le nocche non avessero cominciato a fargli male.
Si accorse delle lacrime solo perché anche il naso aveva cominciato a colargli. Charles aveva imparato da tempo a piangere senza emettere suoni.
I bravi ragazzi piangevano in silenzio, ricordò.
I bravi ragazzi piangevano in silenzio e non si facevano vedere da nessuno, per questo Charles si passò le maniche della giacca sul viso, asciugandosi gli occhi umidi e dopo un’ultima occhiata dietro di sé, le chiavi strette in mano, scese al piano inferiore.
 
O__O___O__O
 
 
L’odore di zolfo si mischiò a quello di bruciato e rimase a veleggiare nell’aria, finché il fumo della sigaretta non ne prese il posto. Erik cercò un posacenere, individuandolo su un mobile basso coperto da riviste scolorite. Lo prese, rimanendo a guardare la punta della sigaretta consumarsi in bagliori rossastri e pulsanti, lasciandosi dietro solo una piccola colonna di cenere. La scosse appena, in modo che si disintegrasse in frammenti grigi e ossei, nel vetro graffiato del posacenere, prima di posarlo e spegnerla del tutto, dopo solo qualche tiro. Riprese il pacchetto abbandonato sul letto, quello che aveva nascosto a Charles a Savannah, rimettendoselo nella tasca della giacca, non dopo averlo guardato e non dopo aver pensato che, diavolo era di Charles. Non si era posto alcun problema nel prenderlo, a sua insaputa, senza spiegargli nulla.
Era una breve versione di quello che aveva fatto adesso.
Recidere senza spiegare, cercando di farla apparire come la decisione più giusta e sensata. E forse sensata lo era davvero, ma Charles era troppo…
Si era fatto coinvolgere troppo, come lui, ma diversamente da Erik, non sarebbe mai riuscito a stabilire quali erano le priorità, stabilirle in modo definitivo.
La priorità di Erik era diventata Charles e lui non se la sentiva, non se la sentiva affatto di permettergli di continuare a tormentarsi per quello che era successo, nonostante fosse stato qualcosa che sia Erik che Charles avessero trovato più che giusto. Era stato qualcosa di vero, ma andava cancellato o Charles avrebbe rischiato di dare di matto, col suo tentativo di far coincidere tutto, fare in modo che tutto avesse una soluzione, in modo da ottenere tutto quello che voleva.
Erik sapeva che non avrebbe avuto pace finché  Shaw respirava e quella sua volontà prima o poi si sarebbe scontrata con gli ideali speranzosi di Charles e tutto si sarebbe risolto in un conflitto.
Il conflitto di interessi fra loro ci sarebbe stato comunque, rifletté Erik avvicinandosi alla finestra e scostando appena i listini della tapparella. Sarebbe stato più facile da sopportare se avessero già cominciato a dividersi prima, pensò ancora Erik, guardando il frammento di cielo arancio che si intravedeva fuori.
Non ci credeva, ma poteva sempre fare finta.
Se solo Charles lottasse un poco di più… Erik cercò di scacciare quel pensiero, perché se Charles si fosse dimostrato anche solo un poco più deciso su quello che avrebbero dovuto fare loro due, Erik gli avrebbe dato ragione e… Maledizione, l’avrebbe seguito a Westchester, l’avrebbe coinvolto il più possibile, spiegandogli la necessità di uccidere uomini come Shaw, l’avrebbe convinto e … Sarebbe stato con lui, sempre.
Come se Charles fosse suo e di nessun altro. Togliere di mezzo ogni ostacolo che minacciava di allontanarlo o di separarli, ecco cosa avrebbe fatto Erik. Avrebbe costruito una bara per chiunque avesse osato fargli del male.
Ma Charles non l’avrebbe accettato, lui lo sapeva. Perché se c’era una cosa chiara, tra i suoi pensieri confusi, era che i piani di Erik possedevano una componente troppo negativa ed egoista che avrebbe potuto comprendere ma non giustificare e si sarebbe aggrappato troppo, all’ideale di correggere quella che per Erik era la necessità di tutta una vita. 
E persino i ricordi di morte che occupavano la testa di Erik, gli sarebbero apparsi irrisori.
Lo sguardo di Erik, si concentrò ancora un poco sul triste paesaggio urbano alle cinque del pomeriggio, sotto alla luce del sole che faceva capolino tra le nuvole striate. Era davvero un peccato non poter vedere il parcheggio da lì. Non poter vedere Charles senza sapere che lo stava osservando.
Forse, se Erik fosse stato in grado di ammettere di aver sbagliato, enormemente sbagliato, nell’avvicinarsi a Charles la sera prima, autogiustificandosi con la presunta scusa dell’ubriachezza di Charles…
Se avesse considerato quello come un errore e non come una cosa giusta…
Non ci sarebbe stato bisogno di costruire una distanza tra loro.
Le mani di Erik si aggrapparono ai listelli, stringendoli tra le lunghe dita, fino a deformarli, le tende appena ondeggianti. C’era solo rabbia dentro di lui e non se ne sarebbe sbarazzato mai. Charles rappresentava la sua soluzione, ma Erik non se la sentiva di coinvolgerlo nel suo egoismo. Tutto doveva distruggersi, perché quella era l’unica soluzione contemplata, se la soluzione vera non c’era.
Erik sperava che tornando a Richmond la vita di Charles cancellasse quello che era stato, come una sciocca cosa passeggera. Forse, il pensare di essere importante per Charles non era stato niente di più che una sua personale presunzione, una sua … le cose cambiavano sempre. Sarebbero cambiate ancora.
Charles avrebbe imparato a conviverci, magari a dimenticare. Erik a rimanere in silenzio e a non farsi dominare dai suoi impulsi, dal suo desiderio. Doveva solo trasformarli in cenere.
Erik sfilò il pacchetto di Benson&Edges dalla tasca, gettandolo sul letto, tra le coperte sfatte senza guardare.
Decise di aver fatto passare abbastanza tempo. Era ora di raggiungerlo.
 
CONTINUA.
 
….Forse.
 
 
 
Exelle, Author’s Corner
 
Come penseranno in molti, come secondo debutto (Esisteranno i secondi debutti?) nel mondo dello slash, questa FF forse non sarà all’altezza della prima.
 Per cominciare è leggermente più corta. Poi.. Bè, non ha una citazione tratta dai Rammstein, e in più parla di separazione. Poi… Oh, credo abbia un sacco di difetti. Dialoghi confusi. Una trama un po’ stazzonata. Situazioni paradossali. Melanconia a palate. Un Charles un po’ raggirato, un po’ vittima della sua stessa ipocrisia. Volevo inserire un’illuminate diatriba sulla situazione degli omosessuali negli anni ‘60, sulla scia dell’ispirazione fornita da Allen Gingsberg… Chissene, per ora. Sapere come gira tra Erik e Charles è più importante, non è vero?
La mia preoccupazione principale riguardo a questa FF, è la sua paccosa cerebralità. 
Fatemi un favore, se è noiosa o avete quesiti di altra natura, ditemelo. Le recensioni sono sempre un ottimo incentivo per un seguito, ecco la verità.
Ringrazio coloro che hanno mandato messaggi e lasciato una recensione nella prima parte di questa storia, augurandomi di ritrovarl\i con rinnovati consigli anche per The Sweet Ashes.
Per  questa settimana ritengo sia tutto.
 
                                                         Saluti, 
                                                                        
  
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > X-men (film) / Vai alla pagina dell'autore: Exelle